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Panebianco Angelo - 20 settembre 1977
NATURA E RUOLO DEL PARTITO RADICALE: ALCUNE IPOTESI INTERPRETATIVE
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: Il PR è un partito (atipico) e non un gruppo di pressione. E' un partito non burocratizzato, autonomo all'interno, con una struttura aperta. Nella realtà ha problemi di rapporto tra il vertice romano e il resto dei militanti. E' un partito che, a differenza degli altri, traduce direttamente in azione politica, senza mediazione, le domande dei cittadini, senza esercitare un'egemonia sulla società civile. Non usando il metodo della contrattazione interpartitica si pone come eversivo rispetto all'azione politica corrente. In un sistema politico in cui non esistono giochi a somma nulla il PR si muove attraverso un'azione diretta nonviolenta e l'uso dei referendum. Rischia l'eterogeneità o la burocratizzazione. Il PR deve approfondire il proprio progetto politico cercando di non cadere nell'anarchismo.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Agosto-Novembre 1977, n.3-4)

"Pubblichiamo questo saggio per gentile concessione dell'Editore come anticipazione del volume di Massimo Teodori, Piero Ignazi, Angelo Panebianco", I nuovi radicali. Storia e sociologia del PR (1960-1977), "Mondadori, in corso di pubblicazione. Quella qui presentata è una versione ridotta del saggio contenuto nel volume. L'autore ringrazia Gianfranco Pasquino, Massimo Teodori e Lorenzo Strik Lievers per i suggerimenti e le critiche alla prima versione del manoscritto".

Le elezioni del 20 giugno 1976 hanno sciolto, agli occhi di commentatori, di politici e anche di molti fra gli stessi simpatizzanti del Partito Radicale, almeno un dubbio che è stato a lungo presente nel dibattito su questa formazione politica: se il PR dovesse essere considerato un partito politico vero e proprio oppure un semplice gruppo di pressione, sia pure di tipo un po' speciale rispetto alla maggior parte delle associazioni di questo genere che operano sulla scena politica italiana. La partecipazione alla campagna elettorale e l'ingresso di quattro radicali in parlamento, hanno reso "di fatto" questo interrogativo superato, essendo ormai a tutti evidente che il PR è un vero e proprio partito, se per tale si intende una associazione volontaria che entra in competizione con altre associazioni con un suo specifico progetto e su questo progetto chiede il consenso della comunità politica. Questo interrogativo era sì spesso sollevato ad arte e utilizzato strumentalmente contro la presenza, in chiave concor

renziale, del PR nella società politica ("I radicali facciano il loro mestiere, raccogliendo la domanda in tema di libertà civili, noi penseremo alla necessaria mediazione politica") ma non era per questo del tutto privo di fondamento, essendo il PR un partito politico "sui generis" che ha operato per lungo tempo (e che tutt'oggi una buona parte opera) con modalità di azione proprie di un gruppo di pressione.

Partito, movimento o gruppo di pressione: le caratteristiche del PR

Le caratteristiche specifiche del PR, partito difficilmente inquadrabile in una qualsiasi tipologia dei partiti (o dei gruppi di pressione) possono essere rintracciate ad almeno tre distinti livelli:

- L'organizzazione interna.

- Il metodo di lotta politica.

- Il rapporto con la "società civile" e con la "società politica".

In generale la distinzione comunemente accettata fra gruppo di pressione e partito politico è, all'apparenza, molto chiara: il primo è una associazione che si costituisce con il fine di esercitare una "influenza" sui detentori del potere (o sugli oppositori del potere esistente) mentre il secondo è una associazione la cui ragione d'essere consiste nella conquista e nell'esercizio del potere stesso. Questa definizione, a ben guardare, non è però molto soddisfacente: in primo luogo, perché i confini fra influenza e potere non sono così netti; appare debole la tesi secondo cui il potere si distingue dalla influenza perché, a differenza della seconda, dispone di "sanzioni" da applicare contro gli inadempienti. Questo criterio non è infatti sufficiente a distinguere i due tipi di azione sociale e gli attori che ne sono portatori. Anche un gruppo di pressione è spesso in grado di esercitare sanzioni: ad esempio, una associazione di imprenditori, che è sicuramente un gruppo di pressione, dispone di molte armi contr

o un governo recalcitrante di fronte alle sue richieste. Né, in secondo luogo, la lotta in prima persona per il potere secondo le "regole del gioco" consolidate in un certo sistema politico (ad esempio, nel caso dei regimi democratico-rappresentativi, la competizione elettorale) può aiutare a distinguere chi concorre per l'esercizio del potere e chi tende a esercitare una semplice influenza. Per fare un solo esempio, tratto dalla storia politica europea degli ultimi anni, sarebbe difficile catalogare come "gruppi di pressione" (o all'opposto come "partiti politici") i movimenti politici di contestazione sorti dopo il 1968 utilizzando come unico criterio discriminante la partecipazione o meno alla competizione elettorale.

In realtà, la distinzione fra partito e gruppo di pressione non può essere fondata né sulla differenza fra potere e influenza né sulla volontà o meno di esercitare il potere direttamente. Ciò che distingue un partito da un gruppo di pressione sembra invece consistere nella "globalità" o, all'opposto, nella "settorialità" dei loro fini politici: mentre il gruppo di pressione rappresenta interessi partico

lari e opera per ottenere provvedimenti in loro favore, il partito, anche quando rappresenta ristretti interessi sociali, opera deliberatamente (quando governa) o mira ad operare (quando è alla opposizione) sulla organizzazione e il funzionamento della società intera. Occorre quindi guardare ai "fini politici" di ciascuna singola associazione e non è sempre possibile né facile dare una risposta univoca. Il caso del PR è, da questo punto di vista, emblematico; se si ritiene settoriale la "lotta per i diritti civili" (come a lungo la sinistra italiana ha ritenuto), importante ai fini della democratizzazione della società ma, da sola, non sufficiente a un processo di profonda riorganizzazione, allora il PR va considerato (anche oggi che siede in Parlamento) un gruppo di pressione che cerca, con le sue iniziative politiche, di imporre al resto della sinistra italiana la lotta su specifiche battaglie civili (come, a suo tempo, riuscì a fare con successo sul tema del divorzio). Se, invece, secondo gli orientamenti

degli stessi radicali, la lotta per i diritti civili viene intesa come uno strumento, una leva per innestare una trasformazione generale dei rapporti sociali sullo sfondo di uno specifico modello di società (il "socialismo libertario"), allora il PR deve essere considerato un partito politico (e le profonde differenze - che vedremo - rispetto agli altri partiti non sono sufficienti a farlo cadere al di fuori di questa categoria).

E' ormai opinione diffusa che i partiti non possono essere studiati e classificati sulla base di un singolo ma globale criterio; le funzioni che svolgono nel sistema politico, l'ideologia, l'organizzazione interna, gli interessi di classe o di gruppo che rappresentano ecc., ma che questi e altri criteri ancora vadano combinati insieme.

L'indagine sulla "natura" dei partiti va comunque tenuta distinta, da un punto di vista teorico, da quella sul loro "ruolo" allo interno di un sistema politico. Per il primo aspetto, occorre considerare due specifiche dimensioni, il tipo di "organizzazione" interna (partito elettorale, di quadri, di notabili ecc) e il rapporto con l'ambiente sociale esterno ("insediamento" sociale e caratteristiche della "delega" politica). Per il secondo, conta invece l'analisi di altre due dimensioni: la natura del "progetto politico" e il "metodo" di azione politica. E' chiaro che ciascuna di queste quattro dimensioni è legata a tutte le altre; che l'organizzazione interna dipende da e esercita una influenza su l'insediamento sociale del partito, che progetto e metodo di azione sono tra loro strettamente legati e che entrambi retroagiscono sulla organizzazione e sullo insediamento.

La scomposizione precedente ha fini puramente analitici, ci consente un discorso sistematico e ordinato sul partito, non sta ad indicare quattro aspetti o caratteristiche dei partiti distinguibili empiricamente. Queste quattro dimensioni non sono separabili se non con un artificio teorico.

Nella prima parte di queste note considereremo soprattutto le caratteristiche del PR dal punto di vista della organizzazione e dello insediamento sociale Nella seconda, si cercherà di mettere a fuoco la relazione che intercorre fra il metodo di azione, il progetto politico e il più generale contesto socio-politico nel quale e sul quale il Partito Radicale agisce.

L'organizzazione radicale

Sul piano strettamente genetico, il Partito Radicale è un partito di "creazione interna", nato cioè, allo interno della società politica, secondo la formulazione di Maurice Duverger (1). Il Partito Radicale nacque e si sviluppò su iniziativa e per volontà di membri della società politica (l'ala scissionista del Partito Liberale, gli universitari della UNURI) senza intervento di forze sociali esterne: fu un "ceto politico", di varia estrazione culturale, a dargli vita. E in tutta la prima fase della sua esistenza mantenne le caratteristiche di espressione di una esigua minoranza "illuminata" di intellettuali. Agli inizi degli anni sessanta, quando la "sinistra radicale" ereditò tutto il partito, il PR subì la sua trasformazione più importante, diventando, almeno in parte, un movimento politico di contestazione. Ma la società italiana dell'epoca, rigidamente controllata dal sistema dei partiti, segmentata e incapsulata entro subculture compatte e tra loro non comunicanti, non era ancora in grado di rispondere

positivamente alla proposta di una politica "diversa". Occorreva per questo che intervenissero mutamenti profondi nella sfera della società civile e nei suoi rapporti con il sistema politico. Questo avviene alla fine degli anni sessanta con l'esplosione dei primi movimenti collettivi. La rinascita, in forma autonoma e parzialmente sganciata dalla mediazione delle forze politiche tradizionali, della società civile, la crescita di aree consistenti di autonomia sociale, avranno effetti decisivi (anche se misurabili soltanto alla distanza) (2) sul Partito Radicale e sulle possibilità di successo del suo appello politico. I processi di "autonomizzazione"del sociale sono alla radice della crescente capacità del PR ad agire come un movimento politico che "senza operare mediazioni" (distinguendosi in questo, e soprattutto in questo, dalle altre formazioni di sinistra) trasmette direttamente nel sistema politico le domande sociali emergenti. Su questo aspetto, il più importante, ritorneremo in seguito. Consideriamo,

per ora, l'organizzazione interna.

Pur essendo molto ampio il ventaglio delle combinazioni organizzative manifestate dai partiti politici contemporanei, la maggior parte di essi, almeno in Europa, presenta ancora indeboliti, tratti organizzativi che sopravvivono alle principali strutture partitiche del XIX secolo. A seconda delle loro origini politiche, essi si collegano all'uno o all'altro dei due principali tipi di partito nati nel secolo scorso, il "partito di comitato" e il "partito di apparato". Il primo, decentrato, privo di una linea politica unitaria e di disciplina interna, con deboli organi centrali di coordinamento, organizzato in comitati di notabili locali che, ciascuno per suo conto e in piena autonomia, sceglieva i propri rappresentanti nazionali, era il classico strumento di rappresentanza politica delle classi superiori borghesi e/o aristocratiche. Il secondo, centralizzato, con una rigida disciplina e una

ideologia coerente e un apparato consistente composto di "professionisti della politica" (funzionari, parlamentari ecc.), nacque e si sviluppò come strumento di organizzazione politica del movimento operaio. Il partito conservatore inglese è un esempio classico del primo tipo. I partiti socialisti (ma nella forma "pura" solo in alcuni paesi) e poi i partiti comunisti sono esempi altrettanto classici del secondo tipo (mentre partiti come il Laburista, il radicale francese, e i partiti cattolici presentarono fin dalle origini caratteri "misti").

Nel partito di apparato delle origini troviamo una sostanziale "omogeneità" fra il progetto politico e l'organizzazione. Centralizzazione, monolitismo, rigida disciplina interna erano tratti organizzativi perfettamente rispondenti agli scopi politici del partito: l'abbattimento del capitalismo e la riorganizzazione della società attraverso la statalizzazione dei mezzi di produzione e, nel caso del partito leninista, la dittatura del proletariato. Questo tipo di partito non si prestava, organizzativamente, a un diverso progetto politico, a una proposta di socialismo "autogestionario" che rompesse con gli schemi leninisti contrapponendo il decentramento allo accentramento, la socializzazione alla statalizzazione, l'espansione degli ambiti di libertà al dispotismo burocratico. Per buona parte, la scarsa credibilità di molti partiti socialisti, compreso quello italiano, dipende dal fatto che una volta rifiutata l'ipotesi di un socialismo centralizzato e burocratico, non sono stati capaci di adeguare le strutture

interne a una mutata proposta politica.

Se questo è il quadro generale entro cui va, a mio avviso, collocata una analisi non superficiale della organizzazione radicale, occorre però una ulteriore specificazione; occorre distinguere fra le "norme" che regolano la vita di una organizzazione e i comportamenti effettivi che sempre mostrano una più o meno marcata distanza dalle prime.

Sul piano delle norme, della "costituzione formale" (lo Statuto del partito entrato in vigore nel 1967) non sembrano esserci dubbi che il PR è una delle poche formazioni "socialiste" che più ha cercato di avvicinarsi allo obiettivo sopra indicato (adeguamento della organizzazione al progetto).

Sul piano della struttura normativa il PR rappresenta il caso di un partito modernizzante fondato sul massimo di decentramento organizzativo consentito a una formazione politica unitaria. Si differenzia, sotto questo profilo, tanto, ovviamente, dai grandi partiti della sinistra storica, quando dai piccoli partiti della "nuova sinistra" che dei primi hanno sostanzialmente ricalcato il modello (si pensi a formazioni come il PDUP per il Comunismo o Avanguardia Operaia). L'equazione partito di apparato = partito modernizzante, generalmente valida, non lo è per il Partito Radicale. Manca nel PR una burocrazia e, per conseguenza, quel nucleo di professionisti che caratterizza le formazioni di ispirazione leninista (come le due sopra ricordate). Il rifiuto del professionismo è in questo caso - come si legge nello statuto - una scelta politica deliberata che discende dalle opzioni ideologiche generali del partito.

I legami verticali sono deboli come conseguenza della struttura decentrata. I gruppi locali si organizzano autonomamente in unità base (le associazioni) e in organismi più ampi di collegamento (i partiti regionali). Il massimo di autonomia politica compatibile con il mantenimento della unità è espressamente garantito dallo Statuto. Il Congresso nazionale fissa la linea politica generale ed elegge gli organi centrali ma ciascuna associazione locale ha facoltà di sviluppare in modo autonomo e svincolato da qualsiasi direttiva centrale, la propria azione politica. In concreto, questo significa che gli interessi dei militanti delle singole associazioni locali sono molto più importanti, ai fini della azione politica locale, delle direttive congressuali o di segreteria. Obiettivi politici specifici (anticlericalismo, antimilitarismo, difesa delle minoranze, ecc.) e forme e modalità di azione restano così a discrezione delle singole associazioni, e danno, a seconda delle zone, "immagini" esterne diverse del PR. Uni

che eccezioni, ovviamente, le campagne per i referendum e, in genere, le iniziative che richiedono un contemporaneo sforzo comune di tutto il partito.

Il Congresso è aperto a tutti gli iscritti che vi partecipano con diritto di voto (anche se, in questo caso, si tratta di una prassi consolidata, non di una disposizione statutaria). E' questo uno degli aspetti che delinea, meglio di altri, la struttura "aperta" del PR. I meccanismi di formazione delle decisioni congressuali si fondano sul principio della democrazia diretta, del rifiuto della delega. Ancora una volta, non è una scelta imposta dalla necessità (piccole dimensioni, debolezza organizzativa ecc.) come è provato dal fatto che le altre piccole organizzazioni, PDUP, AO, LC, per esempio, muovendo da diversi presupposti politici, hanno rigorosamente mantenuto il principio della delega e della struttura "chiusa" anche in sede congressuale.

Lo statuto e la realtà del partito

I pochi tratti organizzativi richiamati testimoniano sufficientemente della atipicità del PR: persegue la mobilitazione di massa su obiettivi politici specifici ma è privo di strutture burocratiche anche embrionali; mantiene una struttura "aperta" ove strumenti di rappresentanza diretta si mescolano ai meccanismi, più tradizionali, della delega politica (mescolanza, come vedremo, omogenea rispetto al tipo di azione politica sviluppata) e legami verticali "deboli" come conseguenza della sua struttura federativa e decentrata.

Tutti i caratteri organizzativi del PR stanno ad indicare il tentativo di costruire un veicolo omogeneo rispetto a un progetto politico di socialismo libertario, fondato sul rifiuto del professionismo burocratico e della centralizzazione (che, del primo, è la probabile se non inevitabile conseguenza), sullo sviluppo autonomo delle associazioni locali, sul rifiuto della delega in tutti i casi ove questo è possibile. Si tratta, quindi, dal punto di vista della "struttura normativa", di un esperimento politico nuovo poiché strutture decentrate e federative hanno fino ad oggi contraddistinto quasi esclusivamente i partiti di notabili orientati alla difesa della status quo e solo raramente i partiti innovatori o modernizzanti.

Ma naturalmente esiste sempre una sfasatura fra la "costituzione formale" e la "costituzione materiale", fra le norme e le strutture di potere effettive. Le strutture reali di un partito, infatti, dipendono, oltre che dalle norme, dalla costrizione dell'ambiente sociale e politico in cui il partito opera. Va notato che la distanza, o sfasatura, fra le norme e le strutture reali non è un dato fisso e immutabile; la sua ampiezza è una "variabile" e, date certe condizioni, è possibile ridurla fino ad ottenere, se non una perfetta coincidenza, almeno un notevole avvicinamento fra i comportamenti previsti dalle norme e i comportamenti effettivi. Questa osservazione è importante perché nel caso del PR, come in molti altri casi, è facile rilevare una difformità fra la struttura normativa e l'effettiva distribuzione del potere decisionale.

Anche dopo il 1967 (quando, al Congresso di Bologna, venne approvato lo Statuto tuttora in vigore) e fino a tempi recentissimi, il PR ha mantenuto una scarsa consistenza e una presenza politica non omogeneamente distribuita sul territorio nazionale. Lo squilibrio nella distribuzione geografica, la relativamente massiccia presenza nella Capitale e la debolezza organizzativa delle altre associazioni (con l'eccezione di Milano dal 1972 e di poche altre sedi) hanno avuto conseguenze negative sul funzionamento interno della organizzazione. Da qui certe tendenze, rimproverate, di solito, al gruppo dirigente "romano" ma imputabili, più probabilmente, alla debolezza del partito nelle altre zone, alla gestione centralizzata delle campagne di risonanza nazionale; da qui, la "discontinuità" nelle comunicazioni interne; da qui, infine, il carattere "carismatico", o supposto tale, della "leadership" radicale.

Per un lungo periodo, dopo la nascita e il consolidamento di alcune realtà periferiche alla fine degli anni sessanta, ma prima della recente crescita organizzativa che sembra avere oggi se non eliminato, certo affievolito lo squilibrio fra vertice e periferia (ma ancora moltissimo resta da fare), la "costituzione materiale" del PR era tale che, per debolezza organizzativa, il massimo di potere decisionale si concentrava al "centro" (nel gruppo dirigente "storico") anche se questa tendenza obiettiva era contrastata parzialmente dai meccanismi di tutela della democrazia di base predisposti dallo Statuto del '67.

E' noto che nelle grandi organizzazioni complesse, la tendenza alla burocratizzazione e la scarsa partecipazione di base provocano generalmente una spinta pressoché inarrestabile alla costituzione di oligarchie di vertice che annullano la democrazia interna (3). In una piccola organizzazione, priva di "diaframmi" burocratici, la democrazia interna può avere ugualmente, ma per motivi opposti, una vita difficile. Si tratta però in molti casi di un "effetto ottico": il gruppo dirigente ha effettivamente un potere decisionale sproporzionato rispetto alla periferia del partito (come nella grande organizzazione) ma semplicemente perché quest'ultima è troppo debole e disorganizzata. Sembrano esistere delle "soglie" organizzative "al di sopra" e "al di sotto" delle quali la democrazia interna non può essere resa pienamente funzionante. A una struttura organizzativa debole corrisponde necessariamente un centro "forte" (perché la periferia è disorganizzata e politicamente fragile, le comunicazioni interne sono diffici

li ecc.).

Quando, in una fase successiva, migliora lo stato organizzativo del partito, si accrescono la potenzialità di dibattito interno, aumenta la partecipazione della base al processo decisionale. Al di là di una certa soglia organizzativa, infine, ogni ulteriore crescita si traduce in "burocratizzazione", la democrazia interna è di nuovo soffocata, le tendenze oligarchiche riprendono il sopravvento.

Tutti i dati a disposizione sembrano indicare che il PR è entrato, di recente, in una fase di crescita che, se la ipotesi prospettata è corretta, dovrebbe sostanzialmente rafforzare la democrazia interna. Questo significa che il nuovo stato organizzativo del partito dovrebbe consentire un maggiore adeguamento della sua vita interna alle "norme statutarie" ma anche che un diverso "modus vivendi" dovrà probabilmente instaurarsi nel rapporto fra vertice e base del partito con i probabili, se non inevitabili, tensioni e conflitti interni dei momenti di transizione.

Tanto minore è la forza della sua organizzazione tanto più le "chances" di successo di un partito dipendono dalla "qualità della "leadership"". "Carisma", come è noto, è un termine entrato ormai nell'uso comune e utilizzato, per lo più a sproposito, per indicare qualsiasi leader di successo dotato di "charme". Nella letteratura sociologica, da Weber in poi, indica invece una relazione psicologica fondata sulla attribuzione al leader da parte dei seguaci di "qualità eroiche" (4). Ma al di là del fatto che il "carisma" è un fenomeno di difficilissima individuazione empirica, resta che le capacità di conversione-mobilitazione della "leadership" supposta carismatica non possono in nessun caso essere sopravalutate. E' stato osservato acutamente che "(...) a meno di non credere nel miracolo di un'origine assoluta (come porterebbe a fare la teoria Weberiana del carisma) bisogna porre che il profeta che riesce è quello che formula ad uso dei gruppi o delle classi alle quali si rivolge un messaggio che le condizioni

oggettive determinanti gli interessi, materiali e simbolici, di questi gruppi e classi li predisponevano ad ascoltare e a intendere. Altrimenti detto, bisogna invertire la relazione apparente tra la profezia e la sua udienza; il profeta religioso o politico predica sempre a dei convertiti e segue i suoi discepoli almeno tanto quanto i suoi discepoli lo seguono, poiché i soli ad ascoltare e a intendere le sue lezioni sono quelli che, per tutto ciò che essi sono, gli hanno oggettivamente dato mandato di far loro la lezione" (5).

Il rapporto leader-seguaci è, anche in quei casi in cui l'apparenza indica la presenza del carisma nel senso Weberiano, molto più plausibilmente, di tipo "transattivo". L'adesione alla "leadership" si

fonda su basi "razionali", non emotive (non nel senso che queste manchino del tutto, ma nel senso che non rappresentano che molto raramente il fondamento principale della "leadership"). Ciò significa che: "In una prospettiva in termini di transazione, coloro che seguono il "leader" fanno coscientemente un bilancio dei costi e delle ricompense tra un certo numero di opzioni percepite, e di conseguenza si conformano a quelle iniziative del "leader" che offrono i maggiori vantaggi" (6). Naturalmente, in una piccola organizzazione, priva di controllo su risorse materiali, l'adesione alla "leadership", sarà collegata esclusivamente al soddisfacimento di benefici e alla distribuzione di ricompense simboliche.

Tuttavia, poiché qualsiasi gruppo politico richiede, sia per difendere la propria "identità", sia per operare efficacemente sullo ambiente esterno, un coinvolgimento dei seguaci, quando manca o è comunque insufficiente la rete dei legami organizzativi interni, è più probabile la presenza di tratti carismatici della "leadership" - riflesso del maggiore attivismo del vertice - che hanno la funzione di colmare il "vuoto" organizzativo e di impedire la disgregazione del gruppo. In ogni caso, le componenti carismatiche appariranno più visibili che non nelle grandi organizzazioni burocratiche.

Aggregazione degli interessi e mediazione politica

La collocazione di un partito all'interno di un sistema politico, oltre che dalle scelte del suo gruppo dirigente, dalle costrizioni ambientali e dalle caratteristiche organizzative, dipende dal rapporto specifico che il partito intrattiene con la società esterna. Ritorniamo per un momento alla distinzione precedentemente introdotta fra partito e gruppo di pressione. Il primo si distingue dal secondo, abbiamo detto, per la diversa natura della domanda politica che organizza, "generale" la prima, "particolare" la seconda. Ciò significa che, nella maggioranza dei casi, il partito "aggrega" le domande "particolari" dei diversi gruppi sociali, svolge cioè un'opera di "mediazione" fra domande diverse e, a volte, anche divergenti inquadrandole in un programma politico generale. Che questa sia la principale funzione dei partiti è provato, a "contrario", dagli effetti disgregativi che si producono nel sistema politico quando i partiti perdono la capacità di aggregare la domanda e diventano portatori di interessi set

toriali o particolari. Dire che il partito aggrega la domanda politica significa che esso svolge una attività di mediazione fra la società civile e gli apparati decisionali dello Stato: il partito raccoglie molteplici domande, ne respinge altre, facilita o blocca l'accesso ai canali politici di altre domande. La società politica (l'insieme dei partiti e dei gruppi di interesse), a un tempo sede privilegiata della lotta per il potere e della contrattazione tra rappresentanti di domande sociali differenziate, opera come un "diaframma" fra società civile e Stato, con una azione di filtraggio e di selezione.

La principale differenza fra il PR e gli altri partiti sembra consistere in questo: il PR traduce "direttamente" in azione politica, senza un previo processo di aggregazione e di mediazione, le specifiche domande dei settori della società di cui si pone come portavoce. Chiariamo meglio questo aspetto. Ogni partito politico ha una molteplicità di legami e di canali di collegamento con la società. Il partito comunista, ad esempio è sicuramente il principale rappresentante politico, nella società italiana, dei lavoratori della industria, ma esprime anche le aspirazioni e gli interessi di frange consistenti di ceto medio, è collegato, attraverso le sue organizzazioni collaterali, all'elettorato giovanile, alle donne ecc. Queste diverse frange e settori sono portatori di domande politiche specifiche spesso (e sempre più, man mano che si allarga l'insediamento sociale del partito) in contrasto fra loro e, a volte, in contrasto con la stessa strategia scelta dal gruppo dirigente. L'opera di partito si esplica così

in una mediazione permanente che ha lo scopo di incanalare le diverse domande verso obiettivi politici unitari. Al suo vertice si verificano quindi contrattazioni (compromessi) fra linee politiche spesso divergenti. Il caso dell'aborto è, da questo punto di vista, esemplare. La strategia del compromesso storico impone, di per sé, di evitare lo scontro con la DC e con la chiesa. D'altra parte, il partito subisce la pressione delle donne comuniste oltre che della opinione pubblica progressista che chiede la liberalizzazione dell'aborto. Da qui il tentativo costante di compromesso con il vaticano e la DC da una parte, con i settori abortisti del partito dall'altra, e quindi l'oscillazione fra posizioni sensibilmente più avanzate e posizioni più arretrate, oscillazione che non è il prodotto di incertezza o di insufficienze soggettive del gruppo dirigente, ma è invece il prodotto di una contraddizione strutturale.

In questa stessa chiave può ancora essere letto l'atteggiamento oscillante fra chiusura (le accuse di "fascismo" al movimento degli studenti) e i tentativi di parziale recessione della domanda e di raccolta nell'alveo della propria strategia politica delle "minoranze intense", cioè quel particolare rapporto di "mediazione istituzionale" (7) che il PCI intrattiene con le avanguardie sociali. Da quanto detto, deriva che il partito politico, anche di opposizione, nella società contemporanea, è sempre, a suo tempo, una "struttura di rappresentanza" e una struttura di "controllo sociale". Espressioni come "aggregazione degli interessi" o "mediazione istituzionale" stanno a indicare questa costante ambivalenza del rapporto fra partito e società civile.

Il Partito Radicale sembra differenziarsi proprio in questo: che assume la rappresentanza degli interessi (bisogni) di settori della società civile ma non esercita alcuna forma di controllo su di essi, non aggrega la domanda, la raccoglie e la propone direttamente alla società politica. Questa sembra la conseguenza del particolare rapporto che il PR intrattiene con i movimenti collettivi. La sua struttura decentrata e federativa consente questo rapporto. Più ancora, lo consente il legame istituzionale fra partito, movimenti federati e movimenti collettivi. Il PR si trova infatti al centro di un

rapporto complesso con la società civile che gli consente di ricevere, senza mediazioni burocratiche, le domande dei movimenti collettivi. I movimenti federati al PR e gli altri gruppi politici che a questo partito fanno riferimento mantengono un legame privilegiato con i movimenti collettivi (con le lotte dei soldati, delle donne, delle minoranze etniche e sessuali, con le varie forme di emarginazione e di esclusione). La sintonia del PR con questi movimenti è data appunto dal legame istituzionale con i singoli movimenti federati (Movimento di Liberazione della Donna, Lega degli Obiettori di Coscienza, FUORI ecc.) radicati a loro volta nei diversi movimenti di contestazione (8). Ciò sembra spiegare anche la capacità del PR di anticipare, nelle sue azioni politiche, i temi che, di lì a poco, diventeranno obiettivi di movimenti di massa; la lotta antimilitarista che precede la contestazione nelle caserme nelle sue forme più generalizzate, la battaglia per l'aborto impostata prima che divenisse il fulcro dell

a lotta e della crescita del movimento femminista. Certo, in politica la capacità di anticipare i problemi implica anche doti di intuizione, rimanda quindi alle capacità politiche dei "leaders", cioè a un elemento squisitamente "soggettivo". Tuttavia, la principale causa sembra essere, verosimilmente, di ordine strutturale (oggettivo).

Da questo particolare rapporto discendono poi rilevanti conseguenze: Il PR mantiene i caratteri di un partito politico anomalo, a metà strada fra il partito vero e proprio, da cui lo separa l'assenza di strutture di controllo sociale e di ricomposizione unitaria (aggregazione) delle diverse domande politiche, e il "movimento politico di contestazione" con cui ha in comune un legame non mediato burocraticamente con la società civile. Questo particolare rapporto si riflette nella azione politica caratteristica di questa formazione (aspetto che approfondiremo in seguito) che si risolve nella costante "violazione" delle "regole del gioco" della competizione politica cui sottostanno gli altri partiti. Non aggregando la domanda ma facendola rimbalzare direttamente nel sistema politico, grazie alla sua particolare struttura, il Partito Radicale mantiene alla sua azione un carattere di "imprevedibilità" che discende dal fatto che essa si dispiega secondo una logica che non è quella dei rapporti interpartitici ma del

le mutevoli e continue eruzioni di domande sociali di cui sono portatori, con i loro alti e bassi, i movimenti collettivi.

Soprattutto in questo sembra consistere la differenza fra il PR e gli altri partiti: quali che siano (di conservazione o di mutamento) i loro obiettivi, i partiti puntano sempre, per definizione, ad esercitare una "egemonia" sulla società civile, alla direzione unitaria dei settori che organizzano e/o rappresentano. Il progetto politico del PR, quale appare non tanto dalle affermazioni dei radicali, quanto dalle caratteristiche della sua organizzazione, del suo legame con l'ambiente sociale e della sua azione politica, è invece quello di ridare alla società civile una espressione politica autonoma, facendo "saltare" almeno in parte la mediazione della società politica; è l'autonoma espressione dei processi sociali, al di fuori e spesso contro la società politica, come dimostra la scelta dei referendum come strumento privilegiato di lotta, l'obiettivo principale del PR. Cercheremo di valutare, in sede di conclusioni, le implicazioni e anche alcuni nodi irrisolti di questo progetto. Per ora osserviamo che esso

appare comunque una risposta ai mutamenti sociali e politici in corso.

Il metodo di lotta: gli effetti sul sistema politico

La non aggregazione della domanda politica, la sua proiezione diretta nel sistema politico, la conseguente assenza di esercizio di una egemonia, sono una violazione flagrante delle regole consolidate del gioco politico. Infatti, l'aggregazione delle domande che i partiti effettuano preliminarmente sono finalizzate alla "contrattazione" interpartitica (e con i gruppi di pressione). Il sistema politico, in tutte le società tardocapitalistiche ma in Italia con tratti peculiari, è oggi principalmente un "mercato", sede dello scambio e della contrattazione collettiva fra i rappresentanti di molteplici gruppi sociali in cui si articola la struttura "pluralistica" della società (non di tutti i gruppi sociali, naturalmente, ma soltanto quelli che, come direbbe Weber, possiedono una "capacità monopolistica sul mercato", che possono scambiare prestazioni rilevanti per il sistema nel suo complesso con interventi statali). La contrattazione continua fra interessi settoriali che hanno per posta provvedimenti amministrati

vi dotati di autorità, come principale attività del sistema politico, giustifica che si parli di un ormai consolidato "neo-corporativismo" come tratto politico dominante delle società occidentali. In una sistema di tal genere - esasperato in Italia dalla assenza di una "alternanza" nelle istituzioni di governo, fenomeno che ha allargato l'area della contrattazione e dello scambio politico (9) - il PR, che non aggrega interessi né partecipa alla contrattazione ma esprime direttamente "interessi diffusi" che i filtri partitici non lasciano passare, costituisce un elemento di "disturbo" e a volte di vero e proprio scompiglio dei meccanismi del mercato.

A questo punto può forse essere meglio compresa, nelle sue diverse articolazioni, l'azione politica dei radicali, soprattutto il suo carattere, che più colpisce l'osservatore, insieme "legalitario" e "eversivo", il rispetto letterale della Costituzione e, contemporaneamente, i connotati "rivoluzionari" delle iniziative radicali. Si può affermare, in prima istanza, che è lo iato fra la Costituzione (formale) e l'insieme dei poteri di fatto (il "regime", la costituzione materiale) che conferisce questo doppio carattere alle azioni radicali e che consente al PR di combattere i poteri di fatto in nome delle stesse norme che essi utilizzano a fini di auto-legittimazione.

Il carattere legalitario (il richiamo alla Costituzione) permette di contrapporre la democrazia come partecipazione alla democrazia come tecnica di governo, il potere decisionale del "cittadino" alla egemonia dei partiti. L'azione politica dei radicali è, allo stesso

tempo, eversiva (rispetto agli equilibri politici) perché:

- è deliberata espressione delle domande che il sistema politico non può soddisfare.

- introduce elementi di "conflitto" in un sistema dei partiti che tende alla convergenza e allo accordo.

- contrappone alla egemonia dei partiti il "risveglio" della società civile, la riappropriazione dal basso (si pensi ai referendum) del potere decisionale contro il potere dei partiti in quanto strumenti di mediazione e di filtro. Il che spiega la violenta opposizione dei partiti, strutture che tendono al monopolio assoluto della rappresentanza degli interessi, alla politica radicale e i loro sforzi per impedire una espressione "non mediata" delle domande politiche (ad esempio, i progetti di legge che tendono a rendere impossibile ai piccoli gruppi non sostenuti da potenti e ricche organizzazioni, la raccolta delle firme per indire i referendum).

Nella multiforme attività del PR tre gruppi principali di azioni politiche sembrano chiaramente distinguibili: una attività "tradizionale", conforme cioè alle "regole" della democrazia rappresentativa (dalla competizione elettorale alla attività parlamentare); le azioni "dirette non violente" (digiuni, auto-denunce, marce di protesta ecc.); i referendum. L'eterogeneità degli strumenti di lotta politica adottati è il "pendant" della mescolanza, di cui si è detto analizzando l'organizzazione interna, fra democrazia diretta e indiretta, fra spontaneismo e delega politica, e lo specchio, sul piano politico-operativo, di un progetto che non contrappone in modo mutualmente esclusivo l'autogestione alla rappresentanza, la democrazia diretta all'istituto della delega ma punta alla attivazione di tutti i possibili strumenti della democrazia partecipata.

Di queste tre categorie di azione politica, certo l'organizzazione di referendum abrogativi e le azioni dirette sono i più tipici della attività radicale. Entrambi si adattano, sono omogenei rispetto ad un partito che non aggrega la domanda né "contratta" con le altre formazioni politiche. Referendum e azioni dirette sono cioè la conseguenza del rapporto, già analizzato, fra PR, società civile e società politica. Si tratta, infatti, in entrambi i casi, di azioni che introducono conflitto nel sistema politico, che non si prestano, costitutivamente, alla contrattazione e sono quindi l'opposto dei meccanismi principali di funzionamento del sistema politico italiano. La scelta di questi strumenti di lotta é la conseguenza della natura "eterodossa"del Partito Radicale.

L'azione diretta

Si distingue dall'"atto dimostrativo" (ad esempio, i gesti esemplari degli anarchici all'inizio del secolo) che ha funzioni, esclusivamente simboliche e di influenza generica sull'opinione pubblica. Consiste in un "braccio di ferro" che viene intrapreso contro un avversario politico identificabile e, per questo, si risolve sempre o in una sconfitta (immediata) o in una vittoria (altrettanto immediata) dell'uno o dell'altro contendente, ha quindi una incidenza diretta sul sistema politico, sposta in un senso o nell'altro dei rapporti di forza: "L'azione diretta tende ad ottenere un effetto sul sistema politico. Non è una azione espressiva, ma strumentale, anche se può avere dimensioni simboliche e espressive. In questo senso l'azione diretta ha sempre una dimensione strategica, implica una scelta dei mezzi e degli interlocutori, un calcolo degli effetti sul pubblico e del rapporto tra costi e benefici dell'azione" (10).

A differenza dell'atto dimostrativo, l'azione diretta non ha come oggetto o destinatario il pubblico, chiama invece il pubblico a proprio sostegno nel conflitto con l'avversario politico. L'azione diretta può essere "violenta o nonviolenta". La prima è propria dei gruppi terroristici (ma in questo caso, l'azione diretta male si distingue dall'atto dimostrativo perché, normalmente, il gruppo terroristico cerca di prevalere indirettamente sui propri avversari, influenzando l'opinione pubblica, provocando mutamenti negli atteggiamenti politici generali). L'azione diretta nonviolenta (che è, come è noto, la forma adottata dal Partito Radicale) rappresenta, quanto alle origini, una versione "secolarizzata", cioè depurata delle originarie componenti religiose, delle tecniche di lotta sperimentate dal movimento gandhiano e poi riproposte, soprattutto nel contesto statunitense degli anni sessanta dai movimenti per la pace e dai movimenti per i diritti civili. E in sé una forma di lotta che si distingue insieme per l

a sua "efficacia" (perché obbliga il potere politico al confronto su un terreno scelto dall'avversario) e per il suo "legalitarismo" che, a differenza della azione violenta, mobilita a favore ampi settori della collettività mentre tende a neutralizzare, per le sue caratteristiche intrinseche, le reazioni dei settori contrari agli obiettivi della azione. Un disegno condotto quasi fino alle estreme conseguenze, ad esempio, ha forti probabilità di mettere alle corde l'avversario. Se questi cede mostra la sua debolezza e l'insostenibilità (illegalità) delle sue posizioni precedenti (ad esempio, il rifiuto di consentire alle minoranze l'accesso al mezzo televisivo), se non cede è destinato alla impopolarità e alle reazioni negative della collettività. Importato nel sistema politico italiano questo metodo di lotta, per le sue caratteristiche intrinseche, può avere effetti dirompenti sugli equilibri politici. Questo aspetto è immediatamente comprensibile se ci serviamo, per descrivere le differenze fra l'azione dir

etta e le altre forme di lotta politica, del linguaggio della "teoria dei giochi", cioè di una teoria matematica che viene usualmente impiegata per lo studio delle decisioni in situazione di incertezza e delle strategie ottimali per i diversi tipi di decisione (11). La distinzione principale, all'interno della teoria dei giochi, corre fra "giochi a somma nulla" ove di "tanto" un giocatore vince, di "altrettanto" il suo avversario perde (e quindi la somma delle vincite e delle perdite è uguale a zero) e i "giochi a somma variabile" nei quali tutti i giocatori possono vincere, sia pure in proporzioni appunto "variabili" a seconda dell'andamento del gioco. L'azione diretta è, tipicamente, un "gioco a somma nulla", implica quindi un

conflitto, uno scontro frontale fra gli avversari: chi vince, vince tutta la posta, chi perde, perde tutto. Ma il sistema politico italiano si regge su una logica di funzionamento alla quale i "giochi a somma nulla" (gli scontri frontali) sono quasi del tutto estranei. In questo sistema politico prevalgono la contrattazione, lo scambio, le "compensazioni reciproche differite" (12), cioè un processo decisionale fondato sul "do ut des": chi esce relativamente svantaggiato dall'esito di una singola decisione sa di poter contare su "compensazioni" alla decisione successiva. In altre parole, il basso livello di competitività del sistema favorisce i "giochi a somma variabile", i giochi ove la posta si ripartisce fra tutti i giocatori (cioè fra tutti i giocatori "legittimati" a giocare: ad esempio, "l'arco costituzionale") e il conflitto politico ha come obiettivo di stabilire l'ampiezza delle porzioni della posta che devono spettare a ciascun giocatore.

La logica della convergenza che presiede, per le ragioni viste, al funzionamento del sistema politico favorisce questo meccanismo che postula, per funzionare, un basso livello di conflitto fra i partiti e nel sistema dei partiti, che postula inoltre quella che è stata definita "l'esclusione sistematica della scelta meno favorita", (13), cioè la non-scelta, la "non-decisione" (la tecnica del "rinvio" delle riforme come metodo di governo), sui problemi per i quali l'accordo fra i partiti e i diversi gruppi di pressione non può essere trovato.

L'azione diretta nonviolenta rappresenta l'antitesi di questo meccanismo, reintroduce il conflitto, fa "saltare" la contrattazione. Naturalmente, i suoi elementi di forza sono anche i suoi elementi di debolezza. Infatti, è chiaro dalla descrizione precedente, che l'azione diretta, per avere successo, richiede una presentazione non distorta delle sue modalità e dei suoi obiettivi alla collettività da parte dei mezzi di comunicazione di massa, presuppone cioè una "informazione" estesa. Ecco perché i "media" e il loro atteggiamento rivestono una importanza strategica nelle battaglie dei radicali. Ed ecco perché, l'azione diretta, da strumento efficace e potenzialmente invincibile, può trasformarsi rapidamente in un "boomerang" quando i "media" fanno mancare o distorcono in modo sostanziale l'informazione (14).

I referendum

In altri sistemi politici con più alta conflittualità interna il referendum rappresenta nient'altro che uno strumento di democrazia diretta che si affianca, senza troppi traumi, agli strumenti della democrazia rappresentativa. In Italia però, per le stesse ragioni che valgono per le azioni dirette, ha effetti sconvolgenti sul sistema politico. Anche il referendum è un gioco a somma nulla, la maggioranza vince tutto, la minoranza perde tutto. In quei sistemi politici ove i risultati elettorali consentono l'alternanza e la punibilità dei governanti, il referendum non ha caratteristiche dirompenti rispetto agli equilibri politici, perché anche le elezioni hanno il carattere di un gioco a somma nulla. In Italia, il sistema politico "bloccato" non consente di sostituire i governanti né lo consentono le scelte strategiche della opposizione di sinistra. In questo sistema politico - almeno nel periodo 1948-1972, durante la fase di stabilità del corpo elettorale, - (...) le elezioni tendono a diventare celebrazioni d

ella legittimità concessa ai partiti dal popolo sovrano. Si approssimano cioè alla funzione che esse hanno nei regimi a partito unico. In un senso si può dire, che, al limite, l'apparato elettorale dei partiti non serve tanto alla lotta dei partiti per estrarre dalla popolazione la prova della legittimità, il riconoscimento del diritto a governare o a stare in Parlamento. Quasi come l'apparato pubblicitario delle imprese in regime oligopolistico non serve loro tanto a competere reciprocamente quanto a condizionare stabilmente un mercato ripartito" (15).

Lo snaturamento dell'originario significato della competizione elettorale in Italia, su cui hanno a lungo scritto studiosi come Alessandro Pizzorno o Giorgio Galli, rende il referendum - strumento, ripeto, del tutto "normale" in altri sistemi politici - una tecnica "sostitutiva", non aggiuntiva, rispetto alle elezioni, perché sblocca un processo decisionale inceppato e reintroduce quel carattere conflittuale che la logica di funzionamento del sistema politico tende a togliere al confronto elettorale. Mette fine, almeno temporaneamente, ai processi di contrattazione, costringe i partiti a una inequivoca "scelta di campo" a favore o contro, senza possibilità di mediazioni, implica che, su ogni singolo problema, si formino delle maggioranze e delle minoranze.

In Italia, quindi, questo metodo di lotta acquista un significato diverso rispetto a quei sistemi caratterizzati da un più alto livello di conflitto interpartitico, ridà peso decisionale a una collettività che non riesce a imporre la propria volontà attraverso le elezioni, diventa uno strumento efficace di democrazia partecipata. Che i suoi effetti siano sconvolgenti per gli equilibri politici è provato dalle conseguenze del referendum sul divorzio del 1974: in un sistema con un basso grado di competitività e caratterizzato dalla prevalenza dei "giochi a somma variabile" l'introduzione di un gioco a somma zero fu sicuramente uno dei principali detonatori che provocarono la fine della stabilità trentennale del corpo elettorale (come provarono le seguenti elezioni regionali del 1975 e politiche del 1976).

Al di là degli effetti specifici sul sistema politico italiano, il referendum, ancora più delle azioni dirette, si presta a dare vita concretamente al progetto politico dei radicali che, se la nostra analisi precedente è corretta, consiste nel ridare potere decisionale alla società civile attribuendo peso politico alle molteplici spinte che si affermano, in modo spesso confuso, attraverso i movimenti di azione collettiva e che si infrangono regolarmente contro le barriere predisposte da un sistema politico incapace di funzionare come motore dello sviluppo politico e del mutamento sociale.

Il Partito Radicale è entrato oggi in una fase di crescita, di

consensi ma anche di militanti. Crescono le iscrizioni, si moltiplicano le associazioni locali, con una distribuzione tendenzialmente uniforme sul territorio nazionale. Si apre un periodo di transizione con il quale i dirigenti e i militanti di questo partito dovranno necessariamente fare i conti. Tutto sembra infatti indicare che il PR sta per essere investito da una "crisi di crescenza". Si presenta ora, per la prima volta nella storia di questa piccola formazione politica, un dilemma sul quale i militanti sembrano divisi: fare fronte alla crescita rafforzando l'organizzazione oppure preservare, sia pure con i necessari adattamenti, il carattere spontaneo del partito.

Progetto politico e organizzazione: il dilemma attuale

E' un dilemma tanto più difficile per il PR quanto più è anomala la sua fisionomia rispetto agli altri partiti. In una formazione tradizionale il problema posto da una improvvisa crescita verrebbe risolto con metodi altrettanto tradizionali, rafforzando l'organizzazione: passata la fase "eroica" si entrerebbe in quella "razionale" della divisione del lavoro politico, del professionismo, della crescita "guidata" dalla organizzazione: per dirla con uno slogan, dalla comunità "carismatica" alla comunità "burocratica". Per un piccolo partito leninista in fase di espansione il problema semplicemente non esiste; il rafforzamento organizzativo, essendo omogeneo rispetto al progetto politico, è di per sé un indice di successo, l'indicazione che si è sulla strada giusta. Ma per il Partito Radicale un identico ragionamento non è possibile. Da qui il dilemma: se il PR sceglie la strada del rafforzamento organizzativo fa fronte alla crescita dimensionale ma corre il rischio della "burocratizzazione", rafforza i legami o

rganizzativi interni al gruppo ma rischia di perdere i caratteri originali su cui si fonda l'efficacia della sua azione politica; le regole di funzionamento delle organizzazioni possono prendere il sopravvento, può verificarsi il processo ben noto, dal quale lo hanno fin qui protetto le sue minuscole dimensioni e la sua debolezza organizzativa, di "eterogenesi dei fini", il fine della sopravvivenza della organizzazione può soffocare e prevaricare i fini politici del gruppo. Nel migliore dei casi, il rischio è quello di una trasformazione che può condurre il PR ad assomigliare sempre più agli altri partiti per almeno due aspetti fondamentali: la nascita e il consolidamento al suo interno di strutture di aggregazione degli interessi e una azione politica sempre più preoccupata di, e condizionata da, gli equilibri inter-partitici, sempre meno delle spinte dei movimenti collettivi. Con tutto ciò che un simile sviluppo può comportare: abbandono dei caratteri del movimento politico di contestazione, allentamento d

ei legami con i movimenti collettivi o sostituzione di un rapporto diretto con un rapporto mediato burocraticamente, spinta progressiva verso l'esercizio di una egemonia sull'area sociale rappresentata.

Oppure il PR può scegliere, nonostante la crescita politica e di dimensioni, di mantenere invariate le sue caratteristiche interne, continuando ad affidarsi allo spontaneismo e all'attivismo dei militanti. In questo caso, però, corre il rischio di innescare conflitti politici interni incontrollabili come prodotto di una crescita non guidata e per effetto della crescente eterogeneità interna al gruppo. In questo secondo caso, il pericolo è quello della disgregazione per un aumento di conflittualità interna oltre i limiti tollerabili in un ambiente privo di una forte rete di legami organizzativi.

Quali che saranno le scelte politico-organizzative dei radicali esse presentano quindi la non invidiabile caratteristica di essere al tempo stesso urgenti, non dilazionabili e difficili. Urgenti perché la crescita attuale impone comunque un salto di qualità sul piano organizzativo. E' difficile perché la direzione e le modalità ottimali di uno sviluppo della organizzazione richiederebbero, per essere individuate con sufficiente precisione, una più accurata articolazione e specificazione del "progetto politico" radicale. Se l'analisi qui svolta è corretta, è possibile dire che, contrariamente a una opinione molto diffusa, i radicali possiedono un progetto politico generale. Esso consiste, lo si è visto, nel ridare espressione alla società civile a fronte della declinante capacità di rappresentanza del sistema dei partiti, secondo un modello di democrazia partecipata di cui il funzionamento del sistema politico impedisce la attuazione.

Per questo non appare valida l'obiezione che a volte viene rivolta ai radicali, quella secondo cui la loro azione politica sottintende il rischio del "populismo", fenomeno politico che spesso si afferma nelle società in via di disgregazione. La categoria "populismo" non appare adeguata a cogliere le peculiarità di questa formazione politica. Il populismo consiste, infatti, in una mobilitazione "dall'alto" di settori, classi o gruppi sociali precedentemente "non" mobilitati (16). E questo, lo abbiamo visto, non è il caso del rapporto che il PR intrattiene con la società civile. Qui il legame si instaura con settori già mobilitati del sistema sociale, nasce dallo incontro fra un gruppo politico e una molteplicità di movimenti spontanei. E poiché i movimenti spontanei di azione collettiva sembrano destinati a durare come manifestazioni tipiche della società tardocapitalistica, il rischio del populismo è inesistente, anzi questa stessa categoria è inservibile e non soltanto per descrivere l'azione politica radic

ale. Piuttosto, il PR, insieme a fenomeni in parte analoghi che cominciano a manifestarsi in altri paesi occidentali, potrebbe rappresentare un primo sintomo di possibili mutamenti e assestamenti di grande portata nella sfera socio-politica e nei rapporti fra società civile e sistema politico, "in primis" l'inizio del declino del fenomeno politico che ha dominato la scena negli ultimi cinquanta anni, il grande partito-mediatore, il partito di integrazione sociale.

Il problema che i radicali devono risolvere è invece un altro: è cioè un maggior approfondimento del loro progetto politico. Esistono alcuni nodi irrisolti e l'analisi fin qui svolta li ha implicitamente indicati. Il principale è senza dubbio la praticabilità di un progetto di democrazia reale in un sistema industriale avanzato che richiede una gestione tecnicamente sempre più complessa. Sono quelli che, recentemente, Norberto Bobbio ha indicato come i "paradossi della democrazia" (17) e che investono la attuabilità di un progetto di socialismo autogestionario in un sistema giunto a uno stadio di sviluppo nel quale la governabilità è sempre più assicurata e dipende da "un sapere tecnico" politicamente valorizzato certo ancora per lungo tempo appannaggio di ristrette "élites" (18). Divisione del lavoro, burocratizzazione, tecnicità crescente delle decisioni politiche (si pensi alle scelte macroeconomiche) e, "last but non least", progressiva "de-sovranizzazione" di fatto delle singole società a favore di cent

ri politico-economici transnazionali, sono altrettante sfide che si pongono di fronte alle ipotesi di socialismo libertario e autogestionario.

Sono le sfide con cui deve confrontarsi la sinistra francese mentre si appresta ad impadronirsi del potere. Più modestamente, sono le stesse sfide che il PR ha di fronte a sé e alle quali deve tentare di dare una risposta per rendere compiutamente credibile e praticabile il suo progetto. Per non essere la riproposizione di una utopia generosa ma "tecnicamente" (per le condizioni obiettive della società industriale avanzata) prima ancora che politicamente irrealizzabile, l'utopia anarchica, un progetto di socialismo autogestionario, traguardo di una azione politica che contrappone alla egemonia dei partiti la libera espressione della società civile, richiede che si individuino punti di equilibrio che consentono di fare convivere lo sviluppo di comunità locali, geografiche e/ o funzionali, autogestite con il coordinamento centrale di una società complessa. Un progetto di espansione della libertà non può eludere questo punto. Sui modi e le forme della convivenza fra l'associazionismo locale e il sistema sociale

complessivo - come ci ha recentemente ricordato il dibattito sul "pluralismo" - esistono, per ora, soltanto le risposte del liberalismo e del cattolicesimo militante. E' difficile sostenere che i diversi filoni che si collegano al socialismo libertario siano riusciti a dare, fino ad oggi, una risposta compiuta e persuasiva.

Dal modo in cui i radicali sapranno rispondere a questi problemi, da come approfondiranno il loro progetto politico, dipende anche, come si è detto, la direzione in cui potrà essere indirizzata la attuale crescita del partito al fine di rendere l'organizzazione, quali che siano queste scelte, adeguata rispetto agli obiettivi politici.

I radicali hanno mostrato fino ad oggi capacità di inventiva e fantasia politica che non trovano riscontro nella maggior parte delle formazioni politiche italiane. Una risposta innovativa alle attuali sfide può avere conseguenze non solo sulle fortune di questo piccolo partito (il che meno importante) ma anche sulle future possibilità degli "esclusi" dal processo politico "normale" di incidere sugli equilibri del sistema politico e della società intera.

Note

1) M. Duverger, "I partiti politici", Milano, 1970.

2) Gli effetti del "68" sono stati soltanto indiretti sul PR nel senso che questa formazione politica è, per matrice e ispirazione, di origine completamente diversa dalle formazioni politiche che nacquero un po' sull'onda ma un po' anche sul riflusso della mobilitazione studentesca e operaia della fine degli anni sessanta. E tuttavia, quei movimenti, modificando profondamente il rapporto precedente fra società civile e sistema politico, crearono le pre-condizioni strutturali e culturali del successivo sviluppo della politica radicale. Su questo punto concordo con l'interpretazione proposta da Francesco Ciafaloni, "Una sinistra liberale figlia del '68", in "Argomenti Radicali", II (1977), pp. 113-116.

3) Cfr. la classica analisi di R. Michels, "Sociologia del partito politico", Bologna, 1967.

4) M. Weber, "Economia e Società", Milano, 1968, vol. II, p. 238 e ss.

5) P. Bourdieu e J. C. Passeron, "La diproduzione", Firenze, 1975, p. 69-70.

6) J. V. Dowton, "L'adesione alla leadership nei movimenti di rivolta", in A. Melucci (a cura di) Movimenti di rivolta, Milano, 1976, pp. 190.

7) F. Stame, "Nuova sinistra e sinistra storica", in "Quaderni Piacentini", 58-59 (1976), p. 53-61.

8) Naturalmente la realtà è sempre molto più complessa, contraddittoria e mutevole di quanto non appaia in un modello interpretativo di per sé necessariamente schematico. Il rapporto fra PR, movimenti federati e movimenti collettivi ha, infatti registrato una grande variabilità di forme a seconda della "origine" (endogena o esogena rispetto al partito) di ciascun movimento federato e della maggiore o minore vitalità del movimento collettivo corrispondente. Così si sono dati casi di movimenti federati "inventati" dal PR che hanno poi dato origine al movimento collettivo corrispondente (LID), movimenti federati nati allo esterno del PR e, successivamente, avvicinatisi al partito (FUORI), movimenti federati, infine, nati per via endogena ma contemporaneamente allo sviluppo del movimento collettivo esterno corrispondente (LOC e forse, oggi, la Lega antinucleare).

9) Vedi G. Pasquino, "Il sistema politico italiano fra neo-trasformismo e democrazia consociativa", in "Il Mulino", XXII (1973), P. 549-566.

10) A. Melucci, "L'azione ribelle, Formazione e struttura dei movimenti sociali", in A. Melucci (a cura di) Movimenti di rivolta, cit., p. 58.

11) J. Von Neumann e C. Morgenstern, "Theories of Games and Economic Behavior", New York, 1964.

12) Cfr. R. D'Alimonte, "Regola di maggioranza, stabilità e equidistribuzione", in "Rivista Italiana di Scienza Politica", I (1974), p. 43-105

13) Ibidem, p. 60 e ss.

14) E naturalmente in un sistema in cui la disposizione sui mezzi di informazione presenta (come quella sui mezzi di produzione) forti tratti oligopolistici e, per di più, il controllo sulle fonti di finanziamento (pubblicità ecc.) è saldamente nelle mani del potere politico, l'atteggiamento dei "media" è una variabile (direttamente) dipendente dagli equilibri politici. Questi equilibri, dopo il 20 giugno 1976, con il passaggio del PCI dalla semi-opposizione alla convergenza se non (ancora) alla co-gestione sono ora tali da rendere molto più difficoltose (e pericolose) che in passato le azioni dirette nonviolente. I fatti del 12 maggio 1977 a Roma (dove i radicali furono, per la prima volta, sconfitti dal potere politico nel corso di una azione di disobbedienza civile) possono essere letti come la conseguenza del nuovo assetto del sistema: l'assenza di una opposizione politica da un lato e l'accettazione dei nuovi equilibri da parte dei media dall'altro.

15) A. Pizzorno, "Elementi per uno schema teorico con riferimento ai partiti politici

in Italia", in G. Sivini (a cura di), "Partiti e partecipazione politica in Italia", Milano, 1972, p. 37.

16) Sul populismo laddove questo fenomeno è stato più diffuso, in America Latina, si veda G. Germani, "Sociologia della modernizzazione", Bari, 1970.

17) N. Bobbio, "Quale socialismo?", Torino, 1976,

18) Soltanto l'abolizione della divisione del lavoro potrebbe condurre a un diverso risultato ma è evidente come un obiettivo di questa portata richieda un lunghissimo periodo di gestazione durante il quale il potere decisionale reale appare destinato a restare nelle mani di pochi.

 
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