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Spadaccia Gianfranco - 15 gennaio 1977
Molto fronte, poco cervello
La sinistra nel fronte delle astensioni

Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Il Partito comunista italiano, dopo le elezioni del 1976 percorre con decisione la strada del "compromesso storico". L'obiettivo è quello di entrare nella maggioranza di governo con la Democrazia cristiana. Il primo passo è l'astensione nel voto di fiducia al governo presieduto da Giulio Andreotti. Il Pci la chiama "non sfiducia programmatica". In questo articolo Gianfranco Spadaccia afferma che il Pci percorre la stessa strada fallimentare che il Psi ha già percorso negli anni '60. Ma il Psi aveva alle spalle la riserva democratica di milioni di voti comunisti. Distruggeva se stesso ma non la sinistra, non il sindacato. Oggi questa riserva non c'è più. Per battere questa politica Spadaccia esorta i militanti del Partito radicale a mobilitarsi per l'organizzazione dei referendum per l'abrogazione del Concordato, della legge Reale, del codice Rocco nelle sue norme illiberali, della legge per il finanziamento pubblico dei partiti e dei tribunali militari..

(Notizie Radicali n. 1 del 15 gennaio 1977)

Dove stiamo andando? Dove ci sta portando la politica del Pci e del Psi? Cosa ci aspetta dopo questi primi sei mesi di "non sfiducia" e di politica delle astensioni, che è stata in pratica l'avallo della sinistra al governo democristiano dell'on. Andreotti?

Il governo d'emergenza, cioè un governo di unità nazionale che includa i comunisti almeno nella maggioranza, è l'obiettivo del Pci e del Psi. Un'altra ipotesi, subordinata e per ora nettamente minoritaria, è quella di un governo di collaborazione che reimbarchi i socialisti e alcuni dei partiti laici minori, con l'avallo tacito o ufficiale del Pci. Si tratta di due variabili tattiche di una stessa strategia: quella che affida le possibilità di ripresa del paese, di consolidamento della democrazia repubblicana, di nuovo sviluppo economico e civile all'unica ipotesi di una cogestione interclassista dello stato e della società, con la Democrazia Cristiana e con le forze e gli interessi sociali che essa rappresenta.

Il nostro torto, agli occhi dei vertici dei due maggiori partiti di sinistra, è di dire a chiare lettere che questa è una strada senza prospettive, in fondo alla quale c'è soltanto il fallimento della sinistra, l'aumento della disgregazione politica e sociale, l'aggravamento della crisi istituzionale, la caduta delle speranze alternative che hanno contrassegnato la stagione politica dal 13 maggio del 74 al 20 giugno del 76.

Vediamo con amarezza ripercorrere dal Pci le strade già percorse dal Psi negli anni sessanta. Vediamo restituire nuovamente, esattamente come allora, ad Aldo Moro il ruolo di demiurgo delle mediazioni e delle "convergenze". Fra astensioni e compromessi, mediazioni e convergenze, il regime può produrre solo nuova disgregazione e nuova corruzione.

Nel luglio scorso Enrico Berlinguer, nel giustificare la "non sfiducia" al governo Andreotti, disse che il Pci avrebbe fatto sentire attraverso le astensioni il vecchio artiglio dell'opposizione comunista. Un altro leit-motiv del Pci fu quello dei "nuovi rapporti" fra Parlamento e governo. Forte di alcune posizioni-chiave conquistate con la Presidenza della Camera affidata al compagno Ingrao, e con le Presidenze di importanti e determinanti commissioni parlamentari, il Pci disse che il Parlamento avrebbe tallonato il governo. Si proponeva in altri termini di far valere i nuovi rapporti di forze parlamentari per inseguire il governo minoritario dell'on. Andreotti, condizionarlo nella sua azione, costringerlo a scegliere. L'equazione era: governo debole = parlamento forte.

Cosa resta a quasi sei mesi di distanza di queste orgogliose determinazioni, di questi ambiziosi propositi?

Lungi dal condizionare il governo, il Pci ha dovuto subire i condizionamenti che la situazione politica e gli equilibri che ha deciso di accettare e di salvaguardare, gli hanno imposto. Lungi dal tallonare il Governo, il Parlamento è stato letteralmente "occupato" dal governo con tutta una serie di decreti legge che ne hanno praticamente paralizzato ogni altra attività. Le illusioni assemblearistiche sulle quali si faceva affidamento per aumentare il potere e l'influenza del Pci hanno presto mostrato la corda. L'equazione Governo debole = Parlamento forte si è ribaltata: Governo debole = Parlamento debole.

Un governo debole - hanno sostenuto i nostri compagni deputati, ripetendo nel dibattito sulla situazione economica una vecchia tesi radicale - è per definizione un governo omogeneo agli interessi del regime, della Democrazia Cristiana, delle grandi baronie del potere economico e politico, delle corporazioni, del sottopotere e del parastato. Nulla di più errato che sperare che possano trarne vantaggio la sinistra, i sindacati, le classi sociali che la sinistra e i sindacati rappresentano. Meno che mai possono trarne vantaggio la sovranità del Parlamento e le istituzioni e la legalità repubblicana.

La DC si è servita e si serve di questo governo per scaricare sul Parlamento e su una sinistra che potrebbe già oggi, se ne avesse la volontà, essere maggioritaria, le proprie contraddizioni interclassiste e la crisi del suo regime. Per questa via la sinistra rischia ogni giorno che passa di pagare sempre di più i costi politici della crisi del regime democristiano e di farne pagare in misura sempre più grave i costi sociali alla classe operaia e ai ceti più deboli e indifesi. Ma ciò che è più grave, questi costi sono pagati senza che ad essi corrisponda una svolta politica, economica e sociale tale da far sperare in un profondo cambiamento e in una rapida ripresa e rinascita democratica del paese. Essi al contrario aprono soltanto la strada ad una restaurazione aggiornata, non volti nuovi (qualche Caloni e Bodrato in più, qualche Rumor e Colombo in meno) e metodi nuovi di governo (meno smaccatamente corrotti), del vecchio regime democristiano e dei suoi meccanismi di potere.

A parole questo governo esprime oggi l'equilibrio politico più spostato a sinistra che si possa ottenere nell'attuale situazione politica interna e internazionale. Proprio per questo il governo Andreotti si è potuto permettere una serie di misure antipopolari che nessun governo e nessuna maggioranza dichiaratamente di destra ha la forza di imporre al paese. Cinquemila miliardi di stangata. Blocco di fatto dei salari e probabilmente una forte decurtazione e limitazione delle possibilità di recupero della scala mobile. Aumenti generalizzati delle tariffe pubbliche. Il latte a 340 lire il litro. Decine di migliaia di famiglie, fino a ieri dentro l'illusorio benessere del regime, che questo inverno si sono dovute porre il problema di rinunciare alle spese di riscaldamento. Non parliamo dei disoccupati, dei poveri, degli emarginati, dei pensionati e in particolare della massa dei vecchi a pensione sociale.

E a fronte di tutto questo? Gli unici investimenti produttivi che il governo è in grado di assicurare a brevissima scadenza riguardano un aereo militare (l'MRCA, 2000 miliardi in pochi anni). Nessun taglio della spesa pubblica improduttiva (mentre il governo laburista ha tagliato i propri bilanci di circa duemila miliardi di lire per il 1977 e prevede un taglio di oltre seimila miliardi per il 1978). Una legge di riconversione industriale (seimila miliardi in cinque anni) che getterà una massa di finanziamenti pubblici nella voragine senza fondo dei deficit della grande industria pubblica o semipubblica italiana senza riconvertire o ristrutturare nulla. Nessuna riforma nel campo della sanità, dell'assistenza (per le quali sopportiamo le più alte spese d'Europa per avere i peggiori risultati), della scuola, dei trasporti pubblici, dei servizi sociali.

Di fronte a questa situazione gli Spaventa, i Signorile, i Napoletani, i Barca, i Peggio continuano come in una litania a chiedere le contropartite, a parlare di riforme che il governo dovrebbe fare, a criticare la politica dei due tempi (i sacrifici oggi, le riforme poi si vedrà...), a sollecitare l'aumento della domanda pubblica che dovrebbe compensare la restrizione della domanda privata. Ripetono cioè le stesse cose che abbiamo sentito ripetere dagli economisti di sinistra da almeno quindici anni, come se tutte queste cose potessero davvero essere attuate da un governo democristiano, come se davvero fosse possibile che il regime per attuarle potesse mettere in crisi se stesso, cioè le basi stesse del suo consenso e del suo potere. I sindacati sono a rimorchio. Gli scioperi contro le crisi economiche, per l'occupazione, per le riforme sono ormai divenuti una sorta di rituale ripetuto in maniera sempre più stanca. C'è da meravigliarsi se cresce la protesta corporativa contro i sindacati anche in categorie

che hanno sempre avuto una forte e ben radicata tradizione di sinistra?

Nessuno però si preoccupa, in una sinistra sempre tesa a rivendicare inutilmente interventi e riforme strutturali, di chiedere e di ottenere almeno alcune, anche modeste e limitate, ma urgenti e necessarie, misure congiunturali per i ceti maggiormente colpiti dalla crisi e da questa politica di austerità a senso unico. Nessuno ad esempio si preoccupa di chiedere un aumento consistente dei minimi di pensione e delle pensioni sociali.

Ma se questa è la situazione economica, su tutto il resto del fronte politico e parlamentare lo scotto pagato dalla sinistra è già stato assai grave e rischia di divenirlo sempre di più. Dal Concordato ci ha già offerto una serie significativa di esempi illuminanti.

Sul Concordato per anni i comunisti ci hanno ripetuto che era astratto contrapporre abrogazione e revisione (eravamo per questo garantisti, paleoliberali, ottocenteschi, oltre che naturalmente vieti anticlericali), dicendo che invece bisognava misurarsi sui contenuti della revisione. Quando però questo governo minoritario ha con una vera e propria azione a sorpresa affrettato i tempi della trattativa con il Vaticano, presentando al Parlamento una bozza di concordato già contrattata e siglata dalle parti, siamo stati noi a chiedere il confronto sui contenuti della revisione (insegnamento religioso, congrue e diocesi, scuola, università, cattolica, matrimonio, enti ecclesiastici, ecc.). E proprio sui contenuti, comunisti e socialisti, repubblicani e socialdemocratici non hanno trovato di meglio che rilasciare una nuova cambiale in bianco al Governo democristiano e ai suoi negoziatori cattolici.

Sull'ordine pubblico, la strategia del terrore sembra essere ormai sfuggita di mano ai suoi inventori, La violenza evocata dal regime con le sue stragi e con le sue leggi Reale sta diventando endemica nella società. La fila dei morti ammazzati casualmente (cittadini innocenti, poliziotti, "delinquenti") si allunga sempre di più.

Da mesi chiedevamo che lo Stato avesse il coraggio di guardarsi dentro e di guardare dentro ai suoi corpi separati e ai suoi servizi segreti. Alla morte di Occorsio, il gruppo parlamentare radicale sollecitò un dibattito, che fu negato, sostenendo che ci si trovava in una situazione in cui era prevedibile che i casi Occorsio potessero moltiplicarsi. Così dopo poche settimane, contemporaneamente ai fatti tragici di Roma, di Milano e di Brescia, con i loro morti, abbiamo assistito a coincidenze e contraddizioni anch'esse drammatiche ma anche ammonitrici. Un colonnello e un maresciallo della guardia di finanza, mandati nel 71 nel Trentino a combattere il terrorismo e prevenire attentati, sono stati arrestati sotto l'accusa di aver organizzato il terrorismo invece di combatterlo. Poi abbiamo avuto l'occasione di vedere dai risultati di una inchiesta ministeriale esattamente confermate le denunce e le accuse alla gestione del secondo celere per le quali il capitano Margherito era stato messo sotto processo e cond

annato dal tribunale militare appena due mesi prima. Ma queste coincidenze e queste contraddizioni non dicono niente alla nostra sinistra istituzionale che si riunisce nei vertici dedicati all'ordine pubblico con i "partiti democratici" fra i quali sono anche i partiti delle stragi e delle "strategie della tensione", per studiare nuove misure speciali. Questa sinistra si accontenta, facendo eco al regime, di condannare la nuova criminalità politica e non si accorge che le sue scelte politiche, i suoi compromessi, le sue politiche dei "tempi lunghi", rischiano di far diventare disperati come Walter Alasia e come Martino Zicchitella, martiri da imitare e combattenti rivoluzionari da esaltare. Non si accorge che la mancanza di prospettive delle nuove generazioni (il 68% senza lavoro e quel che è peggio senza possibilità e speranza di lavoro) rischia di dare una base sociale alle velleità e alla disperazione della violenza rivoluzionaria.

Fermiamoci qui, senza insistere sull'indegno compromesso del Trattato di Osimo, con il quale, in nome dell'amicizia italo-jugoslava, si prepara una zona franca industriale che sarà un enorme regalo per le multinazionali e un massacro ecologico e ambientale per intere comunità, per il Carso, per la città di Trieste. Senza insistere sull'aborto, sul quale una sinistra oggi maggioritaria in questo parlamento si prepara a varare una legge insoddisfacente, che non risolverà il problema dell'aborto clandestino di massa. Senza insistere sul dibattito sulla crisi della giustizia in cui la maggioranza delle astensioni e della "non sfiducia", dal Pci al Pli, si è mantenuta al di qua dei propositi innovatori enunciati dal ministro Bonifacio approvando una mozione che è risultata più un freno che uno stimolo alla riforma della giustizia e alla riforma carceraria. Senza insistere sul "no" comunista a una revisione democratica dell'obiezione di coscienza, o sul no altrettanto netto a un dibattito urgente sulla proposta ra

dicale di amnistia, come premessa per scegliere una politica della giustizia in attesa della riforma dei codici che tarda da anni ad arrivare.

Ci si accusa di essere dei "terroristi" (Signorile) perché denunciamo tutto questo quotidianamente, dai banchi del Parlamento o con la nostra azione nel paese. Ci si accusa di essere dei massimalisti che vorrebbero tutto e subito (Trombadori), noi che ci siamo sempre battuti per obiettivi specifici e che teorizziamo una gradualità fatta anche di piccoli passi purché siano nella direzione giusta, solo per il fatto che ci battiamo contro questa politica di compromessi e di confusione delle responsabilità della sinistra con le responsabilità della destra e del regime. Ci si accusa di favorire forme di incultura e di sottocultura solo perché vogliamo trasformare in forza politica di classe gli emarginati, i tanti senza-voce e senza-potere di questa società, proseguendo in questo le lotte di liberazione e di emancipazione nonviolenta del proletariato e del movimento operaio. Ci accusano di essere vittimisti e piagnoni perché ci ribelliamo alla volontà di censurare non la voce del Partito radicale ma ogni dibattit

o ed ogni seria informazione su tutti i temi e gli argomenti nei quali il Partito radicale è protagonista di una costruttiva azione di opposizione democratica al regime. Ci accusano infine di non allinearci e di non rassegnarci, magari divenendo come il Pdup i protagonisti di un'opposizione di comodo (sinistra rivoluzionaria nel paese che diventa sinistra rispettosa in Parlamento), agli accordi di vertice che scandiscono settimanalmente la nostra vita politica e parlamentare, solo per il fatto che i nostri compagni deputati credono fino in fondo alla logica del confronto democratico e si battono perché sia rispettata, esercitando dentro il regolamento che gli altri si sono dati, il loro ruolo e i loro diritti di oppositori.

I fatti purtroppo confermano ogni giorno di più le nostre ragioni. Ci vuole ben altro, di fronte alla drammaticità della situazione che il paese vive, dei dialoghi a distanza, dei prudenti ammiccamenti con l'on. Moro (lo stesso degli "omissis", il vero grande responsabile di quanto di drammatico e grave è avvenuto in quindici anni di repubblica) dei vertici episodici fra i partiti delle "astensioni" e della "non sfiducia", delle ipotesi di cogestione interclassista con la Dc, delle teorizzazioni del pluralismo che non riescono neppure a mascherare la sostanziale accettazione da parte della sinistra del corporativismo del regime.

Il Pci ripercorre oggi la stessa strada fallimentare che già il Psi percorse negli anni sessanta. Ma il Psi aveva dietro le spalle la riserva democratica costituita da milioni di voti comunisti. Distruggeva se stesso ma non la sinistra, non indeboliva il sindacato. Il compromesso storico c'era già allora ma il Pci lo gestiva nell'esercizio dei poteri reali (nell'economia, nel sindacato, nei comuni, nelle regioni, nelle cooperative, nei consigli di amministrazione delle mutue) senza essere coinvolto e condizionato in responsabilità formali. Oggi questa riserva non c'è più. Se guardassimo le cose con la stretta ottica dell'interesse di partito, di chi - come ci accusano - aspetta di raccogliere il voto degli scontenti e dei ribelli, potremmo starcene tranquillamente ad attendere gli eventi. Ma non ci interessa costruire le fortune radicali (sarebbero ben misere fortune) sulle macerie e sugli insuccessi della sinistra, sul fallimento delle grandi speranze alternative degli ultimi anni.

Per questo abbiamo poco tempo. Per questo i compiti con cui dobbiamo misurarci sono così difficili e impegnativi. E le nostre responsabilità tanto più grandi, apparentemente, delle nostre forze.

Se ci prepariamo ad affrontarle con fiducia e con speranza è perché sappiamo di poter contare sulle contraddizioni della sinistra; perché sappiamo di essere isolati dai vertici, ma di non esserlo dalle basi, dalla gente, dal paese. Per questo non ci rinchiuderemo nel ghetto di una piccola minoranza, in quel ghetto in cui gli altri vogliono spingerci. Sappiamo di poter interpretare le aspirazioni di grandi masse di cittadini e di lavoratori, di donne e di uomini, di vecchi e di giovani. Per questo scenderemo di nuovo con i tavoli in mezzo alla gente con la nostra politica alternativa.

 
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