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Cicciomessere Roberto - 20 settembre 1977
Una bomba (N) a misura d'uomo
di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: Il Pci ha criticato sull'Unità lo scarso interesse della stampa italiana nei confronti della bomba "n". Polemica di Stefano Silvestri con il Pci per la scelta NATO. Le armi intelligenti, capaci di colpire un obiettivo definito, non limitano lo sviluppo delle armi nucleari strategiche. Pericolo di uso di queste armi nei conflitti interni ai blocchi. Inutilità degli eserciti tradizionali.Dissensi nei confronti del realismo militarista di sinistra. Verso il disarmo?

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

Perché l'Unità ha corso il rischio di pubblicare perfino le rampogne pacifiste di Cassola e quelle "realistiche" non meno pericolose, anche se di segno contrario, di Silvestri, per affrontare il dibattito sulla "bomba ai neutroni" e decretarne la condanna? Perché questa campagna ha trovato solo scarsi echi nella stampa italiana?

La risposta alla seconda domanda, cioè allo scarso interesse della stampa nazionale sulla bomba "N" che i comunisti hanno più volte denunciato, arrivando perfino a contrapporlo al supposto eccessivo spazio dato alle polemiche contro l'uso "pacifico" dell'energia nucleare, è stata fornita proprio dall'intervento, di Stefano Silvestri che sull'Unità ha criticato con molta chiarezza (oltre che con molto cinismo) la contraddizione fra la scelta Nato del PCI, che implica l'adesione alla sua strategia dissuasiva basata sui tre livelli di scontro prefigurati (uso delle armi nucleari strategiche; uso delle armi nucleari tattiche; uso delle armi convenzionali), e l'improvvisa condanna di questo partito della supposta maggiore "atrocità" dei necessari sviluppi tecnologici e strategici di questa scelta.

La bomba ai neutroni non è infatti sicuramente più atroce, nei suoi effetti distruttivi, di quelle convenzionali per esempio sperimentate nel Vietnam (Napalm, bombe a biglie, etc.) o delle bombe nucleari tattiche capaci di produrre effetti non molto dissimili da quelli di Hiroshima o Nagasaki. Non sfugge a nessuno la somiglianza di questa polemica con quella che ampi settori comunisti francesi fecero nel corso della guerra algerina non per condannare "tout court" la repressione militare dei movimenti di liberazione nazionale ma il fenomeno della tortura dei prigionieri che è strumento indispensabile dell'anti guerriglia.

Per fornire una risposta al primo interrogativo è necessario invece affermare con chiarezza che dietro questa campagna "umanitaria" si nasconde il disagio e la difficoltà del PCI ad accettare le nuove strategie Usa e Nato che si basano sull'adozione delle "armi intelligenti", sistemi d'arma che consentono di colpire l'obiettivo con una precisione del 100% e che, con la bomba ai neutroni, consentono di "giungere ad un controllo degli effetti distruttivi e di confinarne, come conseguenza, l'impiego sul potenziale militare e, nei limiti del possibile, nel solo ambito tattico". La strategia delle armi intelligenti tende quindi a riempire, nello scenario occidentale, l'assenza di ipotesi di conflitto militare esistente fra la distruzione nucleare e la resa, a fornire cioè la possibilità di opzioni militari che non determinino immediatamente l'"escalation" nucleare e che siano "sopportabili" nelle regioni europee.

Le armi "intelligenti"

La bomba ai neutroni e le altre armi "intelligenti", proprio per la loro quasi assoluta capacità di colpire e distruggere unicamente obiettivi militari o comunque definiti, senza danneggiare eccessivamente la struttura economico - industriale, appaiono destinate ad affiancare, in Europa, oltre al cosiddetto "deterrente" atomico, strategico e tattico (eufemismo questo che è servito a giustificare, da sempre, l'esplosione della guerra a partire da una sottovalutazione della possibilità di risposta dell'avversario) un credibile "deterrente" convenzionale o supposto tale nei macabri giochi dei nostri militari e politici.

In poche parole la pubblicistica militare ha ampiamente dimostrato la scarsa differenza, in termini distruttivi, fra le ipotesi di conflitto con armi atomiche tattiche ed armi convenzionali che in uno scenario europeo (o in altra situazione operativa ad alta concentrazione industriale) provocherebbero quasi nell'identica misura la distribuzione delle strutture economiche, senza peraltro garantire la non-"escalation" alle armi nucleari strategiche. I militari affermano quindi che poter disporre di armi che rendano "sopportabile" un conflitto consentirebbe di poter prefigurare anche in Europa operazioni militari contro nemici "interni" o nelle cosiddette "aree di indeterminatezza politico-ideologica" che corrispondono alle zone periferiche dell'uno o dell'altro blocco. Questa teoria consentirebbe inoltre agli Usa di giustificare, con la fornitura di un supposto ombrello difensivo basato sulle bombe "N", un progressivo ritiro di truppe e mezzi dall'Europa con un non indifferente risparmio economico.

Evidente appare quindi il disagio del PCI e della sinistra storica in generale, che ha progressivamente fatto propria la politica militare Nato e la strategia della dissuasione fra i due blocchi, di fronte ad una nuova strategia militare che pur nei suoi tragici sviluppi ha il "merito" di chiarificare fino in fondo le necessarie conseguenze di una politica militare e di far fuori gli equivoci, le mistificazioni e i luoghi comuni che hanno consentito d'imporre senza grossi dibattiti, la rinuncia alle posizioni antimilitariste. Giustamente, da questo punto di vista, Stefano Silvestri chiede al PCI un gesto di "maturità politica" e cioè la forza di scegliere con chiarezza e senza alibi una politica militare basata essenzialmente sullo strumento nucleare nelle sue diverse edizioni e di accettare quindi le conseguenze che ciò comporta in relazione alla organizzazione della struttura militare e della società.

La prima conseguenza è quella di allargare anche all'Europa la possibilità dei cosiddetti "conflitti limitati" che erano tali, con buona pace dell'internazionalismo socialista, solo perché erano limitati e riservati ai paesi del terzo mondo. La guerra "convenzionale" diventa possibile anche in Europa non tanto nelle ipotesi di conflitti fra i due blocchi quanto per operazioni di "polizia" interna al blocco o per l'acquisizione al blocco di paesi "neutrali". Immaginiamo infatti quale ampia utilizzazione potrebbero avere i sistemi d'arma "intelligenti" in una situazione in cui un paese aderente ad uno dei due blocchi tentasse scelte politiche contrastanti con quelle del "paese guida" e, diversamente dalla Cecoslovacchia, reagisse militarmente alle operazioni di "normalizzazione". Senza distruggere il potenziale economico del paese invaso, ed in tempi politicamente utili, con queste nuove armi si realizzerebbe una perfetta e relativamente indolore operazione di polizia internazionale. Così come la seconda ipote

si diviene perlomeno verosimile, in presenza del problema del dopo Tito e della zona franca industriale prevista dal trattato di Osimo e così duramente difesa dalla Nato.

Un esercito di mestiere

La seconda conseguenza è quella di decretare definitivamente la morte dell'esercito di popolo o della sua edizione "italiana" denominata "esercito piccolo ma efficiente", che in presenza di armi sempre più sofisticate e con potenza distruttiva sempre maggiore non può che trasformarsi, proprio per esigenze economiche, in esercito di mestiere composto da tecnici e specialisti a lunga ferma.

Che senso ha infatti mantenere un apparato militare di leva costoso e poco efficiente, costituito da militari che per la breve permanenza in armi sono necessariamente esclusi dall'uso dei sistemi d'arma moderni che richiedono un apporto umano tanto limitato quanto preparato e permanente? Come potrà essere giustificato il mantenimento di centinaia di migliaia di uomini in reparti di fanteria o perfino in reparti meccanizzati o corazzati quando una sola batteria di missili "lance" con testate armate di bombe "N" avrebbe una capacità distruttiva uguale?

Ma al di là delle considerazioni militari diviene sempre più conflittuale la spinta e la richiesta di sempre maggiori investimenti nell'industria militare con la spesa di mantenimento di un apparato di circa mezzo milione di uomini in divisa. Ancora più chiaramente si porranno quindi scelte di tipo parassitario sempre meno giustificate militarmente quali la necessità di fare lavoro all'apparato industriale militare tradizionale che occupa una ingente quota di forza lavoro; la necessità di mantenere in parcheggio nelle caserme potenziali disoccupati; la necessità di controllo politico sulla popolazione contrapposte a esigenze di politica estera e interna più moderne che prefigurano la trasformazione dell'esercito in una azienda che comprenda in modo indissolubile il settore produttivo ed il settore operativo. Si prefigura quindi la sostituzione del controllo sociale tradizionalmente realizzato dall'esercito con una politica di totale militarizzazione della società che parte dalle scelte energetiche nucleari,

e arriva alla dura limitazione delle garanzie costituzionali e dei diritti civili e alla sostituzione del principio della mobilitazione armata con quello della mobilitazione permanente al posto di lavoro.

Il dibattito sulla bomba ai neutroni rappresenta quindi una occasione importante per denunciare fino in fondo i falsi umanitarismi e pacifismi della sinistra storica che sono i primi responsabili della prospettiva del tipico sviluppo odierno delle armi nucleari e per riaffermare i contenuti di una rigorosa politica antimilitarista e socialista. Il realismo militarista di sinistra può trovare, anche a livello di massa, i primi e consistenti dissensi, solo che si trovi il modo di comunicare non tanto proposte fumose di utilizzazione "socialista" dell'esercito pur presenti anche nella "nuova sinistra" ma semplici considerazioni che, nel momento in cui anche a casa nostra la guerra si avvicina, affermino la indifferenza, l'inutilità ai fini della difesa della vita, delle cose, della libertà, dell'organizzazione armata che avvicina invece che allontanare l'ipotesi di guerra.

Dobbiamo cioè avere la forza ed il coraggio di confidare nel buon senso della gente e proporre con convinzione la domanda storica dell'antimilitarismo: cosa succederebbe, invece, se fossimo disarmati?

 
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