Gianfranco Spadaccia, Roma,presidente del consiglio federativo nazionale del PR
SOMMARIO: Il documento di "argomenti radicali" parte da un'analisi unilaterale dello stato del partito. Si affrontano i problemi in modo sbagliato: cultura di sinistra, burocratizzazione, problemi al vertice. A me interessa il dialogo interno. Rapporti partito-gruppo parlamentare; carisma di Marco Pannella.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)
Cari compagni di "Argomenti Radicali", alcune osservazioni generali sul vostro documento, sul quale mi riservo in altra sede di intervenire analiticamente, fornendo risposte, che possono essere di consenso su alcune proposte, di netta alternativa su alcune altre.
Mi pare che, nella sua specificità, tutta centrata sullo stato del partito e sulla attuazione dello statuto, il documento parta da una analisi della situazione interna e delle necessità (dei bisogni, della domanda) del partito, che è in gran parte condividibile, ma fortemente unilaterale.
Esso non fa i conti con la realtà politica, con la realtà e i tempi della lotta politica che il partito deve affrontare Proviamo a vedere in cosa consistono questi conti?
Entro dicembre sapremo probabilmente se il disegno del PCI (e del vertice DC) di eliminare l'istituto del referendum per eliminare i referendum radicali, sarà andato in porto o se saremo riusciti a fermarlo.
1) Nella prima ipotesi sarà profondamente mutato non solo il quadro politico, ma lo stesso quadro costituzionale: non solo avremo un Parlamento senza più opposizione, ma avremo una Repubblica senza referendum, cioè senza l'unico altro canale attraverso cui possa esprimersi in forme democratiche e costituzionali l'opposizione esistente nel paese. E' azzardato dire che in questa ipotesi una intera strategia del Partito Radicale, decennale o addirittura ventennale, entrerebbe in crisi e tutto dovrebbe essere riconsiderato?
2) Nella seconda ipotesi si aprirebbe un nuovo periodo di lotta politica, tanto intenso quanto lo è stato quello della raccolta delle firme, quello delle elezioni, e quanto devono esserlo i mesi da qui a dicembre. Il partito dovrebbe infatti prepararsi o alla campagna di svolgimento degli otto referendum, o all'alternativa delle elezioni anticipate. Si riaprirebbero margini anche molto ampi di iniziativa politica e di successo della nostra lotta, ma in condizioni di difficoltà (derivanti dalla sproporzione fra forze ed energie ed obiettivi da raggiungere) che non possiamo ignorare.
Questa unilateralità, questa mancanza di conti con la realtà della lotta politica, manca nel vostro documento non solo per le scelte che riguardano l'immediato futuro, ma anche significativamente per l'analisi del recente passato, se si esclude un sommario elenco delle lotte condotte e vinte, dal divorzio agli otto referendum, fino a quando "il partito ha visto moltiplicarsi i gruppi e le associazioni".
Il partito ha visto. Sembrerebbe a leggere il documento che lo sviluppo del partito sia avvenuto a un certo punto e a un certo momento per germinazione spontanea o per effetto, come sostegno per spiegare fenomeni analoghi certi sociologi, di un nebuloso movimento di cui è sempre difficile afferrare attori e protagonisti, precedenti storici e componenti politiche e sociali. Non vi sarete convinti anche voi alla tesi del movimento radicale che a un certo punto deve "trasformarsi in partito"? Una tesi imbecille che può essere sostenuta solo da chi è solito guardare ai fenomeni della politica e alla storia delle forze politiche dall'empireo dei propri criteri di interpretazione idealistici (e quanto idealismo d'accatto si nasconde dietro a certa sociologia) senza mai verificarli nei fatti, senza mai preoccuparsi di abbassarsi a guardare per terra, alle gambe (e cioè al faticoso formarsi e crescere degli organismi collettivi) su cui camminano le idee. A questa tesi mi sento di contrapporne un'altra del tutto oppo
sta, meno iperbolica e paradossale di quanto possiate pensare: che il P.R. era assai più "partito" nel senso tradizionale del termine e assai meno "movimento" quando era composto da sole cento persone, ed è assai più "movimento" e meno partito oggi che è composto di alcune migliaia di compagni: almeno nel senso che riesce a produrre assai più movimento oggi che ieri, cioè riesce a coinvolgere, quando ci riesce, con metodi di autogestione libertaria, alla portata di tutti, il maggior numero possibile di persone (di gente), spesso anche molto lontane per convinzioni di quella che si assume arbitrariamente come l'ideologia comune dei radicali.
Il partito si è sviluppato con le sue lotte, con gli sbocchi politici generali che attraverso di esse riuscivamo a trovare e che costituivano la condizione indispensabile, spesso minima, perché il partito potesse vivere e far vivere la propria strategia e con essa la possibilità di una affermazione e di una diffusione dei valori, delle idee, degli obiettivi, degli interessi alternativi di cui era inizialmente portatore o di cui si arricchiva e si investiva via via nell'incontro con la realtà uscendone trasformato e diverso. Non basta dire che l'organizzazione del partito era allora funzionale a quelle lotte che erano combattute su obiettivi delimitati. Siamo sempre stati partito e non movimento perché quegli obiettivi venivano perseguiti, oltre che per il fine specifico e per i valori che intendevano affermare, come elementi fondamentali di crisi e di contraddizione del sistema politico. In questo senso nessun altro è stato più partito, cioè parte politica (coscienza di essere parte) del radicale. Né si può
dimenticare come e in quali condizioni, con quali costi personali e collettivi, con quali prassi, con quali intuizioni e con quali errori, sono state affrontate e vinte.
Ciò che io contesto non è tanto questa o quella soluzione pratica che proponete, ma questa valutazione iniziale di fondo che assumete come centrale di tutto il documento: che oggi la situazione del partito sia mutata e gli consenta, anzi gli imponga di fare salti qualitativi di cui date per scontato che esistano le condizioni materiali soggettive e le condizioni politiche esterne. Come se la "capacità di essere partito dell'opposizione non gruppuscolare né marginalizzata" dipendesse solo dal modo d'essere del partito, da "una migliore e maggiore qualificazione del suo progetto politico", dall'affrontare "un arco di temi più ampio", dall'attuazione integrale del modello statutario (dal quale per altro in alcune delle vostre proposte vi allontanata radicalmente), e non dal rapporto con la situazione esterna e con i processi politici in corso, dal rompere ancora una volta le nuove e più gravi chiusure di regime, dal vincere o perdere la battaglia sui referendum e per salvaguardare e ripristinare alcune condizio
ni essenziali di democrazia, di legalità repubblicana, di dialettica democratica, di informazione corretta e non distorta, censurata, lottizzata.
Io credo che anche questa battaglia che abbiamo ingaggiato possa essere vinta, che ne esistono le condizioni e le possibilità, che esistano ancora contraddizioni e spazi sufficienti per agire con successo. Ma questo può avvenire a prezzo solo di una lotta ancora un volta dura ed estremamente concentrata sull'obiettivo che ci diamo, senza raggiungere il quale ogni altro obiettivo rischia di essere velleitario e impossibile perché allora sarebbe la situazione ad averci ridotto alla condizione di gruppuscolo marginalizzato e ad averci allontanato forse definitivamente dalla condizione a cui abbiamo sempre aspirato di forza politica protagonista di processi alternativi.
Credo anche che una eventuale sconfitta della nostra lotta sarebbe ottenuta dai nostri avversari a prezzo di nuove contraddizioni, e che quindi ancora, non tutto sarebbe perduto per i radicali. Ma dubito che il partito sarebbe in grado di avvantaggiarsene e di affrontare i costi di una lotta che sarebbe ancora più difficile e sproporzionata rispetto ai nostri mezzi e alle nostre forze e possibilità.
Deriva da questa vostra impostazione un'ottica sbagliata nel guardare a problemi che pure sono reali e che sarebbe miope e sbagliato ignorare o negare.
Come quando parlate delle culture politiche dominanti della sinistra, che occupano il partito (ma che insidiano anche il modo di pensare e di reagire di ciascuno di noi perché è in questa realtà che viviamo e non possiamo non esserne influenzati) e rischiano di diventarne alla lunga fattori dirompenti: ma ritenete davvero che si possa battere il dominio di queste culture che si reggono sull'esercizio del potere all'interno del regime solo con strumenti interni di dibattito e di informazione, senza creare contraddizioni e aprire spazi di libertà, che valgono per tutti, all'interno delle istituzioni e negli strumenti di comunicazione di massa?
I problemi dell'omogeneità radicale si affrontano e si risolvono nella lotta politica, dandoci certo diversi e migliori strumenti per affrontarla collettivamente, ma non isolando schizofrenicamente problemi e soluzioni interne da impegni e obiettivi di lotta, o ipotizzando astrattamente impegni e obiettivi di lotta diversi da quelli che impongono al partito le scadenze e i ritmi dettati dall'urgenza e dalla drammaticità dei processi politici che dobbiamo battere.
O come quando enfatizzate i rischi del centralismo democratico, della burocratizzazione, dell'affermarsi di metodi leninisti, o della creazione di un partito avanguardistico. Questo è stato certamente un partito di lotta e di movimento, un partito soprattutto di militanti, ma in cui ciascuno, anche il più sprovveduto compagno di base, anche la compagna anziana altrimenti condannata alla solitudine dei vecchi, potevano diventare dei militanti. E' sempre stato, o almeno ha cercato di essere, proiettato all'esterno, nel rapporto con gli altri, in mezzo alla gente. Dov'è l'avanguardia chiusa che aspetta di mettersi alla testa delle masse? Dove sono i burocrati, o coloro che rischiano di dipendere dal partito o di vivere solo "in funzione" del partito e quindi da funzionari? Come negare che fra tutte le forze politiche questo è il partito in cui possono convivere e impegnarsi con maggiore facilità tutte le diversità, anche di abitudine e stile di vita? Ma certo non si è radicali, non si può essere radicali per ge
stire l'esistente, che è davvero poca cosa. Ma certo non si è radicali senza una forte consapevolezza dei prezzi che dobbiamo pagare all'andare contro corrente e contro correnti così forti, senza una forte dedizione alle lotte che si ingaggiano. Soprattutto è difficile esserlo senza forzare in qualche misura, piccola o grande, le proprie abitudini, i propri ritmi e i propri equilibri. Non si può essere agenti del cambiamento senza accettare di cambiare, almeno un poco, ogni giorno sé stessi.
Voi scambiate alcune frustrazioni e contraddizioni oggettive per colpe soggettive o per desiderio di potere di chi ha avuto responsabilità di gestione. Davvero si sono formati gruppi di potere "al vertice" del Partito? Potrei dire che ciascuno di noi, nessuno escluso, che ha avuto queste responsabilità, ha bruciato ogni risorsa personale e collettiva nella lotta politica comune, ed esce da queste responsabilità di gestione privo di potere, e senza altra forza e autorità di quella che gli deriva dalla propria credibilità ed esperienza di militante. Potrei ribaltare il ragionamento, e dire che trovando il tempo, i mezzi e le possibilità di fare questa rivista, voi disponete oggi nel partito di maggiore potere di Adelaide Aglietta.
Ma non è questo che mi interessa. Mi interessa il dialogo e, se è possibile, nella chiarezza, il ritrovato consenso. Non mi interessa uno scadimento del dibattito politico. Perché i problemi esistono e possono trovare una soluzione in condizioni diverse di vita del partito e di tensione e di convivenza e dibattito interno. Ma non si risolvono con impostazioni di tipo strettamente garantistico, che mi sembrano caratterizzare tutte o quasi, le vostre proposte.
Una attenzione statica al partito, esclusivamente concentrata sugli "interna corporis" può solo ricreare mortali dinamiche tradizionali. La soluzione dei nostri problemi va trovata invece in una nuova tensione unitaria che sconvolga ogni cristallizzazione, che consenta al massimo l'utilizzazione delle energie disponibili, che non consenta il formarsi di "clan" lì dove per avventura ci fosse la tendenza a crearli. A queste condizioni, nei limiti molto stretti che ci sono consentiti, credo anch'io che sia possibile al partito un grosso salto qualitativo. Ma solo a queste condizioni. E questa tensione unitaria è un problema politico. Nessuna formula statutaria può assicurarla. Ed è un problema politico di questi giorni e di queste settimane intorno ai gravi problemi e alle scadenze che dobbiamo affrontare.
Vorrei solo, senza entrare nel merito delle vostre proposte, come mi era ripromesso, fare solo due considerazioni conclusive, che forse valgono meglio a spiegare queste ultime affermazioni.
Voi accennate al pericolo che il gruppo parlamentare viva come un corpo separato dal partito; questo pericolo fino ad oggi non si è verificato, o almeno non si è verificato in tutto il periodo in cui il partito portava avanti con efficacia e con mobilitazione collettiva la sua lotta politica. Potrebbe certo verificarsi in una situazione in cui il Partito entrasse in crisi o adottasse ritmi inadeguati alle sue responsabilità e ai suoi compiti. Ma allora di fronte a un gruppo parlamentare che invece fosse capace di sviluppare in pieno una sua azione politica anche per il partito, non varrebbe alcuna soluzione statutaria, nessuna soluzione organizzativa, nessuna regolamentazione dei rapporti, ad impedire prima il suo agire come corpo separato, e poi un trasferimento di fatto della direzione politica dal partito al gruppo.
E lo stesso discorso, cari compagni, vale per gli interventi "miracolistici" del leader carismatico. Pensate al 1974 quando furono necessari 73 giorni di digiuno di Marco (altro che miracolismo!) per uscire dall'isolamento in cui eravamo stati cacciati dopo la sconfitta della campagna degli otto referendum e nonostante la vittoria del divorzio. Raffrontatela con la situazione dei mesi scorsi. Le capacità, l'impegno, le intuizioni e anche gli errori di Marco Pannella sono stati, ancora una volta, al servizio del partito, ma il loro peso specifico, la loro influenza è stata nettamente minore, non perché esistesse il contrappeso di altri carismi, di Aglietta o di Bonino, di Bandinelli o di Teodori, ma semplicemente perché questa volta esisteva il partito nelle piazze e nelle strade, esisteva la volontà collettiva e la capacità organizzativa di portare a termine vittoriosamente la campagna degli otto referendum. Per cui oggi possiamo giudicare Marco più per le cose che ci ha dato come parlamentare che per i suoi
interventi carismatici.
E' solo su questo terreno, e non su altri, che può deperire il peso del carisma (che è per un partito libertario assai più pericoloso del rischio della burocratizzazione): cioè con un partito che sappia far fronte collettivamente alle proprie responsabilità, senza chiudersi in sé stesso, senza disgregarsi in mille spinte centrifughe, e senza attendersi di doversi dibattere nella stretta del soffocamento che gli avversari gli hanno creato intorno. Ma è proprio su questo piano che oggi il partito, pur uscito vittorioso della iniziativa degli otto referendum, sconta un grave ritardo, un forte disorientamento e un rischio di crisi di cui portiamo tutti la responsabilità.