Giulio Ercolessi, Trieste,del Partito Radicale del Friuli-Venezia Giulia
SOMMARIO: E' mancato in questi anni un serio dibattito politico sui problemi organizzativi. Il problema della democrazia diretta nei congressi. Si arresta il processo di omogeneità politica per la mancanza di occasioni di confronto e per l'aumento del numero dei tesserati. Dobbiamo organizzarci in modo rigororso ed abbandonare la "gestione familiare".
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)
Il documento elaborato dal gruppo redazionale di "Argomenti Radicali" e il dibattito che ne seguirà potranno forse essere il punto di avvio di qualcosa che nel PR è sempre mancato, e dalla cui mancanza traggono origine (o in assenza di cui si sono aggravati) molti dei problemi che il documento stesso affronta e per i quali avanza diligentemente importanti soluzioni e proposte. Ciò che è totalmente mancato in questi anni è stato infatti, credo, un qualunque serio dibattito politico sui problemi organizzativi e di gestione del partito, che, nel PR, assumono più che altrove un significato politico, stante il reiterato assunto di voler fare dello statuto il maggiore manifesto teorico del partito e la volontà di proporsi come modello di organizzazione libertaria alle altre forze democratiche.
Se ne parla in realtà, è vero, e molto, ad ogni congresso, ma, in mancanza di qualunque dibattito precedente, pochissimi di coloro che partecipano alle rituali riunioni delle commissioni sullo "stato del partito" (attraverso le quali il tema è sempre stato espulso dal dibattito politico del congresso, o vi è stato versato in modo del tutto depoliticizzato attraverso relazioni anodine o a senso unico) vi giungono con una pallida idea dei problemi teorici e pratici posti dallo statuto e dalla sua fin qui totale disattuazione. Ciò non vale solo, naturalmente, per i problemi organizzativi, giacché congressi che si svolgano senza alcun dibattito preliminare, per quanto di "democrazia diretta", non possono che risolversi in rituali plebisciti, in inutili comizi, o, nella migliore delle ipotesi, soltanto in manifestazioni di lancio di questa o quella iniziativa politica.
Va approfondito quindi uno spunto appena accennato nel documento: le dimensioni e la funzione che il PR ha assunto non gli consentono più di tenere questo tipo di congressi; pretendere di far partecipare a un dibattito, in tre giornate, mille o duemila persone significa puramente e semplicemente abrogare ogni dibattito, e consentire di esprimersi solo a chi lo può fare attraverso canali diversi da quelli specificamente congressuali. Vero è che non sembra possibile porre concretamente il problema per il prossimo congresso, poiché l'attuazione dello statuto in questo campo comporterebbe non solo la convocazione di un congresso per delegati, ma anche e soprattutto il decentramento (cioè la realizzazione per la prima volta) del dibattito congressuale e precongressuale, su base regionale. E per fare seriamente questo non c'è tempo. Tuttavia il problema va affrontato con urgenza: se si è giunti a teorizzare che il PR non avrebbe bisogno di momenti ulteriori di democrazia interna, perché la frequenza e il carattere
"diretto" dei congressi sarebbero tali da consentire negli intervalli una gestione "presidenzialistica" (di fatto invece autocratica, per effetto soprattutto dei meccanismi politici e psicologici del professionalismo bene individuati nel documento).
Il risultato è che i congressi non si tengono secondo lo statuto perché in quelli di oggi non ci può essere consapevole conoscenza di questi problemi che da parte di pochi, e che d'altra parte, non tenendosi i congressi secondo lo statuto, non può svilupparsi nel partito alcuna dialettica democratica.
Non c'è da stupirsi quindi che il processo di formazione e di crescita di una omogeneità politica e culturale dell'organismo radicale sia del tutto bloccata, come emerge dall'analisi operata dal documento, e che le inevitabili incomprensioni, frizioni e delusioni non possano che esprimersi nel mancato rinnovo dell'iscrizione. L'aumento quantitativo del numero dei tesserati, che cresce in misura maggiore, non deve far dimenticare il dato preoccupante, secondo cui ogni anno larga parte dei nuovi iscritti non rinnova l'iscrizione: e si tratta spesso proprio di coloro che potrebbero, se ne fosse data loro la possibilità, esprimersi e agire autonomamente nelle situazioni locali. In tali situazioni spesso il PR è incapace di fare altro che eseguire le istruzioni degli organi centrali: attaccare manifesti, distribuire volantini, raccogliere firme. Tutte cose essenzialissime e fondamentalissime, ma altrettanto assolutamente insufficienti a fare del PR quella federazione di centri autonomi di iniziativa che lo statut
o teorizza.
C'è semmai da stupirsi che questa situazione, non casuale, ma perseguita da una parte dei "radicali di professione", di totale mancanza di occasioni, che non siano solo formali, di confronto e di dibattito, abbia prodotto solo da poco e solo in misura fin qui quantitativamente e qualitativamente trascurabile all'interno del PR fenomeni frazionistici, con spiccate tendenze al settarismo e, soprattutto, totalmente estranei al background politico e culturale radicale di questi anni, di cui è un primo esempio il gruppo di "Autogestione".
Situazione, appunto, a mio avviso non casuale questa della pressoché totale inesistenza di occasioni non solo formali di confronto e di dibattito fra i radicali: è vero che, fino all'incirca a due o tre anni fa una situazione del genere poteva spiegarsi con il tipo di crescita e di sviluppo dell'organismo politico radicale; è anche vero che il professionalismo, che in tale situazione era in certa misura inevitabile, comporta fenomeni analoghi in tutti i movimenti politici.
Ma tutto questo non giustifica l'irritazione e l'insofferenza nemmeno dissimulate per ogni tipo di critica e di dissenso anche marginale, tanto più ingiustificabili se rivolte non contro chi dissente dagli obiettivi politici, dalla strategia o dalle singole battaglie radicali, ma contro chi rivendica l'attuazione dello statuto, contro chi non si rassegna all'idea che il PR debba continuare ad essere un partito libertario e alternativo negli obiettivi, e nemmeno democratico nella sua vita interna, e quindi, alla lunga, bloccato e fortemente condizionato nelle possibilità di sviluppo e di affermazione anche esterne.
Ed è chiaro che, a mano a mano che si allargherà la domanda di un sempre più ampio arco di temi e di battaglie da affrontare (solo uno di quelli cui abbiamo cominciato ad accostarci quest'anno, a mio avviso potenzialmente primario, quello della difesa ambientale, richiederebbe uno sforzo di elaborazione e una molteplicità di interventi, anche locali, enormi) e che si restringeranno le possibilità di alcuni tradizionali strumenti di lotta politica radicale (i digiuni che non fanno più notizia fino alla morte del digiunatore, i referendum che il regime si appresta a rendere giuridicamente sempre più impraticabili); mano a mano che il PR risulterà essere sempre più la sola opposizione di sinistra socialista e nonviolenta al regime del compromesso storico, sarà sempre meno possibile eludere questi problemi.
Ma per affrontarli è necessaria una volontà politica rigorosa e decisa, di cui fino ad oggi non si è avuta neanche l'ombra: decine di riunioni completamente inutili del Consiglio federativo, convocato spesso a decisioni già prese, o solo per diramare direttive dal vertice, l'abitudine ai fiumi di parole spese e alle centinaia di chilometri percorsi inutilmente per anni non sono qualcosa che si supera e si modifica radicalmente senza un confronto chiaro e netto, senza la volontà di affrontare alla radice quello che è uno dei nodi politici fondamentali che il PR deve sciogliere.
Le indicazioni contenute nel documento di "Argomenti Radicali" costituiscono una prima risposta e forniscono utili e importanti contributi alla risoluzione dei maggiori problemi interni del PR, ma rischiano di restare lettera morta se ancora una volta il Congresso di novembre mancherà di rispondere a questa domanda: è possibile essere soggetti attivi della politica radicale, o si può solo aderire in modo incondizionato ed acritico a un'entità immodificabile, prigioniera (come le forze politiche tradizionali) di un inesorabile processo di involuzione burocratica? In altre parole: vogliamo attuare lo statuto del 1967 oggi che è finalmente possibile farlo, per costruire il partito nuovo che sarà sempre più indispensabile nei prossimi mesi ed anni, o vogliamo continuare a esaltarlo a parole per contraddirlo sempre più nei fatti?
La mozione Pergameno, approvata dal Congresso di Napoli, era una prima indicazione in senso positivo, ma non è stata sorretta da alcuna nuova volontà politica del gruppo dirigente nazionale del partito nel suo complesso: come e più che nei partiti tradizionali, non solo le decisioni, ma anche le informazioni sull'attività stessa del partito hanno continuato ad essere patrimonio esclusivo di una ristrettissima cerchia di compagni (e neppure sempre di quelli o di tutti quelli statutariamente posti al "vertice" del partito). Dobbiamo sapere bene che modificare abitudini e cristallizzazioni del genere significa avviare un processo che a questo punto non può certo essere indolore o lineare, ma non possiamo più permetterci una gestione del partito privata o "familiare" come quella che era possibile quando eravamo in duecento: oggi quella gestione "familiare" sarebbe (o è) una gestione "patriarcale" e oggettivamente autoritaria.