Cesare Pogliano, Torino,del Movimento Liberale Democratico
SOMMARIO: Il problema principale è quello di indirizzare la provocazione radicale verso mete precise. Bisogna poi contemperare le componenti ideologiche e storiche del partito. C'è il rischio che venga meno l'effettiva funzione di provocazione del partito.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)
La crescita radicale ed i suoi successi (dal divorzio, alla campagna elettorale, agli 8 referendum; dal centinaio di persone del '72 alla soglia attuale delle decine di migliaia) possono dare a qualcuno l'impressione di una cavalcata sudata e sofferta, ma comunque trionfale, tanto più entusiasmante quanto più sul percorso vengono buttati ostacoli che dimostrano da parte degli "avversari" (che sono ormai quasi tutti gli altri) l'attenzione e la preoccupazione per questo fenomeno, contro cui si ostenta differenza e disprezzo.Il problema principale è quello di indirizzare la provocazione radicale verso mete precise. Bisogna poi contemperare le componenti ideologiche e storiche del partito. C'è il rischio che venga meno l'effettiva funzione di provocazione del partito.
Non mancano, però, coloro che hanno cominciato a chiedersi se il passo di carica sia veramente il più utile ed efficiente, e sia utilizzabile indefinitamente. Soprattutto, c'è qualcuno che vorrebbe mettere la testa fuori dal polverone per dare un'occhiata e vedere "verso dove", e non solo "contro cosa", si stia correndo; ed anche per guardarsi intorno, verso i vicini di cavalcatura, e magari scambiare con essi qualche voce diversa dalle urla di assalto o di vittoria, almeno per verificare se si parla la stessa lingua.
Di costoro, di solito, si dice che non sanno stare a cavallo, che non reggono il ritmo, probabilmente perché sono abituati ai tradizionali viaggi in treno ed al disquisire salottiero da scompartimento di prima classe.
Il rischio, ed il problema, è proprio questo: la "provocazione" radicale (indispensabile nella ammuffita realtà italiana di oggi) presuppone le torme che buttano l'anima al di là dell'ostacolo; la "presenza radicale" presuppone una limpida visione del terreno su cui si sta correndo e delle mete cui si tende (un progetto politico culturale); e se è vero che questo non si concreta nelle conversazioni dei salotti di prima classe, non può fare a meno di un tracciato di strada ferrata, di coerente ed efficiente forza motrice, oltreché dell'accordo di intenti di fuochisti e ferrovieri (non si dà, infatti, il caso di semplici passeggeri di prima classe).
Abbandonando le metafore da Savoia Cavalleria e da ripartizione delle FFSS, in linguaggio aperto, la contraddizione ed il problema stanno nei termini (ma non sono altrettanto metaforici e mistificanti?) di "movimento" e "partito".
Tutti gli altri problemi sono riconducibili infatti alla necessità (che è anche impossibilità?) di contemperare ("coniugare", si dice oggi) queste che sono non solo compresenti realtà storiche ed ideologiche del partito (dei suoi protagonisti, del suo modo di essere, della sua militanza), ma anche ruoli necessari che la realtà politica italiana attende che siano coperti ed interpretati.
Anche filologicamente il termine "radicale" concreta due distinte accezioni: un modo di essere e di agire intransigente, che si esprime utilmente e "facilmente" sui singoli problemi, i singoli fatti, le singole situazioni (per le quali si perseguono, appunto, soluzioni "radicali"); ma anche un progetto ed una visione politico-culturale che, storicamente in Italia, si riallaccia alle tradizioni del vecchio Patto Radicale (quello di fine Ottocento), e dei democratici, dei
liberalsocialisti, e dei nuovi radicali degli anni '50.
L'attuale PR ha preso l'avvio, a mio parere, su quest'ultima "ipotesi-speranza" di continuità politico-culturale. Ma è cresciuto, ha preso corpo e sostanza, e soprattutto ha avuto utile incidenza del nostro Paese nella misura in cui è stato radicale in quest'altro senso, di movimento appunto, di sacrosanta provocazione e rivendicazione.
Nella realtà del nostro Paese (della sua arretratezza di democrazia politica e culturale), il momento della provocazione, della protesta, è tuttora essenziale. Ma altrettanto essenziale è la copertura dello spazio politico-culturale "radicale", il cui restare vuoto (o tradito) è la causa e nello stesso tempo la conseguenza più drammatica della arretratezza della nostra democrazia.
Il mio timore (che è quasi consapevolezza) è che la realtà attuale del Partito, l'essenzialità della sua funzione di "provocazione", di movimento, venga necessariamente compromessa o rallentata da ogni tentativo (interno al Partito) di operare la trasformazione, di far prevalere il momento di "presenza", di progetto globale, di "partito".
Nella mia personale speranza di radicale sceso (o caduto) da cavallo, c'è un disegno impossibile di ingegneria (ferroviaria?) che possa tradurre la protesta in ragione, in progetto. Ma ho, appunto, la personale convinzione che sia (dentro il Partito) un disegno impossibile. La conseguente considerazione (tutt'altro che "radicale" ed intransigente) è che il Partito se così è, è perché "così ha da essere". Ma fuori del partito (accanto) è dovere e diritto di tutti quelli che sul sogno o progetto credono e sperano (o hanno creduto e sperato) lavorare e discutere (anche a rischio di sembrare dei salottieri) per costruirlo. Anche solo per ipotizzarlo.
Se poi, per costoro, fosse possibile trovare un tavolo e quattro sedie nell'accampamento del partito (e do per scontato che, magari come fantaccini, essi partecipino alle "cariche" più importanti) tanto di guadagnato.
E mi spiace di non saper trovare modi più concreti e più analitici (l'ho tentato, con scorno, altre volte), che non queste forme metaforiche da cavallerizzo in congedo, per esprimere tanto l'amarezza e la sfiducia, quanto la speranza e il consenso che caratterizzano il mio rapporto col Partito Radicale.