CONGRESSO RADICALEdi Gianfranco Spadaccia
SOMMARIO: Il Congresso di Napoli (31 ottobre, 1, 2, 3, 4 novembre 1976) ha confermato la validità del progetto referendario ("8 referendum contro il regime" - abrogazione del Concordato, dei tribunali militari, delle norme del Codice penale che puniscono i reati d'opinione, della legge che consente la segregazione nei manicomi, della legge che attribuisce alla polizia poteri speciali in materia di arresto, perquisizioni e intercettazioni, della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, della Commissione inquirente). La contrapposizione fra politica dei diritti civili e quella "economica e di classe". Le critiche alla gestione del congresso.
(PROVA RADICALE, dicembre 1976)
Il congresso di Napoli ha confermato quasi all'unanimità la validità del progetto di referendum, individuando ancora nei diritti civili, nella "politica da marciapiede", nella lotta a fianco di tutti gli emarginati la chiave di volta per l'alternativa socialista e libertaria. Al congresso è stata espressa l'esigenza di un impegno diretto del partito anche sul terreno economico. Era un'esigenza giusta, accompagnata però da risposte sbagliate e soprattutto con i tempi di risposta sbagliati, che non tenevano conto delle necessità di crescita del partito. Le esigenze giuste sono state accolte, ciò che di sbagliato c'era nelle risposte e nei tempi non è stato ricevuto. In questo senso il dissenso era fragile. Il problema di affrontare le lotte economiche non può ad esempio essere né affrontato né risolto dal partito radicale con formule ripetitive e fallimentari, già sperimentate negativamente dai partiti tradizionali della sinistra e dalle forze "rivoluzionarie". Trasferire la metodologia dell'intervento radical
e - con battaglie specifiche e vincenti - sul terreno economico comporta inoltre un lavoro di elaborazione, una capacità di progetto che il partito non ha ancora, e che si deve conquistare, individuando anche gli strumenti per conquistarselo. Ma ci sono tempi obbligati di crescita.
Non si può su questo piano, dimenticare che il partito è un partito di progetti, in cui l'elemento di unità è dato dal progetto politico di lotta che unifica i radicali per l'anno successivo, su obiettivi specifici, individuati nel momento congressuale. Se il partito non riesce a realizzare su certi temi momenti, obiettivi di lotta, allora il problema non può essere risolto con la mozione congressuale. Se avessimo accettato questa logica, avremmo reimmesso le logiche tradizionali, e soprattutto avremmo alterato, profondamente, la dinamica, di partito di progetto propria del partito federativo.
Nel congresso è emersa anche una semplicistica contrapposizione tra la politica dei diritti civili e quella cosiddetta "economica o di classe". C'è stato persino qualcuno che all'interno del partito ha preteso di riproporre la distinzione tra liberali e socialisti; un episodio marginale, ma che dà la misura della grossolanità di quella contrapposizione.
Chi contrappone diritti civili a lotta di classe e problemi economici si basa su una concezione che avuto largo corso, è stata egemonica per trent'anni all'interno della sinistra: "Diritti civili? Lotte di retroguardia, marginali, conquiste ritardate della mancata rivoluzione liberale ottocentesca". E' vero solo a metà: in "questa" società, e non soltanto in Italia, le lotte per i diritti civili, lotte di liberazione, di emancipazione: nuove lotte di emancipazione di classe, del tutto analoghe alle lotte di liberazione che nascevano all'inizio del secolo, e si sviluppavano anche lì, non a caso, attorno a diritti politici e civili. Cos'era la lotta per il diritto di sciopero se non un movimento di classe attraverso il quale un'intera classe sociale acquisiva coscienza della sua forza e diventava protagonista della lotta politica? E la leva fondamentale fu il riconoscimento del diritto di sciopero, del diritto di organizzazione in fabbrica; quella specie particolare di diritti politici e civili che è costituit
a dai diritti dei lavoratori in fabbrica.
Allora, la contrapposizione tra una posizione, diciamo liberale o libertaria, che con il classismo non coinciderebbe, è molto grossolana. Si è poi presentata in congresso una esigenza di "globalità", contrapposta alla specificità delle tematiche radicali. Altro errore grave: stiamo attenti, anche qui la tradizione radicale autentica si ricollega alla migliore tradizione della classe operaia, le cui lotte, ogni volta, sono state specifiche, attorno a temi specifici: anche le lotte economiche; l'abolizione della tassa sul macinato, la riforma agraria, per ricordare solo i settori contadini: e lo stesso accadeva nel mondo operaio. C'erano analisi globali, magari, gli obiettivi erano e dovevano essere su lotte specifiche. La tesi della globalità è sicuramente un fatto antiradicale ma va anche contro le lotte, le grandi lotte che abbiamo conosciuto della classe operaia. Anche quelle recenti; cito solo l'abolizione delle gabbie salariali.
Il partito una scelta di classe l'ha fatta, nel 1967. E se i primi congressi dovettero concentrarsi soprattutto su temi specifici, divorzio, eccetera, almeno dal 1971 in poi, dal congresso di Torino, il discorso socialista è molto chiaro. Andiamo a rileggerci le mozioni. Non c'è stato quindi nessun mutamento qualitativo, anche se in termini di dinamica interna di partito c'è stato movimento ed anche "rinnovamento". Molta gente nuova è venuta, si sono presentati problemi di metodo, di linguaggio anche, di confronto di esperienze diverse; è la novità e l'eccezionalità di questo partito che in questi anni, unico in Italia, continua a crescere. E credo che si possa dire soffermandoci su questo punto, che la forza del partito radicale è nel fatto che vi arriva può non aver recepito la metodologia radicale nella sua, diciamo così, ricchezza e complessità, ma alcuni nuclei fondamentali, e non solo di "prassi", li ha recepiti dalla chiarezza ideale dell'impostazione. La nonviolenza, per esempio, è una demarcazione t
almente forte da non consentire equivoci. Proprio perché si è radicali e non violenti e quindi radicalmente estranei all'illusione della violenza rivoluzionaria, possiamo poi difendere le Brigate Rosse dalla repressione; ma non vi è nessun paragone possibile con l'ambiguità di fondo di quanti teorizzano, rivendicano, la rivoluzione armata e con i gruppi che la praticano. E su questa chiarezza di impostazioni la costruzione del partito è relativamente facile, senza conflitti tra vecchi e nuovi.
Ciò spiega anche, al di là di certe interpretazioni della stampa, sbagliate e anche scorrette, il ricambio della classe dirigente del partito, che anche a Napoli è stato importante. Il partito, diciamo dal 1962 al 1972/73, si è mosso sull'iniziativa di non più di dieci persone, mentre tutti i radicali d'Italia non erano più di duecento (che poi riuscivano a costruire organizzazioni di massa come la LID e a vincere battaglie come quella dell'obiezione di coscienza, ecc., per migliaia e migliaia di cittadini, di proletari, di militari, ecc.). Queste dieci persone avevano un disegno comune, andavano controcorrente, contro la corrente dominante anche nella sinistra. Ma in dieci anni questo gruppo è entrato in crisi, consumato dalla lotta. E allora, in questi ultimi tre, quattro anni, s'è cominciato a formare un gruppo, quasi del tutto nuovo, nato da una base militante nuova. Il vecchio gruppo dirigente di dieci persone, che secondo la stampa "decide tutto", in realtà come tale non esiste più, a tutti i livelli,
già nelle scelte di vita personali di quelle dieci persone. Allora è vero esattamente il contrario, e cioè che "nessun partito" come questo, in tre anni ha rinnovato la sua classe dirigente.
Qualcuno, anche al congresso di Napoli, ha criticato questa dinamica. Penso a Giulio Ercolessi, a Teodori, ad esempio. C'è stato e c'è chi ritiene che il partito sia fatto di gente impreparata, incapace di prepararsi; che messa alla prova dell'impegno parlamentare, o di amministratori comunali, o di direzione del partito, fallirebbe. E' vero esattamente il contrario. Il partito, attraverso le lotte militanti, ha formato quadri politici, in un processo che andrà avanti con una accelerazione che sarà sorprendente per tutti. E' chiaro che se si pensa che esiste da una parte l'intellettuale preparato e dall'altra il militante, non si capisce nulla di quello che avviene. Un partito non si forma nelle scuole-quadri, né nelle biblioteche, ma a partire dalla prassi e dalla lotta. Anche per quanto riguarda la preparazione intellettuale. Nei meccanismi interni del partito non esistono i "preparati", i preparati una volta per tutte, quelli che "nascono" preparati, e gli altri. Come Teodori, per esempio, che è "preparat
o", ma è stato assente per cinque anni dalle lotte del partito, le sue esperienze le ha fatte altrove, e le ha fatte puntando sull'autonomia completa dalle lotte e dal disegno radicale. Mi riferisco all'ARA, che non ha avuto un grande successo.
Vorrei ora tornare un momento al congresso di Napoli, al suo svolgimento. Mi pare che questa volta vi siano state meno critiche che non rispetto al congresso straordinario di luglio. A Napoli hanno partecipato circa milleduecento persone di cui almeno seicento militanti del partito. Il problema che si imponeva, di fronte alla prospettiva di un congresso così numeroso (era già emerso con l'esperienza romana di luglio) era di far sì che ciascuno dei partecipanti avesse il maggior spazio di intervento e di partecipazione possibile. Di qui la mia richiesta di riduzione dei tempi di intervento, preceduta dalla rigorosa autoriduzione, cui sia il tesoriere che io stesso ci siamo attenuti, delle relazioni iniziali: mezz'ora ciascuno. Credo di poter dire che in definitiva nessuno è stato conculcato nei suoi diritti. Il congresso, tra dibattito generale, commissioni, discussione sulle mozioni, ha registrato almeno duecentocinquanta interventi, forse più, mentre nei congressi degli altri partiti in quattro giorni non p
arlano più di cento persone. E' stato sollevato il caso di Ercolessi, cui sarebbe stata tolta la parola (dopo venti minuti di intervento): la stampa ha sfruttato l'episodio. Ma nessuno ricorda oggi che Ercolessi ha fatto tre interventi in commissione, uno in sede di dibattito generale, un altro per dichiarazione di voto; ha avuto, insomma, tutte le possibilità di esprimersi.
Anche il lavoro delle commissioni può essere definito fruttuoso. Ancora una volta è stato sollevato il sospetto che si sia voluto, dirottando subito il congresso nelle commissioni, strozzare il dibattito a momenti meramente "tecnici". Ma il significato delle commissioni, quale è, nei congressi radicali? E' proprio quello di offrire, invece, un ulteriore strumento di ampia partecipazione alla politica e alle "scelte" congressuali. Tutte le tre commissioni erano sedi di dibattito generale, a partire da grossi temi politici.
Una prova? Basta analizzare le conclusioni contenute nelle tre relazioni; vediamo che sono state recepite nella mozione generale e forniscono una base di lavoro per il consiglio federativo. E nella definizione dei referendum, accanto a quelli che chiamiamo "di base" ve ne saranno altri, ma con riferimento alle proposte avanzate nelle commissioni. Mi pare insomma - proprio prendendo a raffronto quanto accade in altre organizzazioni - che il meccanismo congressuale radicale consenta, con tutte le difficoltà che occorre affrontare per gestirlo bene un "modello" strutturale avanzato. Il congresso di Lotta Continua è stato messo in crisi dell'emergenza dell'autonomia femminista, e in generale del "personale", nell'ambito della rigida struttura organizzativa. Se qualcosa di simile fosse accaduto tra noi, sarebbe stato un dato di vitalità, e avrebbe segnato magari la nascita d'un'altra organizzazione federata.
Cosa che in parte ha cominciato a verificarsi, per iniziativa di alcuni dei gruppi più "periferici": per esempio il gruppo delle Marche, che mi pare nella sua dichiarazione di voto abbia mostrato di capire il meccanismo federativo. Se si sente l'esigenza dell'Unione Consumatori, l'Unione Consumatori non può nascere per "dichiarazione" di volontà del congresso, perché il gruppo dirigente decide che occorre farla. Può nascere, invece, se comincia a crearsi, a darsi le gambe, a trovare le strutture autonome per crescere. Da questo punto di vista, ha dimostrato di saper camminare dentro il partito proprio (e i compagni mi perdonino l'immagine, che è affettuosa) che le gambe non ha, gli invalidi in carrozzella: si sono fatti gli scivoli al congresso, hanno assicurato la loro partecipazione, hanno creato la loro organizzazione, esattamente come era avvenuto con il Movimento Liberazione della Donna, il CISA e tutti gli altri movimenti. Questo è il modo di essere del partito. Almeno se vogliamo davvero che esso sia
un "servizio" per la crescita nella società di movimenti forti ed autonomi, di lotta alternativa.
Non possiamo dimenticare che, nella generale crisi della dialettica democratica sia in Parlamento che nel paese, gli unici dati di opposizione reale sono quelli che siamo riusciti a mettere in piedi proprio noi, dalle Leghe al meccanismo del referendum. Non siamo noi a dirlo, sono i nostri avversari ad averlo capito, come ha dimostrato il comportamento degli organi di informazione rispetto al congresso, tutto teso a travisarne contenuti, svolgimento e conclusioni politiche.