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Pannella Marco - 1 marzo 1977
Ai nostri compagni violenti
Marco Pannella

SOMMARIO: Intervenendo nel corso della conferenza di preparazione della campagna di raccolta delle firme per "8 referendum contro il regime" (abrogazione del Concordato, dei tribunali militari, dei reati d'opinione contenuti nel Codice penale, di parti della legge manicomiale, della legge che attribuisce alla polizia poteri speciali in materia di arresto, perquisizione e intercettazioni telefoniche, della legge che attribuisce ai partiti un consistente finanziamento pubblico, della "Commissione inquirente" - lo speciale "tribunale" composto da parlamentari per il giudizio preventivo sui reati compiuti dai ministri) Marco Pannella affronta il tema della nonviolenza e del digiuno, del rapporto fra violenti e nonviolenti. I più vicini, esistenzialmente e politicamente, ai nonviolenti sono proprio i violenti. Ambedue "danno corpo", si mettono personalmente in causa di fronte all'ingiustizia. Ma noi mettiamo in gioco la nostra vita, loro quella degli altri. Così facendo i violenti divengono facile strumento di pr

ovocazione, di strumentalizzazione da parte del potere; divengono obiettivamente e soggettivamente "servi della strategia di classe e della violenza del regime".

Oggi l'unico strumento capace di provocare un grosso fatto rivoluzionario nel panorama politico italiano non è la manifestazione di massa, la contrapposizione violenta con le forze di polizia ma l'indizione degli otto referendum che costringerebbero le forze politiche a legiferare e in particolare il Pci a schierarsi pro o contro la legalità costituzionale.

(Intervento alla Conferenza referendum Marzo 1977 da " Marco Pannella - Scritti e discorsi - 1959-1980", editrice Gammalibri, gennaio 1982)

Io credo che valga la pena, compagne e compagni, di essere franchi. Io non credo che il Partito radicale, nella sua grande maggioranza, nonostante la lotta nonviolenta e il digiuno della segreteria nazionale e di molti compagni, sia un partito capace qui e oggi di portare avanti questa iniziativa dei referendum, e di vincerla.

Il partito avrebbe potuto contestare l'opportunità di quel digiuno. Se non lo condivideva avrebbe dovuto porre il problema politico del digiuno, al limite per farlo smettere, e proporre altri obiettivi e metodi di lotta. Questo non si è fatto, e tuttavia soltanto una minima parte degli iscritti si è impegnata in un sostegno concreto degli obiettivi di questa iniziativa: probabilmente in tutta italia non più di cento o centodieci persone. Nessuno chiedeva agli altri compagni di digiunare, nessuno chiedeva di fare disubbidienza civile, ma di fare qualcosa in quella direzione, cioè in direzione di una politica nonviolenta e democratica dell'ordine pubblico; di fare qualcosa per non rischiare di vedere sconfitto, con la sconfitta di questa battaglia, anche il metodo di lotta nonviolento. Questo è un partito che molto difficilmente sa poi prendere e portare a compimento una iniziativa, in apparenza più tradizionale, come la raccolta delle firme per i referendum. E quindi il problema è di capire come si può invece

sperare che questo accada(...).

Diciamolo chiaramente: ogni volta che qualcuno negli anni passati nel nostro partito ha fatto un digiuno, era perché vi era costretto dall'assenza di un impegno più largo e collettivo della genialità dei compagni. Siamo stati costretti a farlo nel momento in cui lo imponevano fatti di sopravvivenza, direi addirittura fisica, del partito, o quando alcune nostre lotte e obiettivi essenziali della nostra iniziativa politica rischiavano altrimenti di essere messi in crisi.

Non solo i partiti, ma anche le idee muoiono, possono morire, al contrario di quel che sostiene la retorica culturale prevalente. Non è vero che »cade un compagno e che ogni compagno cade, dieci si rialzano, e l'idea che lui incarnava... . Credo invece che la storia sia fatta di assassini di idee attraverso l'assassinio del corpo collettivo delle organizzazioni politiche non meno che dell'assassinio delle persone fisiche. Ogni volta che siamo ricorsi a questa arma di lotta che abbiamo sempre definito l'estrema arma di lotta per un nonviolento è stato perché abbiamo dovuto fare i conti con problemi di vita, di esistenza, di sopravvivenza del partito, del significato e quindi della legittimità della sua presenza.

Quando arriviamo al punto in cui siamo arrivati, potendo oggi disporre delle radio libere, in alcune città di Radio radicale, credo che tutti possiamo riconoscerlo: non si può certo sostenere che oggi il radicale non si muova nella prassi come vuole la teoria rivoluzionaria, come un pesce nell'acqua, in mezzo alla gente. Credo anzi che, in questo momento, nessuno, della sinistra rivoluzionaria o no, possa muoversi tanto e meglio del radicale vicino a questa condizione, alla gente e con la gente, come il pesce nell'acqua.

Dovunque, in ogni parte, a sinistra e anche e soprattutto a destra, nelle condizioni del sottoproletariato "culturale", come nei rapporti con le classi dominanti, oggi più che mai l'iniziativa radicale è un elemento di paralisi, di contraddizione, di crisi. Oggi più che mai stiamo continuando e approfondendo questa duplice funzione che è stata la nostra caratteristica in questi ultimi quindici anni. Mentre tutti gli altri gruppi politici e partiti della sinistra, e soprattutto quello della sinistra rivoluzionaria, si sono contesi la stessa massa di aderenti già acquisiti alla sinistra, noi abbiamo sempre operato dal divorzio, all'aborto, alle lotte di liberazione sessuale, fino alle battaglie di questi giorni per trasferire consensi da destra a sinistra, attraverso la presa di coscienza del rifiuto di essere usati dalla violenza di classe e delle istituzioni.

Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo. Questa battaglia sugli agenti di custodia avrebbe potuto essere due anni fa una battaglia di segno opposto, una battaglia per coloro che a Rebibbia ancora due o tre anni fa massacravano di botte i rivoltosi: per "i secondini"(...).

Oggi come radicali, diciamocelo, rischiamo soprattutto una cosa: siamo divenuti, tutti, per un verso o per l'altro, radicali perché ritenevamo in fondo di avere delle insuperabili solitudini o diversità rispetto alla gente e quindi una sete di alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri; da un anno in realtà essere radicali significa invece un modo per non essere più soli. E' indubbio, possono contestarci o no, detestarci o no, ma credo che se c'è un dato nuovo, un dato presente nella coscienza della gente, è questo: o si è a favore dei radicali, o si è contro. C'è una crescita esponenziale, non una crescita aritmetica, nel sentimento, nella curiosità, nell'interesse della gente. Proprio per questo vedrete presto i linciaggi che stanno per cominciare e che rientrano nelle regole del gioco. C'è dunque questo rischio, che il radicale cominci a vivere in fondo essenzialmente soddisfatto perché d'un tratto ha come l'impressione che non importi più fare molto, perché tanto in fondo dei radicali si par

la e la gente comprende, e trovi le persone più strane e più inaspettate disposte a dirsi un po' radicali.

Venendo a mancare questa condizione, dobbiamo fare il salto dall'essere radicali a partire da dati individualistici ed esistenziali, che sono fondamentali, di irrazionalità e di emotività, all'esserlo collettivamente, dialogicamente, in modo organizzato, come il nostro statuto indica e richiede: questo è l'unico partito che nel suo statuto in realtà prefigura solo adesioni collettive e solo eccezionalmente adesioni individuali; è l'unico partito anti-individualista nel suo statuto, fino in fondo...

All'obiezione contro "la via dei tavoli e del lapis alla rivoluzione" dobbiamo rispondere: non è vero. Siamo a metà marzo e dobbiamo chiederci qual è l'uso rivoluzionario del nostro tempo per i prossimi quaranta giorni. Il discorso non è quello delle riflessioni pseudoteoriche, se la rivoluzione passi attraverso il lapis o le molotov: queste sono divagazioni.

Ci si deve dire qual è l'uso migliore, più concreto organizzato, che dei rivoluzionari alternativi possono fare di se stessi, nei prossimi quaranta o sessanta giorni.

Se ne troviamo una migliore, noi abbandoniamo questa iniziativa e confluiamo in un'altra. Ma se questo non accade, la via più rivoluzionaria passa attraverso questo progetto politico e non attraverso altri. A chi ci indica la piazza come luogo più giusto per l'iniziativa rivoluzionaria, rispondiamo: »Appunto, i tavoli si mettono in piazza . E' vero: in questi giorni nelle strade e nelle piazze ci sono le autoblindo, ma è molto difficile che un'autoblindo vada contro un tavolo, perché se va contro il tavolo dei referendum l'autoblindo di Cossiga perde; di fronte alla notizia di un'autoblindo che va contro il tavolo anche gli elettori della DC e del MSI-DN danno ragione a chi sta dietro e intorno al tavolo, e torto all'autoblindo.

Credo che una riflessione non superficiale intorno a quanto sta accadendo in questi giorni debba essere fatta.

Non ho moralismi nonviolenti. Ritengo al contrario che i più vicini, esistenzialmente e politicamente, a noi nonviolenti, se e quando sappiamo esserlo davvero, siano i violenti e non gli altri. Perché? Perché chi sceglie la nonviolenza sceglie l'illegalità della disobbedienza civile: sceglie di "dare corpo" al "no" di fronte alle leggi e agli ordini ingiusti: si mette in causa; usa fare violenza, con la propria nonviolenza, al meccanismo obbligato che lo Stato cerca di proporre. Il nonviolento rompe i piatti tutti i giorni. Rompe qualcosa di più delicato delle vetrine dei negozi e delle porte delle armerie, soprattutto se riesce a suggerire gli obiettivi e a fornire i mezzi e gli strumenti della lotta nonviolenta alle masse, alla generalità della gente.

Quindi il violento ha in comune con noi quasi tutto l'essenziale, a parte la schizofrenia di ciascuno. Ma si può essere anche nonviolenti per schizofrenia o paranoia.

Si dice che il nonviolento, quando per esempio digiuna, accetta di far violenza a se stesso, ma anche il violento deve fare violenza a se stesso per far violenza, perché ritiene necessario rispondere con la violenza organizzata alla violenza delle istituzioni. E la vicinanza è addirittura drammatica, il nonviolento se registra di volta in volta la sconfitta e l'insuccesso della propria teoria e della propria prassi, non è spinto a scegliere come alternativa la rinuncia, la rassegnazione e l'inerzia, ma è spinto a scegliere come alternativa per disperazione il ricorso alla violenza. Così, io credo, nella stessa maniera, il violento, se riesce a liberarsi di questo carico enorme di mistificazione culturale totalitaria che privilegia la violenza perché in termini ideologici la violenza del rivoluzionario è legittimata dall'ideologia dominante (appartiene all'ideologia di massa dominante, all'ideologia borghese, l'idea che alla violenza non si possa rispondere che con la violenza), se arriva a riflettere sulle e

ventuali sconfitte dei propri metodi e delle proprie lotte, può capire che oggi il punto massimo di forza rivoluzionaria è rappresentato dalla illegalità e dalla radicale diversità della provocazione e dell'azione nonviolenta.

E' per questi motivi che dal '68 a oggi io non ho mai fatto una polemica specifica nei confronti degli errori commessi da quanti hanno scelto il metodo della violenza, che sono stati gli errori suicidi del Movimento. L'ho potuto fare perché non sono stato a guardare e ho cercato di rappresentare una polizza di assicurazione, con la mia per quanto mi riguarda nonviolenza rispetto al possibile fallimento della strategia e della ideologia prevalente.

Ma a partire dai fatti di questi giorni devo dire che il linciaggio stesso, i riflessi condizionati del Movimento, mi appaiono a tal punto trogloditici, come manifestazioni di prassi politica, che non posso tacere. E questa riflessione, se volete questa polemica, non è una elusione degli impegni e delle scadenze urgenti del progetto referendario. Al contrario, credo che la campagna per il nostro progetto referendario debba fondarsi proprio su questa riflessione: di quali sono le scelte giuste per un rivoluzionario, violento o no che sia, nei prossimi 40-50-60 giorni.

Cosa sentiamo dire ogni volta che muore un compagno? è una provocazione del Governo si dice è una provocazione della polizia. Sarebbe una baggianata dire o pensare che sia una provocazione deliberata, organizzata da Cossiga, da questo o quel membro del governo, o dal governo nel suo complesso. Ma è giusto dire che è un fatto oggettivamente provocatorio: può essere stato Cossiga a volerlo e a provocarlo, come può essere stato l'anti-Cossiga all'interno del governo, della DC o dei corpi separati del regime, cioè può nascere dalle contraddizioni interne al regime. Ma se è giusto dire: è una provocazione, dobbiamo rifletterci e dobbiamo chiederci: provocazione a che cosa?

Come reagisce il Movimento da dieci anni all'assassinio e alla violenza del governo? Credo che tutti lo sappiamo e possiamo rispondere: l'indomani occupazione dell'Università e grande corteo di massa per via Nazionale e via Cavour. Quindi, se qualcuno ammazza qualcuno di noi è per provocare l'indomani a data e luogo, ora e modo stabiliti, previsti in anticipo, determinati. Cossiga, o chi per lui, se voleva provocare, c'è riuscito, ma aveva in anticipo la garanzia della riuscita perché è il riflesso puntuale, il riflesso condizionato del Movimento a fare... cosa? Quello che ci ordinano di fare.

Quello che si è detto la sera prima degli incidenti nel dibattito alla Casa dello studente è quello che probabilmente Cossiga avrebbe scritto come promemoria per i suoi poliziotti e per i suoi carabinieri, per le bande di Santillo, se voleva disegnare il prevedibile scenario di ciò che avrebbero trovato l'indomani e di come si sarebbero dovuti comportare. S'era detto tutto in quel dibattito, con le diversificazioni e le diverse accentuazioni: dal compagno che voleva la manifestazione pacifica; a quello che diceva: pacifica sì, ma non da coglioni; all'altro ancora che aggiungeva: pacifica sì, ma bisogna rispondere alle aggressioni della polizia; fino a quel compagno lo ho sentito io che specificava che si doveva considerare un'aggressione anche la semplice presenza dei carabinieri.

Ma scusate, siamo "rivoluzionari" e vogliamo chiedere conto ai carabinieri del fatto che sarebbe stato un loro ufficiale a uccidere il compagno Lo Russo? Ma con questa logica allora tutti insieme andiamo a erigere oggi stesso un monumento non al brigadiere Ciotta, ma alla PS, perché è stato vilmente assassinato a Torino un poliziotto democratico, in un agguato di strada. Anche in questo il Movimento si fa occupare, si fa condizionare dai riflessi e dalle abitudini di ceto, di casta e di classe dalla cultura borghese: i carabinieri e l'Arma contrapposti ai poliziotti, allo stesso modo nelle Forze armate la Marina arma nobile, l'Aeronautica arma giovane e sportiva, come nel passato era la cavalleria, contrapposte all'esercito o alla fanteria... con il risultato che ora gli ufficiali dell'Arma diranno ai carabinieri: »Vedete, ce l'hanno con voi; ora, vedete, ammazzeranno per le strade voi e non più gli agenti della stradale...

Perché questo accade. E' accaduto ieri con Ciotta a Torino, è accaduto con gli agenti della stradale. Mentre, diciamocelo francamente, per ammazzare qualcuno di noi, hanno bisogno della nostra liturgia che provocano. E' evidente che ieri Cossiga, o chi per lui, aveva bisogno di centomila persone, perché se non nascevano incidenti e provocazioni (ma come possono non nascere all'interno di centomila?), se non c'era qualcuno dei centomila a svaligiare le armerie, bastavano trenta o quaranta agenti in borghese confusi fra la folla, a provocare gli incidenti, ad ammazzare uno studente o un altro agente.

è così che il Movimento, con i suoi riflessi condizionati, finisce per essere, oggettivamente e soggettivamente, servo della strategia di classe e della violenza del regime.

Cosa accade invece quando il Movimento riesce a darsi riflessi e metodi di lotta alternativi a quelli del potere? Le bande armate di Santillo non sono state inventate in questi giorni a Roma, e neppure durante gli scontri di Reggio Calabria. Le abbiamo incontrate a Roma, sempre con Santillo, prima che fosse questore. Non sono invenzioni di oggi, e neppure del dopo-'68. Queste cose accaddero già nel '46 a Roma, il giorno dopo il referendum sulla Repubblica. Ma cosa facemmo dopo aver scoperto gli agenti in borghese di Santillo?

Ce ne occupammo da nonviolenti allora. Dicemmo che era inconcepibile che degli agenti in borghese girassero con delle pistole in mezzo alla folla, perché non potevano essere identificati. Non potevano essere identificati come agenti dalla folla, dai cittadini, ma non potevano essere identificati come tali neppure dagli altri agenti e al limite essere feriti o uccisi dai loro stessi colleghi. Allora questa considerazione di buon senso, questa esigenza di rispetto minimo della legalità, raccolse quasi l'unanimità dei consensi, perfino i liberali di Malagodi si dichiararono d'accordo con noi. Per un certo periodo di tempo l'uso degli agenti in borghese armati nelle manifestazioni fu impossibile. Oggi viene ritenuto normale, le squadre armate di Santillo fanno parte ormai del nostro ordine pubblico, accettate come normali dal Movimento, perché ha accettato di non far nulla per arrestare l'incremento dei meccanismi della violenza delle istituzioni.

Mimetizzati e armati in mezzo alla folla delle manifestazioni di massa, gli uomini in borghese di Cossiga e di Santillo sono invece disarmati di fronte all'uso che della strada e della piazza si può fare con i tavoli e con i lapis, con l'esercizio dei diritti costituzionali. Se centomila compagni, abituati in un anno a fare 30 o 40 cortei di quelli dei quali stiamo parlando, fossero indotti, fossero "serviti" dalle organizzazioni rivoluzionarie, attraverso una chiara informazione su come e dove possono trovare un tavolo e un pezzo di lapis, a fare un'azione quotidiana in questo senso, io credo che avremmo già realizzato una cosa esplosiva: un'iniziativa legittima, legale e costituzionale, di attuazione della Costituzione, che costringerebbe tutto il mondo politico italiano a confrontarsi con essa. Se centomila compagni fossero messi in tutta Italia in condizione di portare oltre alla loro altre dieci firme su otto referendum nell'arco di trenta giorni, avremmo provocato non la rivoluzione ma certamente il pi

ù grosso fatto rivoluzionario di questi anni(...).

Un Movimento è alternativo quando provoca fatti alternativi, non lo è quando esegue i fatti che il regime vuole provocare. Non diciamo che questa è la rivoluzione. Diciamo soltanto che come quando il regime, ammazzando uno di noi, provoca ciò che vuole, cioè la manifestazione e gli incidenti di ieri, così se riusciremo a portare questi milioni di firme alla Cassazione, li obbligheremo a fare ciò a cui noi li abbiamo provocati: dovranno fare la rincorsa per approvare qualcuna di queste leggi di riforma (...). Il PCI a questo punto dovrebbe scegliere l'attuazione della Costituzione con la maggioranza del Paese, o il tentativo di sottrarre alla stragrande maggioranza del Paese questi referendum. E comunque daremmo al PCI un'enorme forza contrattuale in termini di Costituzione(...).

Se centomila studenti dessero un decimo o un centesimo del tempo che dedicano alle assemblee e ai cortei a questa "via del lapis alla rivoluzione", avremmo inciso e segnato definitivamente la sorte di questa legislatura e i binari politici sui quali questa legislatura scorre (...).

Alla provocazione tradizionale rispondiamo con un'idea sbagliata della lotta di massa. La stessa della polizia: ammazziamo. Cioè reagiamo come plebe e non come proletariato. Come reagiva la plebe prima di divenire proletariato. Perché l'idea di aspettare un gendarme che viene una volta di più a rappresentare la violenza dello Stato per portarlo via e farlo fuori, di nascondersi nell'ombra per sorprendere e ammazzare il costrittore o l'agente delle tasse, appartiene alla tradizione storica delle rivolte dei contadini e a quella della rivolta del pane dei quartieri popolari di Parigi che i governi dell'assolutismo monarchico provocavano, non alla tradizione di lotta del proletariato organizzato.

Lo ripeto una volta di più. Con la nostra nonviolenza Gandhi c'entra nulla o ben poco. Non c'entrano le tradizioni orientali. Caso mai è Gandhi che ha innestato in queste lotte di liberazione metodi di liberazione occidentale. Il proletario diventa tale, cessa di essere plebe, nel momento in cui scopre il fatto apparentemente gestuale, nonviolento di incrociare le braccia e di fermare la produzione, invece di ammazzare il padrone delle ferriere o il suo funzionario e di bruciare la fabbrica.

 
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