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Bricola Franco - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (5) Ordine e democrazia nella crisi (a proposito delle più recenti tendenze normative in materia ti tutela dell'ordine pubblico)
di Franco Bricola

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

1. Malgrado le suggestioni implicite nel titolo della relazione, mi occuperò esclusivamente del recentissimo disegno di legge elaborato dal Governo e contenente ``disposizioni in materia penale e di prevenzione'', cercando di collocarlo nel quadro delle principali linee di tendenza della politica criminale attuale in Italia.

E' indubbio che, sotto la spinta di una situazione generale del paese caratterizzata da un forte aumento della criminalità, dall'esplosione di forme acute di violenza e da un pesante attacco alle istituzioni democratiche, il nostro sistema punitivo si stia nel suo complesso muovendo secondo le linee tendenziali non del tutto armoniche rispetto alla Costituzione. L'idea portante della ``rieducazione'', che trova un preciso aggancio nell'art. 27 comma 3· della Costituzione e che dal '45 ad oggi ha sorretto le speranze di riforma, sembra sempre più ridursi al rango di puro ``mito'' di fronte a innovazioni normative che tendono a privilegiare gli aspetti ``terroristici'' (più che retributivi) della pena, nonché la sua funzione di prevenzione generale di fronte a fatti che sono segnalati soltanto per l'allarme sociale che suscitano. Il mito della rieducazione crolla proprio su quel terreno dell'esecuzione rispetto al quale dottrina e giurisprudenza (anche costituzionale) sembravano unanimi nel riconoscere la port

ata innovativa dell'art. 27 comma 3· della Costituzione. L'esclusione, viceversa, di determinati autori di reati dalla possibilità di fruire dei benefici dell'affidamento in prova, semilibertà ecc. (esclusione sancita dall'art. 47, comma 2· del nuovo ordinamento penitenziario) e l'istituzione del carcere "speciale", sono i dati più sintomatici di questo repentino abbattimento dello stesso ``mito'', della rieducazione. Il carcere "speciale", se risponde ad una necessità indubbia di maggiore sorveglianza (necessità sottolineata dal numero sempre più frequente di evasioni), comporta una restrizione, spesso nemmeno funzionale rispetto alla "necessità" di cui sopra, dei diritti costituzionali del detenuto e si pone in assoluta antitesi con una prospettiva di rieducazione. L'assegnazione al carcere "speciale" avviene, inoltre, mediante meccanismi che sembrano precludere al detenuto la possibilità di eccepire l'illegittimità costituzionale dell'assegnazione al carcere di massima sicurezza: risultato singolare se si

pone mente al fatto che obiettivo della riforma dell'ordinamento penitenziario era stato proprio quello di riaffermare la ``legalità'' della disciplina penitenziaria e la giurisdizionalizzazione dell'esecuzione. Sembra, pertanto, difficile al momento immaginare che la Corte costituzionale possa essere messa in condizione di pronunciarsi sulla legittimità di tale istituto: anche se la Corte potrebbe in simile eventualità, respingere ogni attacco al carcere speciale asserendo che la funzione rieducativa di cui all'art. 27 comma 3· trova un limite nella superiore esigenza di garantire l'ordine pubblico, perfezionando in tal guisa quel processo ortopedico in virtù del quale l'ordine pubblico è stato fatto filtrare come limite di tutte le libertà costituzionali. D'altro canto una volta trasformato il problema del carcere in un problema di ordine pubblico (cfr. in tal senso la mia introduzione al volume "Il carcere riformato" recentemente edito dal Mulino), il salto logico non sarebbe poi eccessivo.

Un ulteriore elemento che segnala la profonda trasformazione in atto nel nostro sistema punitivo è rappresentato dalla progressiva estensione della carcerazione preventiva, la quale diventa sempre più una forma di pena "anticipata" ed "esemplare", diretta a placare esigenze di allarme sociale e a soddisfare obiettivi di prevenzione generale. L'esecuzione di questa forma anomala di pena, inoltre, nulla concede alla ``rieducazione'': al detenuto in attesa di giudizio, infatti, proprio in virtù della presunzione costituzionale di non colpevolezza (art. 27, comma 2·), non si può applicare alcun trattamento rieducativo con la consegna che il sottoposto a carcerazione preventiva subisce tutti gli effetti emarginanti dalla esecuzione, senza poter beneficiare di eventuali momenti risocializzanti.

Se si tiene presente poi che il carcere speciale non è soltanto destinato ad accogliere soggetti definitivamente condannati, si comprende quale processo degenerativo abbia subito l'istituto della carcerazione preventiva che la Costituzione aveva voluto asservire ad assolute esigenze di natura processuale.

La stessa inflazione del giudizio direttissimo, che potenzia una difficoltà già connaturata al processo penale ordinario (difficoltà cioè di consentire una valutazione della personalità, presupposto indefettibile della rieducazione), è funzionale ad un'esigenza di potenziare lo scopo di esemplarità (e di pura prevenzione generale) della pena. Senza dilungarmi in questa analisi complessiva del sistema che richiederebbe ben altra riflessione, mi limito a segnalare questo punto: come avviene in ogni momento di crisi di una determinata struttura sociale, anche nel nostro paese il sistema punitivo tende a privilegiare momenti di prevenzione generale e di puro terrorismo sanzionatorio a scapito dei momenti più garantistici e democratici della sanzione penale che sono rappresentati dalla sua funzione retributiva e risocializzante.

Tutto ciò ha ben precise conseguenze. L'attenuarsi dei momenti retributivi della sanzione penale provoca un allentamento dell'esigenza di tassatività della fattispecie, nonché dell'esigenza che la colpevolezza funga da limite invalicabile per la misura della pena. La sanzione più che essere rapportata a fatti precisi, idonei a ledere gli interessati protetti, si indirizza verso sospetti, tipi di soggetti ``infedeli''; la barriera del tentativo come limite al di là del quale la sanzione penale non può intervenire, cede alle pressioni dell'allarme sociale, dell'esemplarità e della prevenzione generale. Che poi il compito di superare questi limiti venga affidato alla pena o alla misura di prevenzione è solo una questione di mera forma: sulla cosiddetta truffa delle etichette rappresentata dalle misure "ante delictum" si sono già spese, purtroppo invano, molte parole.

2. In questa cornice che ha sul piano processuale, il suo "pendant" nell'attenuarsi delle garanzie giurisdizionali (sintomatica è, in proposito, la legge n. 534 dell'8-8-1977), vanno collocati i più recenti provvedimenti e, in particolare, il disegno di legge contenente disposizioni in materia penale e di prevenzione, oggetto della mia relazione.

Prima di affrontare l'esame degli aspetti più significativi del disegno di legge, mi preme porre l'accento su un certo tipo di motivazione che spesso accompagna il varo di questi provvedimenti ``eccezionali''.

Si osserva: attraverso questi provvedimenti si provvede a sanare una situazione di emergenza, superata la quale si dovrà intraprendere l'opera di riforma generale diretta ad adeguare il sistema punitivo alla nuova scala di valori e ai principi affermati dalla Costituzione.

Il discorso è viziato in quanto non tiene in considerazione sia il fatto che sta mutando il sistema nel suo complesso e non solo attraverso la via delle leggi eccezionali, sia il fatto che, queste ultime spargono nel sistema degli elementi corrosivi, i cui effetti non possono essere transitori. Alcuni esempi a convalida di quanto sto affermando. Com'è possibile, guardando alla parte speciale del codice penale, pensare di riformare il settore dei delitti contro la personalità dello Stato, eliminando le fattispecie di attentato (fondate su semplici ``atti diretti a...'', e ciò malgrado autorevoli sforzi di ricondurle nell'alveo del tentativo), quando sia pure per fronteggiare la situazione di emergenza, si travolge, così come sembra fare il disegno di legge di cui si discute, la barriera del tentativo attraverso le misure di prevenzione e si introducono nuove forme di attentato (si pensi alla fattispecie di cui all'art. 419 "bis": attentato a impianti di pubblica utilità)? Spezzare la barriera del tentativo si

gnifica travolgere il baluardo di garanzia più significativo, incrinare un certo tipo di sensibilità, la cui caduta non può essere, e in specie nel nostro paese così propenso a trasformare l'eccezionale in definitivo, recuperata a livello di riforma. E ancora: come si può pensare a un processo fondato sulla parità di posizioni della difesa e dell'accusa pubblica e su un nuovo metodo di formazione della prova, quando regredendo rispetto a un processo di graduale inserimento delle garanzie costituzionali nel processo penale, si allentano i diritti della difesa e si riconduce la formazione della prova a metodi inquisitori e polizieschi?

E soprattutto si sorregge questa ``regressione'' con la sottile insinuazione che sarebbe l'eccessivo garantismo una delle cause dell'aumento della criminalità.

E' illusorio o ingenuo pensare che fra ``non oltre due anni'' (tale essendo il termine di massima vigenza ipotizzato dall'art. 23 del citato disegno di legge) il discorso sulle riforme possa essere ripreso come se nulla fosse accaduto, come se il sistema punitivo (e la mentalità che lo sorregge) non fosse nel frattempo mutato nelle stesse sue intime strutture e linee di tendenza...

3. E veniamo al disegno di legge n. 1798. Esso rappresenta la concretizzazione normativa, con qualche aspetto di riforma "in pejus", di quella parte dell'accordo programmatico tra i partiti che sostengono il Governo che attiene alle ``misure di prevenzione''. Come è noto, l'accordo, in tema di politica criminale, presenta due momenti ben distinti: da un lato, la parte concernente ``l'esigenza di migliorare l'apparato di prevenzione nei confronti dei più gravi reati'' la quale, nell'unitaria prospettiva di tutela dell'ordine pubblico si salda alle prospettive di soluzione dei ``problemi delle carceri''; dall'altro, nel quadro delle soluzioni dei ``problemi dell'amministrazione della giustizia'', la parte concernente la depenalizzazione e l'introduzione di misure alternative alla detenzione. Il secondo momento sembrerebbe esprimere una linea di tendenza contrapposta alla prima, e volta a favorire l'adeguamento del sistema penale ai valori costituzionali effettivi (tramite la depenalizzazione), nonché a deline

are forme di sanzioni alternative alla detenzione nelle quali impostare un effettivo processo di risocializzazione. Se ciò fosse, questo secondo momento fungerebbe, sia pure in un settore limitato, da freno alle tendenze involutive del sistema e segnerebbe l'avvio di una nuova strada di riforma. Senonché l'ottimismo deve essere assai moderato. Raffrontando i due momenti, appare evidente che mentre nel settore delle misure di prevenzione emerge una linea assai precisa (a tal punto che l'accordo si struttura quasi in articoli e capoversi), nel secondo settore la volontà dei contraenti non sembra andare al di là di un mero desiderio di contribuire a ridurre ``i problemi dell'amministrazione della giustizia'' (com'è comprovato dal titolo del punto dell'accordo in cui queste linee programmatiche sono incluse): e cioè, ridurre con la depenalizzazione il carico degli organi giudiziari e, con le pene alternative, contribuire a ridurre il ``sovraffollamento'' delle carceri con l'esclusione della detenzione carceraria

per persone che hanno commesso reati di scarso rilievo. In altra sede esaminerò se il disegno di legge presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 18 Ottobre con il n. 1799 si limiti a tradurre in norme questo intento veramente amministrativo ovvero se esso esprima concretamente una reale tendenza innovativa e alternativa rispetto alle linee attuali.

Il nucleo attorno al quale ruota il disegno n. 1798 in materia di prevenzione è costituito (art. 21) dagli ``atti preparatori, preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a commettere uno dei reati previsti dagli artt. 253, 284, 285, 286, 306, 419 "bis" (fattispecie nuova, introdotta dallo stesso disegno, tramite la quale si colpisce `chiunque compie atti diretti a danneggiare o distruggere impianti di pubblica utilità, o di ricerca o di elaborazione dei dati...'), 422, 428, 429, 430, 431, 432, primo comma, 433, 435, 438, 439, 575, 628, ultimo comma, nn. 1 e 2, 630 del codice penale, o degli artt. 1 e 2, primo comma della legge 20 Giugno 1952, n. 65, concernenti la disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, o dell'art. 1 comma 7· della legge 4 Marzo 1976, n. 31, contenente disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie''. Rispetto a tali atti è possibile l'applicazione delle misure di prevenzione previste dalla legge 31 Maggio 1965, n. 575 (disposizioni contro la mafia) e richiamat

e dall'art. 18 della legge 22 Maggio n. 152 (legge Reale). Inoltre, a' sensi dell'art. 22 ``quando nel corso di operazioni di polizia volte alla prevenzione di reati si appalesi la necessità e l'urgenza di verificare la fondatezza di indizi relativi alla preparazione dei delitti previsti dal numero 1 dell'articolo precedente, gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria possono procedere all'arresto provvisorio di persone che, fuori dei casi in cui all'art. 56 del codice penale, pongono in essere atti preparatori dei delitti suddetti''. E ancora: i luoghi ``nei quali si diano convegno persone indiziate di porre in essere atti preparatori di delitti previsti dall'art. 18 n. 1 della presente legge'' possono formare oggetto di perquisizione da parte di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ``in casi eccezionali di necessità e di urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell'autorità giudiziaria'' (art. 20).

Nei confronti, infine, di persone gravemente indiziate del compimento di atti preparatori del tipo indicato, l'art. 8 consente una speciale intercettazione ``preventiva'' delle comunicazioni o conversazioni telefoniche.

La formula ``"atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a..."'', già adottata dall'art. 18 della legge 22 Maggio 1975, n. 152, ha formato oggetto di critiche assai rigorose. Il disegno di legge sembra non tenerne alcun conto e, senza tentare di rendere più specifica la locuzione, ma soprattutto, senza essere stato preceduto da un'analisi diretta a chiarire le ragioni che hanno reso praticamente inapplicata la norma che la contiene ovvero, comunque, ad esaminare i casi di eventuale applicazione, potenzia la portata della locuzione, facendone discendere più ampie implicazioni d'ordine sia sostanziale che processuale. E' assai difficile conferire alla formula un preciso significato. Va anzitutto rilevato che talune fattispecie richiamate dall'art. 21 (e, soprattutto, quella descritta dall'art. 419 "bis" e formulata dallo stesso disegno di legge) sono strutturate nella forma dell'``attentato'' e, quindi, a prescindere da alcune autorevoli interpretazioni di minoranza, rappresentano un arretramento risp

etto alla soglia del tentativo. Rispetto a queste ipotesi l'art. 21 segnerebbe un ulteriore arretramento della linea di intervento, dai contorni assolutamente inafferrabili. In ogni caso, pur accantonate queste ipotesi (rispetto alle quali una rimeditazione del Parlamento sarebbe assai opportuna, quanto meno per garantire alla norma un minimo di dignità formale) qual è il significato da attribuire all'espressione ``obiettivamente rilevanti''? L'inciso, che non figurava nel testo dell'accordo programmatico e che non viene neppure ribadito negli articoli 8, 20 e 22, può essere interpretato nel senso di sottolineare la necessità dell'"idoneità" degli atti a realizzare i delitti cui si fa riferimento. Senonché scelta tale via interpretativa, lo schema descritto già dall'art. 18 della legge Reale e riaffermato dall'art. 21 del disegno di legge, non potendosi la direzione degli atti intendersi se non come direzione univoca (in caso contrario la norma aprirebbe il varco ai più intollerabili arbitri), finirebbe per

coincidere con quello del tentativo dei singoli reati ipotizzati. Anche se per taluna di questi fattispecie criminose, strutturata essa stessa in forma di tentativo o di attentato, il tentativo non sembra agevolmente configurabile. Qualora si opti per questa soluzione interpretativa, le misure previste sarebbero in senso improprio delle misure "ante delictum" e ritroverebbero la loro specifica ragion d'essere solo a patto di essere agganciate non alla prova, ma al sospetto della realizzazione di uno dei predetti reati. Il disegno di legge, cioè, nel formulare lo schema, avrebbe prescelto una delle due tecniche seguite allorché si vuole agganciare l'applicabilità di una misura di prevenzione al "sospetto" di un reato commesso. Mi spiego meglio: il legislatore può anzitutto alludere esplicitamente al sospetto (è il caso dell'art. 1 della legge antimafia, il quale parla di ``indiziati di appartenere ad associazioni mafiose'') oppure può descrivere una fattispecie che, coincidendo con quella di un reato, per acq

uistare la sua autonomia, non può differenziarsi se non per il diverso quoziente probatorio (sospetto) richiesto per l'applicazione della misura.

Quale altro significato potrebbe attribuirsi alla locuzione ``obiettivamente rilevanti''? Si potrebbe ad esempio ipotizzare che la formula alluda ad atti i quali, pur avendo superato la fase meramente preparatoria, non concretino ancora in senso vero e proprio un "inizio di esecuzione". A parte l'estrema indeterminatezza della impostazione essa, tuttavia, non esclude che gli atti così caratterizzati integrino un tentativo dei delitti menzionati; l'art. 56 del codice penale, infatti, ha proprio inteso svincolare la fattispecie del delitto tentato dall'"inizio" dell'esecuzione e superare la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, fonte di molteplici incertezze e controversie. Da altri si è sostenuto che, per l'integrazione dell'identica formula contenuta nell'art. 18 n. 1 della legge Reale, non occorrerebbe né che sia stato consumato uno dei delitti menzionati, né che siano stati posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commetterlo. ``Ché, altrimenti, avrebbero applicazione le nor

me penali previste per il delitto consumato o tentato. La condotta che qui viene in rilievo è, dunque, quella che pur manifestandosi all'esterno, è anteriore al compimento degli atti che danno inizio al processo esecutivo del reato e che cadono sotto le sanzioni criminali "ex" art. 56 del codice penale, gli atti preparatori debbono essere obiettivamente rilevanti. Con tale requisito si è voluto chiarire che non è sufficiente la mera intenzione o risoluzione criminosa, ma che a questa deve accompagnarsi un comportamento esterno significativo ai fini della commissione di uno dei delitti descritti.''

E' un'interpretazione che mi lascia perplesso. Infine: che vuol dire l'espressione ``comportamento significativo ai fini della commissione di uno dei delitti...''?

A me sembra che con tale espressione si vuole alludere alla direzione in modo non equivoco degli atti, però in tal guisa la locuzione ``obiettivamente rilevanti'' sarebbe una superfetazione dell'altra ``diretti a'', pure figurante nell'art. 18, n. 1; oppure con tale espressione si vuole specificare un "quid pluris" rispetto alla direzione, ma allora diviene impossibile distinguere la "significatività" dall'"idoneità".

Nasce, di conseguenza, nell'interprete la sensazione che la formula, nella sua indeterminatezza, nessun altro obiettivo voglia raggiungere se non quello di consentire, tramite l'arresto di cui all'art. 22, più che non attraverso la misura di prevenzione applicabile al termine dell'"iter" procedimentale, di colpire determinati tipi di soggetti sospetti per il loro modo di essere o di comportarsi. Non è tanto il fatto ad essere rilevante, quanto uno specifico modo di essere. La formula, inoltre, legittimando l'arresto e, quindi, il relativo meccanismo inquisitorio di cui dirò, nonché un'altra serie di misure (perquisizione e intercettazione preventive), dovrebbe consentire l'acquisizione di prove della commissione di effettivi reati, aprendo spiragli inquisitori che il codice di procedura penale non consentirebbe.

L'arresto di cui all'art. 22 può scattare in presenza di presupposti ancor più labili e indeterminati di quelli indicati nell'art. 21. Infatti, gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria possono procedere all'arresto provvisorio ``quando nel corso di operazioni di polizia volte alla prevenzione dei reati, si appalesi la necessità e l'urgenza di verificare la fondatezza di indizi relativi alla preparazione dei delitti di cui al n. 1 dell'articolo precedente...''.

Scompare dunque la "flagranza" che pareva dovesse rappresentare un elemento garantistico rispetto all'arresto provvisorio: flagranza, del resto, difficilmente concepibile rispetto a situazioni che non si traducono in effettivi atti o fatti, ma in meri sospetti. Il presupposto dell'arresto provvisorio sembra essere il sospetto di atti che a loro volta non sembrano uscire dalla sfera del mero sospetto: con quali pericoli per la libertà personale e con quale ossequio per quell'esigenza di "tassatività" che è riaffermata dall'art. 13 comma 2· della Costituzione è assai facile immaginare.

4. Seguiamo ora le sorti di chi "ex" art. 22 può essere arrestato provvisoriamente per verificare quale possa essere la durata di questa speciale custodia o carcerazione, che il disegno di legge, forse per evitare il gioco vendicativo delle parole, preferisce connotare come "provvisoria" anziché "preventiva" (è singolare, infatti, una custodia "preventiva" rispetto ad una misura... pur essa "preventiva"). L'arrestato, dopo essere stato interrogato nelle forme di cui dirò viene immediatamente tradotto nella casa circondariale e il Procuratore della repubblica ne convalida l'arresto entro novantasei ore dalla sua esecuzione, se lo riconosce fondato; in caso contrario l'arresto è revocato di diritto e resta privo di ogni effetto.

La speranza di utilizzare tale giudizio per un accertamento di eventuali abusi della polizia sembra del tutto infondata; l'assoluta genericità dei presupposti per l'arresto provvisorio consente alla polizia di sostenere sempre la legittimità di ogni suo intervento e, d'altro canto, frena le eventuali velleità di qualche procuratore della repubblica, intenzionato a promuovere azione penale per eventuali abusi. Avvenuta la convalida dell'arresto provvisorio, se nel frattempo (ossia entro lo stesso termine previsto per la convalida), viene presentata la proposta per l'applicazione della misura del soggiorno obbligato, la persona arrestata è messa a disposizione del Presidente del tribunale nella cui circoscrizione è avvenuto l'arresto e questi ``nella pendenza del procedimento ed entro dieci giorni dalla proposta, può disporre a norma dell'art. 6 della legge 27 Dicembre 1956, n. 1423, che l'arrestato sia tenuto sotto custodia, fino a quando non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione''. Dall'esame di qu

esto "iter" si riscontra la possibilità che l'arresto provvisorio, sia pure convertito in successiva custodia, si protragga per un considerevole periodo di tempo: non è, fra l'altro, neppure ben chiaro se gli artt. 10, 11 e 12 del disegno di legge diretti ad accelerare lo svolgimento dei ``processi relativi ai delitti indicati nell'art. 18 n. 1 della legge 22 Maggio 1975, n. 152'', si riferiscano anche (malgrado la non equivoca dizione letterale usata) ai procedimenti volti all'applicazione delle misure di prevenzione relative ad atti preparatori dei medesimi delitti. Va, inoltre, segnalato a completamento delle vicissitudini cui può andare incontro il sottoposto ad arresto provvisorio che, qualora non sussistano i motivi per ordinare la custodia dell'arrestato, ``il Presidente del tribunale può disporre, a norma dell'art. 3 della legge 31 Maggio 1965, n. 575 che all'arrestato sia imposto, in via provvisoria, l'obbligo del soggiorno: l'arrestato è tradotto a mezzo della forza pubblica della casa circondarial

e in cui si trova al comune di soggiorno, e consegnato all'autorità locale di pubblica sicurezza''.

L'"iter" che conduce all'applicazione della misura del soggiorno obbligato (e che può snodarsi attraverso l'arresto provvisorio, la custodia, o comunque, la traduzione coattiva) è tale che persino coloro i quali nel soggiorno obbligato non ravvisano una restrizione della libertà personale, nel senso di coartazione fisica cui farebbe riferimento l'art. 13 della Costituzione, potrebbero nutrire dubbi sul carattere restrittivo di tale regolamentazione.

E' comunque certo che dal nuovo disegno di legge, come già dalla legge 22 Maggio 1975, n. 152, escono definitivamente battute le due principali linee di tendenza che erano emerse dal convegno tenutosi ad Alghero nei giorni 26-28 Aprile 1974 sul tema ``Le misure di prevenzione''. Alludo cioè ad una prima linea, radicalmente contraria ad ogni forma di misure di prevenzione "ante delictum", ritenute estranee all'art. 13 della Costituzione, in quanto restrittive della libertà personale e non funzionali ad un processo penale, diretto all'applicazione delle sanzioni (pene e misure di sicurezza) richiamate dall'art. 25 comma 2· e comma 3· della Costituzione, e ad una seconda linea meno radicale, la quale, pur riconoscendo nelle misure di prevenzione, "ante delictum" una conquista, ormai non più rinunciabile, del pensiero moderno in tema di difesa sociale, sollecitava però gli organi responsabili a cambiare strada eliminando quelle misure che colpiscono il sospetto di reati commessi o la mera intenzione di commetter

li. Alla prima linea radicale, del resto, le stesse forze democratiche già avevano rinunciato quando, in sede di opposizione al famigerato disegno di legge sul ``fermo di polizia'', si erano soffermate spesso più sull'assenza, nella regolamentazione del fermo delle garanzie giurisdizionali "ex" art. 13 della Costituzione comma 2· che non sull'incostituzionalità in radice dell'istituto come forma di intervento preventivo chiaramente restrittivo della libertà personale, al di fuori della prospettiva dell'art. 13 della Costituzione, norma ``servente'' rispetto all'art. 25 della Costituzione. La stessa seconda linea di tendenza è superata dall'art. 21 del disegno di legge nei limiti in cui la formula già criticata legittima l'applicazione delle misure di prevenzione al mero sospetto a certe tipologie soggettive.

Senonché, a parte tutto ciò l'aspetto più pericoloso insito nel disegno di legge sta nel fatto che esso delinea un trattamento ``provvisorio'' chiaramente restrittivo della libertà personale, che, muovendo dall'arresto entro i limiti sia pure discutibili dei provvedimenti "ex" art. 13 comma 3· si può trasformare successivamente in una sorta di carcerazione preventiva che può protrarsi fino al momento di cui diviene esecutiva la misura di prevenzione; una sorta, cioè, di carcerazione preventiva che, trasposta dai limiti in cui la colloca l'art. 13 comma 5· della Costituzione, ossia nei limiti di un asservimento funzionale alle esigenze del processo penale, volto all'applicabilità delle sanzioni di cui all'art. 25 comma 2· e 3· della Costituzione, non appare assolutamente conciliabile con la dimensione costituzionale dell'istituto, anche se funzionale a quel disegno potenziamento della carcerazione preventiva, come sanzione anticipata, del quale s'è detto all'inizio.

5. Un quesito a tale punto è d'obbligo ed è già affiorato nella relazione del prof. Barile: quali soluzioni ``alternative'' erano prospettabili per fronteggiare fin dal suo sorgere una criminalità così violenta e organizzata? Anzitutto, si potrebbe rispondere in via preliminare, sarebbero già di per sé sufficienti le diverse fattispecie (e sono anche richiamate dall'art. 21) che incriminano ipotesi di attentato, arretrando la linea di punibilità, nonché la fattispecie di associazione a delinquere. Quanto a quest'ultimo profilo si badi: posto che l'art. 21, il quale modifica il n. 1 dell'art. 18 della legge ``Reale'' si applica anche a coloro che operano in gruppo, una volta che sia raggiunta la prova (e di prova dovrebbe trattarsi e non di sospetto, almeno secondo la volontà espressa dal legislatore) di atti preparatori obiettivamente rilevanti, diretti a..., e svolti in forma organizzata, esiste altresì la prova del delitto di associazione a delinquere. Che cos'è infatti l'associazione a delinquere se non o

rganizzarsi per commettere più delitti ponendo in essere atti volti a tale scopo?

D'altro canto, alla richiesta di soluzioni alternative risponderei con un ulteriore interrogativo. Che cosa si vuol colpire? Se si vuol colpire il ``sospetto'' nessuna soluzione è migliore di quella prospettata e può meglio corrispondere alla logica di uno Stato ``poliziesco''. Se si vogliono, viceversa, colpire atti preparatori specifici, ben individuati e riconosciuti, sulla base di un'esperienza criminologica (che mi sembra non sempre sussistere rispetto a certe forme più moderne di criminalità organizzata) come prodromici rispetto a certe forme di delitti, il legislatore può seguire la strada di configurare nuove fattispecie dirette a colpire atti che, sulla base di una presunzione "juris et de jure", recano in sé il pericolo di condurre al compimento di specifici delitti. Anche fattispecie di questo tipo - e chi vi parla ha altrove sostenuto l'illegittimità costituzionale dei reati a pericolo presunto - segnano indubbiamente un abbandono di talune garanzie costituzionali; senonché questo arretramento de

lle garanzie, se bilanciato da un rispetto dell'esigenza di tassatività e compensato dal carattere più marcatamente ``giurisdizionale'' del processo penale, desterebbe minori preoccupazioni. E ancora: il disegno di legge avrebbe potuto, sviluppando il principio già contenuto nell'art. 115 del codice penale prevedere per atti preparatori (determinati con talune connotazioni) di specifici delitti apposite misure di sicurezza.

Anche questa seconda soluzione avrebbe rappresentato una violazione di principi costituzionali relativi alla teoria generale del reato, come ho altrove dimostrato. Senonché sarebbe stato un male certamente minore sulla strada delle garanzie; posto che la Corte costituzionale è orientata a salvare rispetto alle misure di sicurezza principi costituzionali (come ad esempio la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27 comma 2· della Costituzione che è un freno notevole rispetto alla repressione del mero sospetto) che ritiene, per contro, estranei alla sfera delle misure di prevenzione.

Il mio discorso va naturalmente accettato nei limiti in cui (o con gli scopi per cui) è formulato: essendo io convinto profondamente che gli strumenti offerti dal sistema punitivo nel suo complesso sarebbero più che sufficienti a fronteggiare la presente situazione.

Quasi a frenare il senso di allarme che nasce dall'esame del disegno di legge, si osserva che queste misure non vanno considerate di per sé, ma vanno collegate ad altre misure che dall'accordo programmatico sono previste sia per fronteggiare la disgregazione giovanile, sia per incidere in senso economico sulle cause della crisi onde eliminare quelle forme di emarginazione che sono tra le cause principali dell'aumento della criminalità. Il discorso, proprio per il diverso peso specifico che all'interno dell'accordo hanno la politica penale dell'ordine pubblico, la politica sociale e proprio per l'ordine di priorità della realizzazione delle varie parti dell'accordo che sembra privilegiare il momento repressivo, non può non essere accolto in quanto tradisce il principio secondo cui l'intervento repressivo deve fungere da "extrema ratio" rispetto a tutta una serie di riforme strutturali. Inoltre misure del tipo ipotizzato, proprio perché destinate a colpire alla cieca nell'area del sospetto, si prestano a favor

ire un processo di criminalizzazione di frange dell'emarginazione che operando nelle forme delle mera protesta, potrebbero essere assorbite nell'ambito del movimento operaio e dei suoi obiettivi. E ancora: se è vero che l'emarginazione e la violenza hanno, almeno in parte, la loro causa in uno sviluppo capitalistico distorto, che passa attraverso fasi e situazioni di elevata dannosità sociale, per quali ragioni il momento repressivo deve appuntarsi soltanto sulla criminalità tradizionale non considerare altresì la cosiddetta ``altra'' criminalità? Né può essere sufficiente a segnare una diversa linea di tendenza la circostanza che l'art. 21, modificando l'art. 18 n. 1 della legge Reale inserisca gli atti preparatori del delitto di cui l'art. 1 settimo comma della legge 4 Marzo 1976, n. 31 contenente disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie (semplice fiore all'occhiello e, peraltro, non ancora del tutto accettato dalla DC, come emerge da una riserva da questo partito sollevata in sede di stipula

zione dell'accordo).

6. E' opportuno ancora soffermare l'attenzione sull'interrogatorio dell'arrestato in via provvisoria. L'art. 18 "ter" anch'esso inserito nella legge Reale dal già citato art. 22 stabilisce che l'interrogatorio dell'arrestato possa essere delegato ``anche oralmente'' dal Procuratore della repubblica a un ``ufficiale di pubblica sicurezza''; questi, dopo aver avvisato il difensore dell'arresto e ``aver preso nota del giorno e dell'ora dell'avviso in un apposito registro, può procedere all'interrogatorio, anche in assenza del difensore, ma in tal caso al solo fine di ricercare fonti di prova''. E soggiunge poi l'art. 22 ``dell'interrogatorio non è redatto processo verbale, salvo che sia presente il difensore ovvero siano decorse inutilmente dodici ore dall'avviso''.

In quest'ultimo caso le dichiarazioni dell'arrestato non hanno valore probatorio.

Prescindo da un esame minuzioso degli aspetti procedurali relativo all'interrogatorio. Mi preme, viceversa, sottolineare che, tramite l'art. 18 "ter" citato, il nostro sistema probatorio subisce un processo di arretramento rispetto a principi che si ritenevano ormai di acquisizione comune e, in forza dei quali, la responsabilità deve essere costruita su prove oggettive acquisite a confronto dell'ipotesi investigativa, mentre si deve diffidare dei riscontri che all'interno dell'ipotesi stessa, provengano dalla cooperazione più o meno spontanea dell'inquisito. L'art. 18 "ter" per contro, punta sulla cooperazione dell'indiziato, al di fuori di ogni garanzia difensiva, per acquisire elementi che consentano l'accertamento di determinati reati. Si obietta, a giustificazione di tale interrogatorio di polizia, che l'attribuzione di simili poteri non deve creare perplessità nella misura in cui è in atto un processo di crescita democratica della stessa polizia.

E' un discorso che mi lascia alquanto perplesso. Anzitutto esso potrebbe venir rovesciato; nel senso che proprio il conferimento di simili poteri di acquisizione della prova può compromettere il processo di crescita democratica nella misura in cui costringe il poliziotto a riacquisire un vecchio ruolo per nulla democratico. Inoltre: se il potenziamento del ruolo della polizia viene visto come correlato necessario della crescita democratica, le forze di sinistra avrebbero dovuto irrigidirsi circa l'inserimento nell'accordo dell'impegno a creare un sindacato di polizia non autonomo e pretenderne l'attuazione contemporaneamente al varo delle misure d'ordine pubblico.

Un rilievo deve, però, ancora essere formulato; ed è un rilievo che vizia in radice l'argomento. Affermare che la polizia è oggi più democratica, più forse per sensibilità che per la sua organizzazione, non significa di necessità che le si devono riconoscere margini amplissimi di discrezionalità. Solo la tassatività dei margini di intervento attribuiti alla polizia, la controllabilità dell'esercizio dei poteri e la legittimità costituzionale dei medesimi garantiscono la stessa democraticità della polizia.

Se la legge ``Reale'' si caratterizzava per l'obiettivo di trasformare il giudice in poliziotto, costringendolo a valutare e decidere sulla base del sospetto e, nel contempo, di ripristinare taluni poteri della polizia, il nuovo disegno non fa che potenziare questi due aspetti e, soprattutto, il secondo. In questa prospettiva l'art. 20 inserisce, dopo l'art. 4 della legge 22 Maggio 1975, n. 152 che aveva introdotto il potere della polizia di procedere senza mandato dell'autorità giudiziaria alla perquisizione personale, nonché del mezzo di trasporto ``di persone il cui atteggiamento e la cui presenza non appaiono giustificabili'' e che è stato modificato dallo stesso disegno di legge con accentuazione dei poteri della polizia, l'art. 4 "bis" che introduce la previsione della perquisizione da parte della polizia senza mandato ``di luoghi nei quali si diano convegno persone indiziate di porre in essere atti preparatori di delitti previsti dall'art. 18 n. 1 della legge Reale''. Un ampliamento dei poteri di poli

zia viene introdotto anche in tema di intercettazioni telefoniche rimuovendo limiti che erano stati introdotti nel 1974, sull'onda di ben noti scandali, con legge n. 98 dell'8 Aprile 1974. Il disegno di legge n. 1798 prescrive che: a) - l'autorizzazione del giudice possa essere prorogata di quindici giorni in quindici giorni a tempo indeterminato, cioè, senza il vecchio limite di quarantacinque giorni (art. 4); b) - che essa possa esser ``data anche oralmente'' e quindi praticamente senza che venga assolto il dovere di motivazione costituzionalmente prescritto, salva successiva conferma scritta ``appena possibile'' (art. 5); c) - che le intercettazioni possano essere effettuate negli uffici di polizia anziché in quelli giudiziari (art. 6); d) - che infine le notizie se ricavate ``possono essere utilizzate quali prove in procedimenti diversi da quelli per i quali sono state raccolte'' (art. 7). In un settore così delicato il pretesto dell'urgenza serve praticamente a dare campo libero alla polizia, al di fuor

i di controlli sostanziali.

Sempre in tema di intercettazioni, va ribadito il singolare potere che il Procuratore del repubblica ("ex" art. 8) del luogo dove le operazioni devono essere eseguite ha (dietro richiesta del Ministro per l'interno o, su delega di quest'ultimo, del questore, del comandante del gruppo finanza, o di altro funzionario o ufficiale comandante in servizio o reparto operativo) di autorizzare l'intercettazione di comunicazioni o conversazioni telefoniche nei confronti di persone gravemente indiziate del compimento di atti preparatori dei delitti indicati nell'art. 18 n. 1 della legge 22 Maggio 1975, n. 152.

Né è garanzia sufficiente la precisazione di cui al 3· comma dell'art. 18, secondo cui ``gli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni possono essere utilizzati esclusivamente per la prosecuzione delle indagini e sono privi di ogni valore ai fini processuali''.

Di aggiramenti di limiti probatori di questo tipo è infatti ricca la storia del processo penale italiano del dopoguerra.

E infine: sia la prevenzione (nei limiti delineati dall'art. 21 del disegno di legge) sia l'accertamento dei delitti indicato nell'art. 18 n. 1 legge 22 Maggio 1975, n. 152 autorizzano l'introduzione di ampie falle alla barriera del segreto istruttorio (un'ulteriore deroga all'art. 307 del codice di procedura penale di tipo più generale è contenuta nell'art. 3). Infatti a' sensi dell'art. 3, il Ministro per l'interno, direttamente o per mezzo di ufficiale di polizia giudiziaria appositamente delegato, può chiedere all'autorità giudiziaria competente informazioni scritte sul contenuto di atti processuali, ritenute indispensabili per la prevenzione e l'accertamento dei delitti menzionati. E' singolare che il potere esecutivo, mentre continua a trincerarsi dietro il velo degli ``omissis'' (segreto politico-militare), abbia così penetranti poteri di accesso al segreto istruttorio: tradizionali principi, come quello della divisione dei potere e dell'indipendenza della magistratura, sembrano gravemente attaccati d

all'art. 3 del disegno di legge. La rottura in senso univoco della barriera del segreto istruttorio si pone in netta antitesi con l'esigenza, espressa a livello di importanti convegni, di garantire un più ampio diritto all'informazione del cittadino e della collettività rispetto alle vicende istruttorie penali.

7. Sottolineare le antinomie che il disegno di legge presenta sotto il profilo del modello costituzionale e l'ulteriore involuzione che il nostro sistema punitivo sta subendo, significa soltanto trincerarsi dietro preoccupazioni di stampo garantistico, senza avere ben presente la crisi economica, sociale e politica del nostro Paese? Il rilievo non è convincente. Come se essere ``garantisti'' significasse appartenere ad uno schieramento illuministico ma di retroguardia. ``Le garanzie costituzionali della libertà degli individui e dei gruppi, - sono parole di Baratta (in "Ordine e democrazia nella crisi: un dibattimento interno alla sinistra. La Questione criminale", n. 2, 1977 p. 282) - non hanno lo stesso grado di astrazione formale che ha il concetto di ordine pubblico, non sono, come questo, neutre rispetto ai valori. Pur inserendosi nel sistema formale della legalità borghese (e restando perciò insufficienti) esse purtuttavia esprimono e difendono valori che non sono esclusivi di una società borghese, che

sono legati, nel nostro ordinamento, alla Costituzione repubblicana, alla resistenza, valori che sono essenziali nella prospettiva della democrazia socialista e che vanno salvaguardati in qualsiasi momento dello sviluppo del socialismo''. Trattasi dunque di garanzie che non possono essere superate in nome di una tutela dell'ordine pubblico che è "democratico" solo nei limiti in cui si rispettano - e non è un gioco di parole - le garanzie costituzionali. La difesa di queste garanzie con la piena consapevolezza della gravità della crisi e dell'urgenza delle riforme che con assoluta priorità devono essere affrontate, deve essere una componente necessaria e indistruttibile di ogni cittadino e di ogni intellettuale, organicamente legato allo sviluppo in senso socialista della nostra società.

 
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