di Stefano RodotàSOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.
("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)
1. In questa introduzione vorrei limitarmi a formulare alcuni interrogativi e a proporre alcune possibili risposte, evidentemente non definitive, ma che dovrebbero individuare alcune delle questioni che, a mio giudizio, devono essere esaminate se si vuole affrontare in maniera persuasiva il tema indicato come oggetto di questo convegno.
Gli interrogativi sono quattro.
"Primo": se sia legittimo o no interrogarsi oggi sulle variazioni del modello costituzionale.
"Secondo": se, una volta risposto positivamente alla prima domanda, sia corretto analizzare le variazioni del modello partendo dalle proposte in materia di referendum e di ordine pubblico, cioè concentrando l'attenzione sulla politica delle libertà.
"Terzo": quale sia la razionalità che si vuole introdurre nel sistema con l'insieme dei provvedimenti nelle materie indicate.
"Quarto": qual influenza avrebbe sul funzionamento del sistema politico e sulla dinamica sociale l'eventuale approvazione delle proposte attualmente in circolazione su referendum e ordine pubblico.
2. Cominciamo dal primo interrogativo. Credo che sia legittimo interrogarsi oggi sulle variazioni del modello costituzionale anzitutto perché il funzionamento del sistema politico è certamente stato modificato dal voto del 20 giugno e dalla successiva organizzazione del nostro sistema di governo, che hanno determinato mutamenti significativi tanto negli atteggiamenti dei partiti quanto sul funzionamento di alcune strutture istituzionali.
E' presto per dire se tutto questo abbia già fatto compiutamente emergere un nuovo modello o per proporre un ricostruzione definitiva dei lineamenti che questo starebbe assumendo. Le novità, ad ogni modo, non sono poche: né poteva essere diversamente a meno di non postulare un'assoluta (e non realistica) indifferenza delle strutture istituzionali rispetto alle trasformazioni del sistema politico.
D'altra parte nei decenni passati abbiamo avuto diversi modelli di funzionamento del sistema istituzionale, certo non meccanicamente identificabili con il variare delle formule di governo, ma certamente legati al succedersi delle grandi stagioni politiche. Sintetizzando, possiamo identificarne almeno tre: quella della Costituente, quella del ``centrismo di ferro'' e quella del centro-sinistra, alle quali corrispondono diversi modi di funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale, verificabili, tra l'altro, attraverso la considerazione dell'organizzazione dello Stato, della partecipazione dei cittadini, del sistema delle libertà.
Tre temi, questi, che è urgente considerare proprio alla luce delle molte (o poche) novità intervenute dal 20 giugno in poi. Direi, anzi, che un certo nervosismo che serpeggia soprattutto nell'ambito della sinistra, da molti mesi a questa parte, dipende proprio dal fatto che un confronto serio e approfondito sulle concrete tendenze del nostro sistema politico non è stato ancora opportunamente avviato. Solo nelle ultime settimane si è cominciato a rendersi conto dei rischi che questa disattenzione comporta, l'avventurarsi, cioè, sul terreno degli interventi che danno luogo a modifiche profonde del tessuto istituzionale, senza misurare adeguatamente gli effetti che tutto questo può avere sul funzionamento complessivo del sistema politico. Più avanti cercherò di indicare alcuni casi in cui questo eccesso di disinvoltura non solo è particolarmente visibile, ma rischia addirittura di produrre contraccolpi negativi per gli stessi sprovveduti autori di alcune proposte.
Un'analisi di questi fenomeni, dunque, è urgente, e, culturalmente e politicamente, mi sembra della massima importanza, perché significa la ripresa di uno dei filoni che meglio avevano rappresentato in questi anni la nuova consapevolezza con cui la sinistra, nel suo complesso, si era accinta ad un riesame del proprio bagaglio ideologico. Mi riferisco appunto all'attenzione per i fatti istituzionali, non più considerati come un momento puramente sovrastrutturale, ma come un aspetto determinante della strategia politica. Vero è che a questa crescita della consapevolezza non sempre ha corrisposto, in concreto, una coerente azione politico-istituzionale. Permaneva, e permane ancora, una notevole dose di opportunismo, figlio o residuo di una fase in cui si riteneva che le partite decisive venivano giocate sul terreno dell'economia, mentre quello istituzionale appariva propizio al patteggiamento di breve periodo, alla manipolazione delle istituzioni, all'uso congiunturale degli strumenti giuridici.
Oggi questo atteggiamento non trova più difensori in via di principio, ma viene ancora praticato nei fatti: solo che proprio la complessiva maturazione dei temi istituzionali all'interno della sinistra consente di usare strumenti più raffinati, e di rivolgersi a un ambiente più largo e politicamente sensibile, quando si tratta di mostrare i limiti di certe iniziative e di misurare le variazioni che esse introducono nel quadro istituzionale.
3. E veniamo al secondo interrogativo. E' lecito tentare questa misurazione adoperando come scandagli i temi del referendum e della politica delle libertà?
Ragioni di principio a parte, mi sembra che una risposta positiva sia deducibile dall'atteggiamento di coloro che, fortemente critici verso un uso largo dello strumento referendario e verso l'insistito garantismo che caratterizza le posizioni ``libertarie'', implicitamente riconoscono che il funzionamento del nostro sistema risulta assai diversamente connotato a seconda dello spazio istituzionale riservato al referendum e alla tutela delle libertà.
Quale significato, altrimenti, può essere attribuito alle molte proposte limitative del ricorso al referendum ed alle polemiche aspre sui provvedimenti in materia di ordine pubblico?
Ma non è solo l'attualità a confermarci il valore caratterizzante di un tema come quello del referendum. Se, infatti, guardiamo alla nostra storia recente, ci accorgiamo che c'è un profondo legame tra l'attenzione per il tema referendario e ciò che è avvenuto nella società italiana negli ultimi anni. E' inutile indicare qui un preciso punto di partenza. Si scelga il solito riferimento del 1968 o uno equivalente, è certo che sono venute crescendo le richieste di partecipazione dei cittadini, sono state riscoperte le potenzialità della democrazia diretta, si è diffusa l'esigenza di forme di controllo collettivo. Questo movimento era ovviamente destinato ad incontrare quegli strumenti istituzionali che più direttamente possono dar corpo alle nuove domande sociali e politiche, tra i quali il referendum abrogativo delle leggi ha certamente un posto di spicco. D'altra parte è ben noto il ruolo assunto dal referendum nelle correnti vicende politiche italiane, dal momento che il voto del 12 maggio 1974 ha rappresent
ato un fatto non certo marginale nella rottura dei vecchi equilibri e nel processo di crescita delle forze di sinistra.
Ragioni altrettanto importanti, e anch'esse nient'affatto formali, inducono a ritenere centrale la tematica delle libertà, che, almeno dalla metà degli anni '60 in poi, ha marcato alcune delle più consistenti trasformazioni intervenute nella società civile e nel sistema istituzionale. Il quadro costituzionale della tutela e dell'attuazione delle libertà è stato notevolmente arricchito nel medesimo tempo in cui se ne indicavano criticamente i limiti.
Grazie all'opera della Corte costituzionale e delle magistrature minori, il rispetto del quadro delle libertà disegnato dai costituenti (che aveva conosciuto molte smagliature negli anni precedenti) venne lentamente ripristinato; grazie anche ad alcune iniziative legislative, vennero chiusi molti dei varchi attraverso i quali erano passati, negli anni precedenti, gli arbitrii dell'amministrazione e della polizia. In più, al di là del quadro liberale-garantista, vennero scoperte le potenzialità insite in molte norme della parte iniziale della Costituzione, dalle quali si trassero consistenti indicazioni, per mettere in evidenza la necessità di allargare il quadro delle libertà oltre il disegno contenuto nella stessa Costituzione. Basta considerare quella ``carta delle libertà'' che è lo Statuto dei lavoratori per avvedersi di come sia possibile sviluppare le potenzialità contenute nella Costituzione stessa. Si sono così avuti un'approvazione e un arricchimento critico dello schema costituzionale.
A ciò corrispondeva, in quegli anni di ``disgelo costituzionale'', un allargamento delle aree di libertà. Questo è un riferimento importante, anche per valutare alcune polemiche contingenti come quella suscitata dal troppo celebrato appello degli intellettuali francesi. Quando ci si cominciò a interrogare se davvero l'Italia fosse o no il paese più libero d'Europa, si rispose da molte parti facendo il confronto con gli anni '50, con le fortissime limitazioni delle libertà che in quegli anni furono attuate, e ci si domandò se non era il caso di riconoscere quanto cammino era stato fatto.
Tutto questo è giusto, solo che in questa visione comparatistica della tutela della libertà, troppe volte si è saltato un passaggio intermedio: quello degli anni a noi più vicini, rispetto ai quali è altrettanto giusto riconoscere se non un arretramento, certo un arresto della politica espansiva delle libertà avviata agli inizi degli anni '60. Ma c'è una considerazione più generale che deve essere fatta considerando l'mpliamento delle aree di libertà. Essa riguarda i soggetti dell'operazione di ampliamento, che non sono stati e non sono identificabili soltanto con i soggetti tradizionali dell'azione istituzionale: nel senso che, se è vero che molti degli arricchimenti e degli ampliamenti delle aree di libertà si giovano di interventi legislativi e di interventi di organi giurisdizionali, è pure vero che negli stessi anni venne realizzandosi una appropriazione diretta da parte dell'organizzazione sociale di nuove aree di libertà attraverso esperienze che non solo estendevano la libertà di ciascuno, ma, soprat
tutto, guadagnavano allo spazio delle libertà quella dimensione collettiva che nell'ottica costituzionale era stata poco o nulla considerata.
Questi sono i dati con i quali oggi dobbiamo fare i conti, non limitandoci a valutare il modello costituzionale quale ci è consegnato dalla Carta del '47, ma considerando pure la dinamica istituzionale quale ci viene restituita soprattutto dalle vicende dell'ultimo decennio.
Se allora guardiamo all'istituto del referendum, tenendo presenti entrambi questi profili, ci accorgiamo di come non corrisponda proprio al modello d'origine una versione di questo istituto che lo riduca a puro strumento di stimolo dell'azione parlamentare. Considerandolo nel quadro complessivo dei meccanismi costituzionali, il referendum non si presenta come un mezzo che serve ad accrescere il consenso intorno all'istituzione parlamentare, ma piuttosto come un mezzo che tende a creare all'interno delle istituzioni possibilità di dialettica e, quindi, di controllo, che coinvolgono soggetti diversi da quelli a cui è affidata la gestione ordinaria della legislazione. E, poiché il soggetto in questione è il corpo elettorale nella sua totalità, è almeno improprio ipotizzare una sorta di contrasto tra referendum e sovranità popolare, a meno di non offrire di quest'ultima una dimensione pericolosamente riduttiva, misurata soltanto sulle caratteristiche dell'azione parlamentare. E' possibile infatti interpretare il
referendum come istituto residuale rispetto ad altre forme di intervento diretto dei cittadini: ma proprio questa lettura ne esalta le peculiarità, dal momento che esso si presenta come strumento unico e tipico (e quindi non più riducibile) nelle mani dei cittadini. L'esperienza concreta conferma questa analisi.
La legge attuativa dei referendum fu patteggiata con la Democrazia cristiana nel frangente in cui era sul tappeto il problema del divorzio e rappresentò l'offerta a una parte del mondo cattolico di un mezzo di contestazione della decisione parlamentare. Non si può quindi ritenere che il legislatore abbia inteso il referendum come mero strumento di stimolo per l'azione parlamentare a meno di non voler negare la cronaca fin troppo vicina.
Dunque, il referendum è stato inteso dai suoi promotori come strumento di contestazione di decisioni parlamentari vicine e lontane: il divorzio e aborto, leggi Reale e Concordato.
Certo, all'interno del nostro sistema politico-istituzionale le richieste di referendum hanno giocato in modo diverso, proprio perché il nostro è un sistema assai complesso per quanto concerne le reciproche interferenze tra gli strumenti istituzionali. Utilizzato per la contestazione della legge sul divorzio, il referendum ha finito col diventare uno strumento che ha accresciuto e rafforzato il consenso popolare intorno ad una legge la quale aveva ricevuto un'adesione parlamentare appena sufficiente: da quel momento in poi il voto referendario, a parte i riflessi politici di carattere più generale, ha avuto conseguenze assai significative, non solo bloccando le minacciate proposte di limitazione legislativa della disciplina del divorzio, ma costituendo pure un incentivo determinante per l'approvazione di una legge di riforma del diritto di famiglia molto più avanzata di quella che si sarebbe avuta prima del voto del 12 maggio. E' certo, d'altra parte, che se avremo una buona legge sull'aborto, ciò sarà dovut
o alla spinta determinante esercitata sul Parlamento dalla minaccia di un referendum (anche se so bene che su tempi e contenuti di quella legge probabilmente divergono l'opinione mia e quella degli amici del gruppo parlamentare radicale).
Di fatto, dunque, è vero che il referendum può servire da stimolo all'azione parlamentare, può essere uno strumento più di aggregazione del consenso intorno a decisione parlamentari che non di contestazione delle decisioni stesse; ma questo non modifica la caratteristica fondamentale dell'istituto referendario che in Italia non è affatto uno strumento di tipo plebiscitario, ma di dialettica, di contrapposizione. Di qui una conclusione obbligata: tutti i tentativi, tutte le proposte che tendono a modificare surrettiziamente questa caratteristica dell'istituto referendario, sono confliggenti con il modello costituzionale d'origine e con il modello di costituzione materiale, quale si è venuto consolidando in questi anni. Io non nego la legittimità di una ridiscussione profonda e complessiva dell'istituto referendario, ma questa deve avvenire esplicitamente, non introducendo norme gravemente modificative in una legge elettorale sul parlamento europeo, in un legge relativa all'accorpamento dei turni elettorali am
ministrativi o fingendo di innovare solo i meccanismi procedurali della legge sul referendum.
4. Veniamo ora al terzo e al quarto interrogativo, alla nuova ``razionalità'' che si vorrebbe introdurre nel nostro sistema con le norme in materia di referendum e ordine pubblico.
Se noi assumiamo come punto di riferimento non i ferrigni anni '50, ma i ``permissivi'' anni '60, constatiamo un arretramento, un deperimento di una serie di garanzie introdotte in quest'ultimo periodo. Tale arretramento non può essere giustificato con l'argomento che nella fase del centro-sinistra ha provocato i maggiori guasti politici e istituzionali. L'argomento è il seguente: siamo in una congiuntura difficile, economica e istituzionale, e la politica delle riforme deve essere accantonata, fino a che non sarà possibile ricostituire condizioni propizie al suo rilancio.
La storia, non solo italiana, di questi anni dimostra che non esiste l'ipotesi di un domani migliore nel quale le riforme possono essere avviate: le grandi riforme sono sempre nate in momenti di grandi crisi, quando cioè l'organizzazione sociale è stata obbligata a riflettere seriamente sui propri problemi, sui nodi da sciogliere. La politica dei due tempi è inaccettabile, il rinviare tutto al momento di una riconquistata stabilità è un errore, poiché saranno proprio i modi in cui la stabilità verrà raggiunta a condizionale le future riforme.
Su questo punto è bene essere chiari, poiché la politica restrittiva delle libertà ha ormai una lunga storia dietro le spalle. Comincia nel 1974, passa attraverso quella legge Reale che lo stesso relatore democristiano definì al Senato ``ai margini della costituzionalità'', arriva a quel recentissimo disegno di legge governativo sull'ordine pubblico che tanta perplessità sta suscitando pure all'interno del PCI, per il modo in cui sono stati tradotti in specifiche norme alcuni punti dell'``accordo a sei''.
Siamo dunque su una frontiera difficilissima, dove il minimo ``errore'' di traduzione, la minima variazione lessicale possono far crescere enormemente le possibilità di arbitrio. Lo stesso termine finale apposto alla legge (due anni) non può rassicurarci: ci dice, anzi, che stiamo adottando una logica che può portarci a sospensioni più o meno lunghe di talune garanzie costituzionali. Alcuni episodi si sono già verificati: a Roma nel maggio scorso fu sospesa la libertà di riunione, taluni interventi repressivi sulle ``radio libere'' sono preoccupanti, se non altro per la forma con cui sono stati adottati.
Ma, si risponde: attenzione agli eccessi di garantismo.
La nostra Costituzione, però, è una costituzione fortemente garantista, per una ragione storica che non può assolutamente essere trascurata: all'Assemblea costituente la DC e il PCI finirono con il convergere su un quadro garantista delle libertà tradizionali che entrambi questi partiti consideravano come una sorta di assicurazione per il futuro. Ognuno di essi, in altri termini, cercava di garantirsi contro i rischi di trovarsi in minoranza una volta chiusa la partita dell'approvazione della Costituzione. Questa è storicamente una delle ragioni per cui dobbiamo confrontarci con una costituzione fortemente garantista.
E' dunque chiaro che ritenere le posizioni di taluni viziate di eccesso di garantismo, rappresenta un critica al modello costituzionale e non un'argomentazione che possa essere usata per sostenere la legittimità di taluni interventi in materia di ordine pubblico.
Trent'anni fa ci si preoccupava di predisporre meccanismi formali a tutela del dissenso e dei diritti delle minoranze: una linea che non può essere impunemente cancellata, senza manomettere gravemente alcuni principi di fondo del sistema costituzionale. E ciò si vuol fare attraverso strumenti che, dubbi sotto il profilo dell'efficienza, possono essere adoperati come strumenti riduttivi dei diritti delle minoranze.
Quale razionalità in tutto ciò? Io non vorrei insistere su questo profilo, mi preme invece sottolineare come i difetti di razionalità siano legati anche alle manipolazioni di breve periodo. Adottiamo pure l'ottica di chi propone di portare ad un milione il numero di firme per la richiesta del referendum, di attribuire al Presidente della repubblica un potere sospensivo del referendum, di impedire lo svolgimento del referendum negli anni in cui si svolgono elezioni amministrative raggruppate. Ora, chi propone di elevare a un milione il numero delle sottoscrizioni vuole rendere più difficile il ricorso allo strumento del referendum, diradare le occasioni di referendum attraverso un intervento meccanico e non politico, non intervenendo sulle cause, ma imponendo una procedura più difficoltosa.
Questa mi sembra un'impostazione sbagliata, perché l'ultima campagna referendaria ha dimostrato che al tetto del milione di firme non è poi impossibile arrivare. Ma soprattutto perché se si richiede un milione di firme, si impone ai promotori di un referendum una forte tensione e una larga organizzazione che tenderà a permanere anche a raccolta effettuata. Elevando a un milione le firme richieste è allora probabile, o è possibile, che si istituzionalizzi il partito del referendum, che ha come sua unica ragione di sopravvivenza quella di raccogliere ogni anno delle firme, introducendo quindi nel nostro sistema una modifica di segno opposto rispetto alla finalità che i fautori di una disciplina più aggravata della legge sul referendum si propongono.
Veniamo all'attribuzione al Presidente della repubblica del potere sospensivo del referendum. In un simile caso la manipolazione del modello costituzionale sarebbe gravissima: in un momento in cui si tende ad esaltare la funzione di centralità e di controllo del Parlamento, avremmo una dislocazione nelle mani del Presidente della repubblica di un potere che può essere adoperato per condizionare proprio l'azione delle assemblee parlamentari. Giocando contemporaneamente sui due tavoli del rinvio del referendum e dello scioglimento delle Camere, il Presidente della repubblica finirebbe così con il respingere l'autonomia delle assemblee parlamentari. Ancora una volta le frettolose e disinvolte manipolazioni delle istituzioni possono risolversi in un boomerang contro chi le propone.
Vi è infine la proposta di escludere al possibilità di coincidenza tra votazioni referendarie ed elezioni amministrative raggruppate. Quale è la ragione del progetto di raggruppare le consultazioni amministrative? Si risponde: rendere più razionale l'attività politica, rendere meno pesante il condizionamento nascente da una serie di piccoli "tests" disseminati lungo l'anno. Ma, nel momento in cui contemporaneamente si cerca di ridurre l'incidenza politica delle elezioni amministrative e si afferma l'incompatibilità con esse del voto sui referendum, in realtà si pone in essere una profonda contraddizione. Infatti, quella incompatibilità, che discenderebbe dalla volontà di non inquinare reciprocamente votazioni con oggetto politico assai diverso, mal si concilia col tentativo di ridurre la portata generale del voto amministrativo. Inoltre, la frequenza dei ``raggruppamenti'' potrebbe far slittare di anno in anno i referendum e, più in generale, se raggrupperemo le amministrative, introdurremo, col pretesto del
la razionalità, un ulteriore elemento di rigidità nel sistema, che si bloccherà tutti gli anni, sapendosi che nel periodo primaverile ci sarà questo "test" rappresentato appunto da un grosso blocco di elezioni amministrative. Dunque, ancora una volta, un effetto boomerang.
5. Tutte queste proposte, a prima vista riducibili a pericolose manipolazioni di breve periodo, dietro le quali non c'è una strategia di grande respiro, tuttavia possono avere effetti complessivi di grave distorsione del sistema socio-istituzionale. Infatti la maggiore attenzione per il referendum, la maggiore sensibilità per le libertà non sono soltanto il frutto delle azioni minoritarie di gruppi determinati o la conseguenza di occasionali iniziative legislative, ma il risultato complessivo di una dinamica sociale assai più ricca di quanto noi eravamo abituati a considerare in tutta la nostra storia passata, per cui la capacità di elaborazione istituzionale è passata dai vertici illuminati alla base sociale del Paese.
La modifica della presenza istituzionale del sindacato non è venuta per legge o per iniziativa degli stessi sindacati, è stata ``inventata'' in una fase di lotte; i consigli di quartiere sono sorti dapprima come pratica concreta e "poi" come realizzazione legislativa. E' la stessa società che si è trasformata in un grande laboratorio istituzionale.
Così stando le cose, è pericoloso pensare che la manipolazione dei vecchi congegni istituzionali possa bloccare una dinamica sociale complessa quale è quella che abbiamo di fronte. Se riduciamo i canali organizzazione politica e gli strumenti di espressione delle domande politiche e sociali, fatalmente introduciamo fattori di rigidità, a loro volta generatori di tensioni sociali che non riescono poi ad essere mediate da nessuna delle componenti del sistema politico-istituzionale.
Non basta dunque invocare le istituzioni: bisogna rilevare quali sono quelle in cui la dinamica sociale può identificarsi, riconoscendo poi agli stessi soggetti sociale un margine (non ridotto) di creatività istituzionale.
Altrimenti avremo soltanto semplificazioni autoritarie, che non rafforzeranno il tessuto democratico del nostro Paese, ma lo indeboliranno pericolosamente.