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Taschera Aligi - 20 settembre 1977
APPUNTI SULLA NONVIOLENZA
di Aligi Taschera

SOMMARIO: La tematica della violenza è alla ribalta. Violento è chi, per indurre un altro a fare qualcosa, usa azioni che mettono in crisi la sua incolumità fisica e psicosociale. La ribellione non è sempre violenta. Il potere identifica la ribellione con la violenza. La sinistra, sia quella extraparlamentare e rivoluzionaria, sia quella di regime, è caduta in questa trappola perchè concepisce lo Stato come unione di istituzioni sociali ed economiche che organizzano la violenza. Per impadronirsene il proletariato deve usare violenza. Ma, esaminando la storia dell'uomo, ci si avvede che si organizza la violenza per perpetuare il potere di un gruppo sociale non solo nell'organizzazione economica, ma nell'intero andamento della specie umana. Se la violenza fa parte del sistema, il nonviolento lo rifiuta attraverso la disobbedienza civile. E' la ricerca pratica di una nuova moralità che crea anche nuove regole alternative. Obiezione di coscienza ed autogestione dei mezzi di produzione.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

Sembra che la tematica della violenza abbia investito il paese, e che, quando ormai si spara per strada, si fa giustizia sommaria mitragliando la gente, si ideologizza la P 38, si parla di pena di morte e si ripropongono misure violente come il fermo di polizia, ci si renda finalmente conto che la tematica della violenza è importante. Un po' tardi, per la verità. E bisogna dire che se i benpensanti e il regime come sempre speculano su questa tematica, usandola per esorcizzare e ghettizzare criminalizzandolo come "violento" qualunque dissenso, la sinistra, di regime e non, non ha saputo fare molto di meglio; non ha saputo affrontare con chiarezza il problema della violenza né nella sua prassi, né nella teoria e nel dibattito, al punto di lasciarsi opprimere in modo soffocante sotto il suo peso. In che modo, sarà chiarito in seguito.

La violenza e la sinistra oggi

Vale la pena, dunque, di aprire una discussione seria sulla violenza e il suo opposto, la nonviolenza, come unica proposta alternativa di metodologia e strategia vincente nella lotta per la costruzione del socialismo in questo periodo storico.

Ma prima, per sgombrare il campo dagli equivoci, molto frequenti in questo campo, è bene chiarire subito che cosa si debba intendere per violenza. Se vogliamo in primo luogo dare una definizione rigorosa dobbiamo dire che essa è una tecnica di controllo del comportamento basata sull'uso di "rinforzi negativi" o di "segnali ansiogeni"; basata cioè sull'induzione di "risposte di fuga" o di "evitamento" nell'organismo controllato. Si perdoni la terminologia un po' ostica assunta dalla psicologia: in modo meno tecnico (ma più ambiguo) potremmo dire che definisco come violento il comportamento di chi, per indurre un altro a fare o non fare qualcosa, usa contro questo altro delle azioni (degli "stimoli") in grado di mettere in crisi la sua incolumità fisica o psicosociale (ad es. armi, tortura, percosse, carcere, ecc.) o minaccia l'uso di queste azioni (fa uso di "segnali ansiogeni"). Violento è dunque chi mette in atto un comportamento "violento", ad es. chi spranga o spara, non chi si rifiuta di subire la violen

za altrui o la violenza del sistema e del regime. E' violento chi ammazza il poliziotto, non chi si rifiuta di obbedire al suo volere. La ribellione dunque non è necessariamente violenta (così come la violenza non è necessariamente ribelle). Ma il gioco ideologico del potere si basa e si è sempre basato proprio sull'identificazione di ribellione e violenza: sull'asserzione che chi non ubbidisce alle regole del sistema e non si adatta ai voleri del regime è perciò stesso un violento, in quanto farebbe violenza alla "morale" dell'establishment: è con questo gioco ideologico che si cerca di "criminalizzare" sul nascere qualunque dissenso. E' impressionante accorgersi che spesso questa confusione verbale, prodotta dall'apparato ideologico del regime, è stata accettata anche dalla sinistra più o meno rivoluzionaria, che in tal modo ha fatto propria l'equazione ribellione-violenza. E siccome, nonostante il diverso parere di alcuni "materialisti dialettici", il legame tra linguaggio e prassi è stretto, la sinistra

(rivoluzionaria e non) ha finito per cadere nella trappola del regime non solo al livello semantico, ma anche nei fatti.

Il fenomeno più appariscente è quello della cosiddetta "autonomia" delle Brigate Rosse e dei NAP. Dai dilettanti della guerriglia armata fino ai ragazzi giustamente stufi, disperati di una situazione insostenibile e senza sbocchi, che rifiutano di adattarsi ad un sistema opprimente ed autodistruttivo, a una vita che non vale la pena di essere vissuta, tutti questi si sono lasciati coinvolgere in una logica violenta, dalla ideologia della pistola e della guerriglia, rendendo così il loro comportamento oggettivamente funzionale al regime.

Era dei giovani con la pistola, era di ribelli violenti e assimilabili a criminali che il regime dei Cossiga, spalleggiati da Berlinguer (ma che fu già dei Tanassi, dei Rumor, dei Maletti e dei La Bruna, dei Miceli e degli Spiazzi) aveva bisogno, per poter avere l'alibi per presentare le leggi speciali, i fermi di polizia, per fare accettare una visione sostanzialmente fascista e autoritaria dell'ordine pubblico e soffocare il dissenso e l'opposizione criminalizzandoli, allo scopo di fare ingoiare alla gente i "sacrifici" senza contropartite e la sostanziale non volontà o incapacità di uscire da un'organizzazione sociale suicida.

Ma se gli "autonomi" sono l'apparenza più vistosa di questo fenomeno, essi non sono certamente i soli ad esserne coinvolti. Non voglio parlare solo della sinistra già "extraparlamentare" o "rivoluzionaria", che, scambiando la propria aspirazione maschilista all'eroismo militare per la rivoluzione, non seppe dare alle nuove leve altra indicazione che la spranga addosso al fascista, e oggi che le nuove leve hanno inevitabilmente portato alle sue estreme conseguenze quella logica sprangano l'autonomo. Voglio parlare anche della sinistra di regime, dei Berlinguer e degli Amendola, quella della ricostruzione nazionale, quella che non è ribelle e che dunque, stando all'equazione di prima, non è nemmeno violenta, non reagisce violentemente alla violenza di regime: semplicemente la gestisce in proprio, o tenta di gestirla in proprio, o peggio, credendo di trarne vantaggi di potere (cioè di giungere a gestirla in proprio), la avalla e se ne fa complice

Così tra chi usa la violenza credendo di ribellarsi al regime, chi ci si trastulla, chi avalla e protegge quella del regime, quasi tutta la sinistra finisce per essere in realtà vittima della violenza, e quindi chi vince è sempre il regime. La sinistra, cioè, non riesce a formulare una proposta autenticamente alternativa, né a dare alcuno sbocco alla situazione, visto che la violenza è appunto una delle caratteristiche fondamentali del sistema e del regime. Ma come mai tutte le componenti della sinistra, che siano aggregate al regime o che siano ribelli, sono vittime dello stesso fenomeno? Tragica coincidenza? Diabolica capacità del regime? Credo di no. La realtà è che gli strumenti teorici della sinistra, degenerati in strumenti ideologici, non sono adeguati ad affrontare la situazione dei paesi a capitalismo avanzato. Il cadavere di una teoria nata in una situazione diversa, e di una tradizione nata nell'800 in una condizione di sottosviluppo, ammorba la sinistra di oggi rendendola impotente.

A questo punto è indispensabile, per poter continuare il discorso, addentrarci in alcuni problemi teorici di fondo; ma anche se questo può portarci apparentemente molto lontano, si tratta di una discussione indispensabile per poter raggiungere un grado adeguato di chiarezza.

Struttura economica, stato e violenza

L'incapacità della sinistra di affrontare la situazione e di risolvere il problema della violenza deriva dalla concezione dello stato e del potere tipica dei comunisti, che a sua volta deriva da una concezione della società che è una versione, a parer mio restrittiva, del materialismo storico marxiano.

Secondo tale concezione tutta la costruzione sociale si basa su una struttura fondamentale sottostante che pertanto viene ad essere anche il motore della storia: la struttura economica, intesa non tanto nel senso onnicomprensivo di "produzione materiale della vita" (come la intendeva Marx nella "Ideologia Tedesca"), quanto nel senso implicito nell'uso comune, di organizzazione della produzione e della circolazione delle merci. Secondo tale concezione quindi, le istituzioni sociali, come l'organizzazione della cultura (la scuola), la chiesa, le istituzioni dello stato e in particolare le istituzioni che organizzano la violenza, esercito e polizia, sarebbero solo strutture destinate a crollare e scomparire o comunque a mutare radicalmente una volta che la sottostante struttura economica venisse mutata. Anche il potere dello stato dunque appare come un frutto di tale struttura, una sua apparenza. La classe dominante infatti domina perché può appropriarsi del plusvalore fornitole dei lavoratori, e se ne può appr

opriare grazie alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il dominio dell'uomo sull'uomo viene ad essere dunque frutto dell'organizzazione economico-produttiva e della proprietà privata.

Secondo tale visione del mondo, se le istituzioni, l'organizzazione del potere e della violenza dello stato sono solo sovrastrutture, non ha molto senso lottare direttamente per il loro deperimento; sarà invece necessario impadronirsene, in modo da avere in mano il potere necessario per mutare l'organizzazione economico-produttiva ed abolire la proprietà privata. In tal modo, l'obiettivo prioritario della trasformazione sociale diviene la presa del potere dello stato e l'impadronirsi delle sue istituzioni violente. Dato questo fine prioritario, qualunque mezzo funziona, e il mezzo principale per impadronirsi della violenza dello stato è proprio quello di organizzare la violenza contro di esso.

Una volta preso il potere dello stato e compiuta attraverso di questo la rivoluzione delle strutture economiche, l'estinzione delle istituzioni autoritarie dovrebbe essere una conseguenza quasi naturale, assieme a quella fondamentale dell'abolizione delle divisioni di classe.

Ritengo che la storia della rivoluzione russa dal 1919 in poi abbia abbondantemente smentito tale teoria. Ma non è questa la sede adatta per polemiche storiche; si impongono invece altre considerazioni.

Come potrebbe la classe dominante imporre il suo dominio e appropriarsi del plusvalore, come potrebbe garantirsi la detenzione della proprietà privata, se non avesse un'organizzazione capace di imporre con la forza tale stato di cose? Un gruppo sociale per dominare deve far sì che gli appartenenti ad altri gruppi sociali si comportino in modo tale da perpetuare quel tipo di organizzazione della società che permette appunto il suo dominio. Se è vero, cioè che la classe dominante domina attraverso il controllo dell'economia, è anche vero che essa controlla l'economia perché ha il potere di controllarla, e tale potere le è garantito dal monopolio dell'organizzazione della violenza. Qualunque forma di dominio dell'uomo sull'uomo si basa sull'uso della violenza. In tutte le società precapitalistiche le classi dominanti hanno sempre fatto uso della violenza e delle organizzazioni militari per ottenere e mantenere il loro dominio; la detenzione della proprietà privata dei mezzi di produzione appare dunque come form

a di dominio dell'attuale classe dominante, la borghesia, sull'attuale classe dominata, il proletariato; ma una costante del dominio dell'uomo sull'uomo, anche in società diverse da quella capitalistica, pare proprio essere l'uso della violenza e del potere di stato.

Del resto lo stesso Marx ci mostra come l'accumulazione primitiva fu resa possibile attraverso la cacciata violenta dei contadini dalle terre da parte di organismi di tipo militare: il capitale stesso dunque può nascere solo attraverso l'uso della violenza. Ma a questo punto, allora, bisogna porre chiaramente una questione: è il potere che nasce dalla proprietà privata (forma attuale dell'organizzazione economica), o è la proprietà privata che nasce dal potere?

Origini del potere: territorialità, famiglia e violenza

La domanda precedente può apparire oziosa, un po' come la storia dell'uovo e della gallina, ma vale la pena di chiarirla.

Abbiamo visto che il rapporto tra proprietà privata, potere dello stato e violenza è molto stretto, da qualunque punto lo si consideri Marx intravede l'origine della proprietà privata nella divisione del lavoro e dei ruoli tra maschio e femmina, tra padre e figli. Nei gruppi umani più antichi e primitivi si viene a stabilire precocemente una forma di divisione del lavoro, ed è proprio la possibilità del maschio di appropriarsi della forza lavoro della donna e dei figli che gli conferisce il potere di capofamiglia. Ma ancora una volta bisogna constatare che se il maschio può appropriarsi della forza lavoro della donna e della sua intera persona, è attraverso la forza.

Il maschio si appropria della forza lavoro della donna e dei figli attraverso la forza fisica, in quanto detentore di un potenziale di sanzioni violente ai danni della donna e dei figli, più deboli di lui. Questo problema sembra avere origini molto più antiche. Retrocedendo nella scala filogenetica, considerando cioè specie non umane, si trovano specie in cui il maschio ha la proprietà delle femmine del branco, ed è anche il "capo" del branco. Generalmente si tratta del maschio più forte e più aggressivo, di quello appunto che può garantirsi il potere attraverso l'uso di sanzioni violente contro gli altri membri del branco. Naturalmente il "capo" è anche utile al branco in quanto è il più valido nella difesa del territorio e nella caccia. Possiamo dunque facilmente immaginare che nei primitivi gruppi ominoidi capitassero fatti analoghi. Ma uscendo dalla condizione immediata di lotta contro la natura questo potere, utile alla sopravvivenza del gruppo, questo potere della sopravvivenza, si tramuta in sopravviv

enza del potere: si separa dal resto del gruppo sociale, diventa organizzazione separata e specializzata della violenza: casta militare, esercito, polizia. Diventa cioè struttura del potere, non più utile alla sopravvivenza, ma fine a se stessa. Il fine dell'organizzazione della violenza diviene quello di perpetuarsi come organizzazione separata: di perpetuare il potere di un gruppo sociale su un altro, di perpetuare il dominio dell'uomo sull'uomo, conservare i privilegi di classe, gli ordinamenti di status e l'organizzazione economica esistente. Ma a questo punto non si può più dire che l'economia sia la "struttura", dalla quale dipendono le istituzioni dello stato, il potere, l'organizzazione della violenza, come "sovrastrutture"; tra potere, proprietà privata, violenza appare dunque esservi un rapporto di interazione multipla.

Famiglia, ruoli sociali e cultura

Evidentemente però, siamo ormai molto lontani dalla situazione

descritta. Nella società attuale è relativamente raro che si ricorra a sanzioni violente, il che equivale a dire che è relativamente raro che si verifichino comportamenti devianti dagli schemi prestabiliti. Chi va incontro a questi tipi di sanzioni è una minoranza relativamente esigua. Ciononostante la struttura sociale si perpetua, si perpetua il dominio dell'uomo sull'uomo, la proprietà privata. Evidentemente la nostra ipotesi, e cioè che la struttura sociale del dominio si fondasse sull'organizzazione dell'economia, della violenza e del potere, non funziona.

Se la gente si adatta ai ruoli sociali prestabiliti perpetuando la struttura sociale senza incappare in sanzioni, si direbbe che lo faccia spontaneamente, e che esista un certo grado di consenso spontaneo verso l'ordinamento sociale. Ma allora la mia ipotesi sulla funzione della violenza è dunque falsa? Per rispondere è necessaria un'ulteriore indagine. Perché gli individui assumono il comportamento che devono assumere per perpetuare il sistema sociale, si adattano ai ruoli per essi prestabiliti, senza incappare quindi in sanzioni violente apprezzabili? Ancora una volta siamo costretti a prendere in esame la famiglia. E' infatti all'interno di questa istituzione che il bambino apprende ad adattarsi alle regole sociali. Non è possibile addentrarsi in questo argomento, estremamente vasto; mi limiterò perciò ad alcuni accenni schematici.

Basti per ora dire che il comportamento del bambino viene a poco a poco modellato dall'intervento dei genitori, che gli impongono ruoli sociali prestabiliti. I genitori sono dunque agenti del sistema sociale incaricati di modellare il comportamento del bambino in modo adeguato al sistema. Essi hanno a disposizione tutta una serie di sanzioni per punire le deviazioni del bambino dalle loro aspettative di ruolo (hanno anche a disposizione dei premi, o `rinforzi positivi'; ma da un lato questi sono meno usati nell'educazione corrente, e dall'altro il prenderli in considerazione non cambierebbe la sostanza del discorso. Per questi motivi ometterò di parlarne). I genitori iniziano a punire con l'uso della violenza le deviazioni del bambino, oppure con l'uso di sanzioni, come il ritiro dell'attenzione, dell'affetto, del contatto sociale, che se non si possono definire proprio violente, stando alla definizione di violenza che avevamo dato in precedenza, sono pur sempre sanzioni negative, che sul bambino hanno lo st

esso effetto delle sanzioni propriamente violente, cioè producono ansia. A poco a poco l'uso diretto delle sanzioni punitive non sarà più necessario: basterà l'uso dei segnali associati alle punizioni. L'esposizione a questi segnali sarà sufficiente a suscitare l'ansia del bambino, e questi, per evitare l'ansia, si comporterà nel modo voluto. A poco a poco si instaura un processo di questo tipo: il fatto stesso di iniziare un comportamento deviante diventa un segnale di una punizione imminente; il bambino, per evitare l'ansia suscitata dal suo proprio comportamento, ometterà di seguirlo. In tal modo il bambino eseguirà solo i comportamenti consoni col suo ruolo sociale e con la struttura sociale di cui fa parte. A questo punto si dice che il bambino ha "interiorizzato" o "introiettato" le norme sociali. Questo ruolo di sottomissione è tanto più accentuato per i bambini appartenenti a famiglie di status socio-economico inferiore per i quali, oltre alla sottomissione implicita nella loro condizione infantile,

si aggiunge, all'esterno della famiglia, un ruolo di sottomissione che deriva dalla condizione di inferiorità di status e di livello culturale della loro famiglia. L'adattamento alla sottomissione è un fattore molto importante, perché predispone gli individui a perpetuare le divisioni di classe e la struttura di potere.

Quando l'individuo diventa adulto, e non è più disposto al potenziale di sanzioni dei genitori, la situazione non cambia molto. Qualora egli non abbia interiorizzato del tutto le regole di comportamento adatte al suo ruolo, esiste sempre nella società una quantità di segnali di possibili punizioni sufficiente per escludere la possibilità che compaiano comportamenti indesiderati. Questi segnali sono per lo più forniti all'interno del diluvio di comunicazioni interumane che quasi ininterrottamente colpisce gli individui e vengono emessi dalla quasi totalità dei membri di una società. Ma l'efficacia di quei segnali ansiogeni viene mantenuta dal fatto che esistono delle istituzioni (esercito, polizia, psichiatria, ecc...) che hanno il monopolio della violenza: esse possono effettivamente usare senza restrizioni apprezzabili sanzioni violente contro i devianti. E' l'esistenza effettiva di sanzioni violente (percosse, carcere, manicomi, ecc...) ed il loro uso esemplare da parte delle istituzioni che ne hanno il mo

nopolio che può rendere efficaci anche i segnali di punizione non direttamente violenti.

Ma non sempre è così.

Non tutte le norme vengono interiorizzate esclusivamente per mezzo della violenza. Inoltre spesso le norme interiorizzate vengono seguite anche senza minacce esterne, evidenti o no. Oppure esistono comportamenti che pur non essendo sanzionati dalle istituzioni dello stato, vengono tuttavia sanzionati molto severamente dai membri della società. Un esempio è l'omosessualità.

Pare dunque che esista tutta una serie di norme comportamentali, di valori, di regole di rapporto, che non sono mantenute dalla minaccia della violenza diretta da parte delle istituzioni preposte al suo uso. Moltissimi schemi comportamentali vengono interiorizzati, oppure vengono mantenuti dai rapporti umani di tutti i giorni, attraverso i segnali emessi durante le comunicazioni interindividuali. La struttura sociale, e dunque i rapporti tra i ruoli, i rapporti di sottomissione di alcuni al dominio di altri, l'alienazione, si mantengono in questo modo. Solo perpetuando questi schemi comportamentali, appresi e mantenuti principalmente per mezzo della violenza, ma al di fuori delle istituzioni repressive dello stato, e mantenuti non solo da queste istituzioni, ma anche e soprattutto dai rapporti interumani di tutti i giorni, la struttura sociale può garantirsi che gli individui si adattino ai ruoli per essi prestabiliti, mantenendo così in vita una determinata organizzazione sociale fondata sul dominio. Dunque

la trasmissione delle tradizioni, dei valori, delle norme comportamentali, è di fondamentale importanza per la sussistenza di una determinata società e per la sua trasformazione storica.

Appare evidente, da questo punto di vista, l'insufficienza della concezione della società che ho esposto in questo paragrafo e che possiamo chiamare "materialismo storico ristretto".

E' sbagliato privilegiare l'organizzazione economica per spiegare l'andamento della società e della storia: alla base della società e della storia sta l'intera esperienza della specie umana, edificata in un insieme complesso che comprende valori e norme comportamentali, organizzazione dell'economia, organizzazione verticale di status, organizzazione della violenza e tutte le altre capacità acquisite dagli uomini come membri di una società: in breve ciò che in antropologia si suole chiamare "cultura".

Ogni elemento di questo insieme interagisce con tutti gli altri, e non si può più dunque comprendere società e storia privilegiando a dismisura un elemento dell'insieme. Per trasformare la società si deve dunque agire su tutti questi elementi.

L'uso della violenza

A questo punto credo che si incominci a intravedere il motivo della inadeguatezza della sinistra ufficiale, e a capire che l'unica tecnica possibile per la trasformazione sociale è la nonviolenza, e perché.

E' chiaro che se si trascurano tutti i vari elementi che concorrono alla strutturazione della società e alla sua trasformazione storica per concentrarsi su uno solo, quello economico, da una parte si è votati all'impotenza, perché si agisce su una sola variabile del sistema trascurando le altre che tenderanno a ricondurlo alla posizione di partenza; dall'altra l'illusione di gestire la trasformazione con l'autoritarismo di stato e con la violenza militaresca sarà sempre presente. Infatti, secondo questa visione delle cose, per trasformare la società bisogna prima di tutto avere il potere. Il problema è, dunque, di impadronirsi delle strutture dello stato, condizione necessaria per trasformare la struttura economica. Fatto questo, tutta la sovrastruttura e il suo potere, basato sulla violenza dovrebbero deperire per "necessità storica"! Ora, poiché "il potere nasce dalla canna del fucile", da qui a mettersi a sparacchiare in giro il passo è breve. E' ovvio che chi ha un po' di sale in zucca e senso di realism

o (alias i "revisionisti") si è accorto che qui con il fucile non si combina gran che, ed è più facile usare il sistema elettorale. Così punta al potere dello stato a costo di qualunque compromesso e delega l'organizzazione della violenza dello "stato borghese" (la polizia di Cossiga) alla repressione di quelli che vorrebbero impadronirsi dello stato in altro modo e che, per adeguarsi ai tempi, hanno talvolta sostituito il fucile con la pistola. E già che c'è, cerca di usare (o di lasciare usare) l'organizzazione repressiva dello stato anche contro chi la pistola non la usa, ma è comunque all'opposizione e vuole cambiare le cose in altro modo, magari senza usare del potere repressivo dello stato facendolo deperire fin d'ora.

Il fatto è che per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, per costruire il socialismo e uscire dall'alienazione, la violenza, che sia ribelle o di stato, non serve. Non solo perché, come sappiamo, la violenza ribelle offre allo stato l'alibi per diventare sempre più repressivo, e offre spazio alle provocazioni ordite dai servizi segreti, come la storia di questi anni ci ha purtroppo insegnato, ma soprattutto per motivi di fondo. La violenza è una tecnica il cui risultato non può che essere quello di ottenere un potere, o meglio un dominio dell'uomo sull'uomo. L'uso della violenza non può che produrre alienazione: infatti chi agisce sotto il controllo della violenza è costretto dall'urgenza della situazione di disagio e di ansia a comportarsi secondo i dettati dell'altro, di quello che usa la violenza, e non può scegliere il proprio comportamento razionalmente, non può agire per realizzare le proprie esigenze, ma deve agire per realizzare le esigenze dell'altro. L'uso della violenza non può che portare a

l dominio di chi la usa su chi la subisce. L'uso della violenza organizzata non può portare ad altro che al potere del gruppo che ne fa uso sugli altri: cioè non potrebbe portare ad altro che a un nuovo dominio di classe, a una nuova gerarchia, a un nuovo sfruttamento. Le organizzazioni della violenza sono prive di ragion d'essere, se non hanno quella di mantenere il potere di un gruppo a scapito di altri. Usare la violenza per mutare la struttura economica porterebbe a una diversa organizzazione dell'economia, tale da produrre e mantenere, attraverso meccanismi diversi da quelli vecchi, nuovi privilegi ed un nuovo dominio per un nuovo gruppo (classe, se vi piace di più) dominante, che manterrebbe il suo dominio attraverso il monopolio della violenza che esso ha organizzato per abbattere il vecchio ordine.

Ci si può obiettare che però la violenza spontanea delle masse, o comunque una violenza non organizzata militarmente e gerarchicamente, è indispensabile per abbattere le strutture del potere e le strutture economiche esistenti; una volta distrutte queste, si costruiranno poi dal basso nuove strutture sociali, fondate sulla libertà, sulla gestione diretta e non organizzate gerarchicamente. E' pressappoco questa la concezione della rivoluzione sostenuta dagli anarchici.

Questa prospettiva mi sembra irrealizzabile. Abbiamo visto che il sistema non si regge solo attraverso l'organizzazione economica e l'organizzazione del potere, della violenza e dello stato. Il sistema, per reggersi, ha bisogno di un certo consenso. Il sistema si regge solo assicurandosi, attraverso la "fabbrica della cultura" (famiglia, scuola, stampa, ecc.) un consenso; assicurandosi cioè che gli individui si comportino in modo tale da perpetuarne le strutture, e che si adattino a ruoli sociali prestabiliti. Ma nella misura in cui gli individui introiettano i loro ruoli sociali, interiorizzano gli schemi di comportamento stabiliti da un dato sistema sociale, essi tenderanno sempre a riprodurli, anche in situazioni mutate. Nella misura in cui i ruoli sociali e le norme vengono a far parte delle strutture di

personalità dei membri di una determinata società, è impossibile cambiarli con un colpo di spugna. Ma allora una distruzione improvvisa e violenta del potere sarebbe un sussulto che non cambierebbe molto. A poco a poco i membri della società riprodurrebbero le norme di comportamento interiorizzate, i ruoli e con essi i vecchi rapporti economici e di potere esistenti, e "tutta la vecchia merda".

E' impossibile mutare radicalmente i rapporti di potere e le strutture sociali, e sopprimere le divisioni di classe senza un lavoro paziente di "rieducazione" (per così dire) e di decondizionamento dei membri e dei gruppi della società, e senza un mutamento profondo della cultura (intesa nella sua accezione più vasta). Ma questo non è un lavoro che si possa fare con la violenza.

La nonvioIenza

A questo punto non credo possibile costruire una società nuova, una società socialista e libertaria, attraverso l'uso della violenza. La violenza non è uno strumento efficace per abolire il dominio dell'uomo sull'uomo, la divisione di classe, lo sfruttamento. Per abolire l'alienazione; per creare una società dove tutti siano padroni della propria vita, per inventare una società capace di riappropriarsi del corso della storia, l'unica forma di lotta adeguata appare essere quindi la nonviolenza.

La nonviolenza è una forma di lotta che esclude l'uso della violenza, come definita all'inizio di questo articolo. E' un insieme di tecniche non assertive del potere, e non è dunque, come molti, purtroppo disinformati, credono, un atteggiamento morale interiore e individuale. Non si tratta di disinteresse o di acquiescenza passiva di fronte alla violenza del potere; si tratta invece di tecnica di lotta politica volta alla trasformazione della società e alla liberazione dal dominio. Essa è ricerca di nuovi strumenti di lotta, diversi dai tradizionali metodi violenti, considerati inefficaci allo scopo della costruzione di una società libera e socialista. Individuando nella violenza uno dei dati portanti del sistema, il nonviolento rifiuta di riprodurre il sistema dentro si sé, di riprodurre i comportamenti violenti che sono caratteristici del funzionamento del sistema e fondamentali per la sua perpetuazione, allo scopo di isolare il sistema, di mostrare alla gente da che parte stanno la sopraffazione e la viol

enza, di uscire nel momento presente dalla sua logica e mostrare immediatamente e sensibilmente un'alternativa.

La nonviolenza contrappone all'uso di sanzioni violente e del potere per organizzare la società, l'uso di "rinforzi positivi", di ricompense, di amore e della ragione; contrappone al potere e al dominio dell'uomo sull'uomo la gestione diretta della vita e della società da parte di ciascuno. Attraverso l'uso di questi metodi di lotta nonviolenta manifesta sensibilmente fin d'ora nella lotta di tutti i giorni il progetto di società che vuol costruire. Essa è dunque contemporaneamente metodo di lotta e progetto di un nuovo modo di vivere.

Le prime armi della nonviolenza e le sue forme di lotta principali sono la resistenza passiva e la disobbedienza civile. Il primo passo della lotta consiste cioè nel non adeguarsi ai soprusi del potere, nel violare deliberatamente e pubblicamente tutti quegli ordini, quelle leggi, quei regolamenti che hanno la funzione di mantenere una situazione ingiusta che si vuole cambiare. La tecnica di lotta, per attuare la disobbedienza civile, quando ci si trova di fronte al nemico (generalmente la polizia o chi per essa) consiste fondamentalmente nella resistenza passiva, che non consiste nel sottomettersi alla volontà del nemico, ma nel resistere, non adeguandosi alla sua volontà, senza usare violenza e senza cadere nella sua logica violenta, per isolarlo moralmente e nel contempo tenere aperte le possibilità di dialogo qualora ciò sia possibile. La strategia fondamentale della nonviolenza consiste, oltre che nella disobbedienza civile, nella noncollaborazione, cioè nel rifiuto di collaborare, appunto, coi meccanis

mo del potere e del sistema, di rifiutare la collaborazione con tutte quelle istituzioni contro le quali si intende lottare, nel non adeguarsi alle norme di comportamento funzionali al sistema. Si tratta cioè di non obbedire a tutte le leggi e le regole volte a perpetuare il funzionamento di quelle strutture che si vogliono cambiare; la nonviolenza è dunque principalmente violazione deliberata, pubblica e collettiva di leggi dello stato, norme e regolamenti, per distruggerle e cambiarle. E' dunque rifiuto di adeguarsi a regole repressive e violente o comunque sbagliate e di rendere efficaci le sanzioni violente in uso per mantenere comportamenti e ruoli; rifiuto di cedere alla violenza e rifiuto di usarla.

Ovviamente non si tratta di violare le regole esistenti senza porre un'alternativa: nella tecnica della nonviolenza e della disobbedienza civile è implicito un secondo aspetto, un aspetto costruttivo. Si tratta di inventare subito, nell'organizzazione e nella lotta, nuovi tipi di organizzazione e nuove norme non più fondate sulla violenza e sul dominio, che prefigurino un'organizzazione sociale priva di gerarchia e libera dal dominio di classe. Ma la cosa non finisce qui. Abbiamo visto che il sistema si mantiene non solo per mezzo dell'organizzazione economica e dell'organizzazione della violenza da parte dello stato, ma anche per mezzo dell'organizzazione di un certo "consenso"; si mantiene con la possibilità di modellare precocemente i suoi membri in modo tale che essi si adattino alle aspettative di ruolo del sistema. Adattandosi ai ruoli essi si adattano anche ai rapporti di sottomissione; e abbiamo visto che sono principalmente le interazioni umane a mantenere i comportamenti di ruolo, mentre l'interior

izzazione dei ruoli a sua volta perpetua un certo modello di interazione umana e una certa struttura sociale.

Per questo la disobbedienza civile non può sensatamente fermarsi al momento pubblico; non può essere solo violazione di norme codificate in leggi e proposta di organizzazione politica alternativa che attui immediatamente regole diverse, ma si deve spingere al rifiuto dei ruoli del sistema, delle regole di comportamento usuali, del tipo diffuso e dominante di rapporti umani tali da perpetuare la strutturazione gerarchica dei ruoli, al rifiuto dei rapporti umani mercificati e basati sullo scambio, che negano la comunicazione. Si tratta di rifiutare fin d'ora, nel nostro comportamento di tutti i giorni, nei nostri rapporti umani, le regole dominanti; di ricercare attivamente nuovi comportamenti, nuove regole, nuove modalità di interazione umana, non più funzionali alla società del dominio ma a quella della liberazione. Si tratta della ricerca attiva, giorno per giorno, sia teorica che pratica, di una nuova moralità, non più fondata sulla coercizione, sul peccato e sulla colpa, ma fondata sulla partecipazione, l

a comprensione razionale, la sensualità e la libertà. Ricerca pratica, dicevo, in quanto ricerca che si svolge nel comportamento e nell'azione politica di tutti i giorni. Ricerca che non può limitarsi all'attuazione di nuovi rapporti all'interno del movimento politico, ma che si deve trasformare in azione attiva verso l'esterno di dialogo, di decondizionamento sociale, e, per così dire, di rieducazione.

La trasformazione della società, la rivoluzione, è dunque un processo continuo, che avviene nelle azioni e nella vita di tutti i giorni; tale processo inizia subito, qui ed ora, e non ha senso rinviarlo ad un momento magico futuro, la Rivoluzione (con la R maiuscola). Certo nella storia esistono dei momenti in cui il suo corso sembra subire scosse, e sono momenti importanti; ma essi possono esistere ed avere un senso, essere vincenti, solo se maturati nella vita e nell'esperienza quotidiana di ciascuno.

Un esempio tipico di azione nonviolenta è l'obiezione di coscienza. Essa è (o meglio, è stata) disobbedienza civile, in quanto violazione (alla sua nascita) pubblica e maturata di una legge dello stato; è noncollocazione, in quanto rifiuto di far parte di una istituzione repressiva. E' rifiuto di adeguare il proprio comportamento, giorno per giorno, alle regole del potere, ai comportamenti più repressivi, ai rapporti umani fondati sul dominio. E' il rifiuto dell'istituzione preposta all'organizzazione della violenza e alla difesa della società del dominio, e nel contempo rifiuto del ruolo che riassume esemplarmente su di sé tutte le caratteristiche della società del dominio: il ruolo del maschio militare. Contemporaneamente l'obiezione di coscienza è anche proposta alternativa: attraverso il servizio civile essa propone un diverso comportamento, un'organizzazione diversa, secondo regole non repressive e non rivolte al dominio, e volta non al mantenimento del dominio, ma all'utilità sociale e alla trasformazi

one sociale in senso libertario.

Ma gli esempi di azione nonviolenta non si fermano all'obiezione di coscienza: esistono moltissime forme di noncollaborazione con il potere che vanno dalla forma tradizionale dello sciopero, fino al rifiuto di pagare le imposte, alle autoriduzioni. Ma ciò che è importante della strategia nonviolenta è che essa comporta solitamente il rifiuto di ribattere colpo per colpo alla violenza dell'avversario, entrando così nella sua spirale e accettando lo scontro sul terreno dell'avversario; l'applicazione corretta della strategia nonviolenta implica che sia il movimento dei nonviolenti a scegliere il punto dove attaccare l'avversario, imponendogli così il proprio terreno di lotta.

Tutto questo equivale a dire che la battaglia nonviolenta ha senso perché non è condotta solo in negativo, come momento di resistenza che ha lo scopo di difendere i pochi spazi esistenti dagli attacchi del potere, ma è condotta più che altro in positivo, come attacco graduale contro le strutture del potere, come resistenza alle regole del sistema che si realizza contemporaneamente in positivo come costruzione di un abbozzo di nuove regole e di una nuova società. Anzi l'azione nonviolenta ha la sua efficacia e il suo significato proprio in quanto si manifesta contemporaneamente come attuazione di regole diverse da quelle che si vogliono distruggere e costruzione e proposta pratica di un'organizzazione alternativa rispetto a quella che si vuole negare.

La caratteristica fondamentale della nonviolenza sembra dunque essere quella di proporre un metodo di lotta consistente nell'autorganizzazione dal basso di momenti esemplari di strutturazione della nuova società, o addirittura della nuova società tutta intera. E' negazione totale della continuità dello stato e della repressione: i nonviolenti rifiutano di usare il potere dello stato e di usare le istituzioni per trasformare dall'alto la società; si tratta piuttosto di creare dal basso i nuovi modelli organizzativi, gli esperimenti di nuova società: lo stato va posto di fronte al fatto compiuto. Il compito dello stato viene ad essere quello di codificare l'ordinamento sociale che la gente si è data autonomamente dal basso e di aiutare a garantire la sicurezza e la libertà: si tratta cioè di creare autonomamente delle nuove forme di organizzazione sociale, e di usare lo stato per coordinare e garantire la sussistenza, non viceversa.

Ne risulta l'ovvia conseguenza che quando lo stato sia troppo retrivo per poter essere usato come strumento organizzativo della nuova società creata dal basso, è compito degli attivisti nonviolenti creare uno stato e un governo provvisori in grado di coordinare e difendere le conquiste organizzate dal basso: si tratta di creare un'organizzazione di controsocietà già all'interno della società attuale, in grado di sostituirsi all'oganizzazione statale da disfare.

Risulta ormai chiaro che nonviolenza e autogestione sono indissolubilmente legate: la disobbedienza civile e la noncollaborazione con il sistema sono realmente tali quando sono obbedienza e collaborazione con la nuova società che si vuole creare; esse perciò vanno di pari passo con la capacità di gestire dal basso le nuove tome di organizzazione che si oppongono alla vecchia.

Un grande e fondamentale esempio di disobbedienza civile e noncollaborazione sarà l'autogestione dei mezzi di produzione da parte di ci chi lavora e del territorio da parte di chi vive. E' evidente quindi che la strategia della nonviolenza propone un modello di società di tipo autogestito, e dunque uno stato il meno autoritario e accentrato e il più direttamente controllato dai cittadini possibile; propone insomma di lavorare sin d'ora per l'abolizione dello stato.

Essa è l'opposto della concezione della "dittatura del proletariato". Ma questo, del rapporto tra socialismo autogestionario e nonviolenza, è un tema che converrà approfondire in altra occasione.

 
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