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Caretti Paolo - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (8) Sulle iniziative dirette alla modifica della legge 25 maggio 1970 n. 352 e degli articoli 75 e 138 della Costituzione
di Paolo Caretti

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

1. Dal 1970, data di attuazione per legge dell'istituto del ``referendum'' abrogativo, ad oggi (quasi otto anni) il corpo elettorale è stato chiamato alle urne per pronunciarsi sull'abrogazione o meno di una legge ordinaria una sola volta. Considerare l'esito di quest'unica esperienza come momento di ``acute lacerazioni nel paese'' ovvero di ``fittizie ed esasperate contrapposizioni tra i cittadini e le istituzioni rappresentative'' (così come si legge testualmente nella relazione che accompagna la proposta di legge del PCI, tesa a modificare la ricordata legge del '70 (1) e secondo le motivazioni che ricorrono anche nelle altre proposte qui in discussione (2) sembra davvero azzardato. Quell'esperienza ha se mai mostrato una coesione tra i cittadini (almeno su quel tema specifico) assai maggiore di quella che sarebbe stato lecito attendersi, tenuto conto del rapporto espresso dalle rappresentanze parlamentari, e una consonanza di opinioni tra elettori e istituzioni rappresentative tale da cogliere un po' di

sorpresa gli stessi partiti politici.

E' difficile dunque riferire quelle affermazioni ad un passato che si esaurisce in quest'unico episodio ed esse vanno quindi valutate, insieme alle proposte specifiche che sulle medesime si appoggiano, come una sorta di intervento preventivo rispetto a quanto dovrebbe avvenire in futuro (o meglio non dovrebbe avvenire).

L'uso ``a pioggia'' dell'istituto del ``referendum'', di cui si è fatto promotore il PR, ha evidentemente acuito le mai sopite perplessità (quando non si tratta di aperta contrarietà) circa la compatibilità del medesimo con un sistema a democrazia rappresentativa a tal punto da provocare la proposta di modificare non solo la legge del '70 ma anche, e in modo non certo marginale, la stessa normativa costituzionale in proposito (3). Senza entrare nel merito della questione (e cioè stabilire se esista davvero, o fino a che punto esista, un rapporto di causa ed effetto tra le iniziative radicali e le proposte qui in discussione - in una di esse, quella del PSDI, vi si fa però esplicito riferimento (4) -) è necessario tener presente questo dato per evitare di ragionare dell'istituto del ``referendum'' in modo del tutto astratto e avulso dal contesto reale (politico e sociale) in ci oggi si inseriscono sia un certo ``tipo'' di utilizzazione del medesimo, sia le proposte di modifica dell'attuale disciplina. Si trat

ta invece di cogliere il perché di un ricorso certo poco ``ortodosso'' al ``referendum'' (5) e di valutare conseguentemente la validità della risposta istituzionale che viene avanzata.

2. Leggendo le relazioni che accompagnano le varie proposte (tanto astratte sono a volte le considerazioni che vi si trovano) si ha, al contrario, l'impressione che solo oggi, e all'improvviso, ci si sia accorti che il ``referendum'' abrogativo è strumento che pone a confronto volontà degli eletti e volontà degli elettori, che esso, per gli effetti che è in grado di produrre, comporta dei rischi per la saldezza del sistema rappresentativo e via dicendo. Con ciò per un verso si dimentica che questi stessi argomenti furono ben presentati già trent'anni fa in sede costituente (e allora forse potevano avere una diversa giustificazione, trattandosi tra l'altro di un istituto nuovo per la nostra esperienza giuridica e politica) e superati attraverso l'adozione di norme, proprio per questo, particolarmente prudenti; per altro verso si assume a parametro di valutazione un sistema, supposto esistente ma in realtà mitico (almeno nei termini in cui è descritto), in cui il meccanismo della rappresentanza politica funzio

na così bene, in cui la volontà popolare si traduce attraverso la delega elettorale in atti normativi che tutta la rispecchiano, mediante una così perfetta immedesimazione tra corpo elettorale e suoi rappresentanti, da far apparire come assolutamente ingiustificata ogni minaccia diretta a turbare un siffatto equilibrio.

Ecco allora che il ``referendum'' deve vedere accentuato il proprio carattere di eccezionalità da un lato e al tempo stesso trasformarsi da elemento correttivo di una situazione di supposta disfunzione del sistema in un meccanismo integralmente riassunto all'interno di una logica, quella rappresentativa, di cui al contrario si tende ad escludere ogni difetto di funzionamento.

Così infatti sembra debbano intendersi le proposte tese ad aggravare l'iter procedurale delle richieste (elevazione a 100 del numero dei promotori; indicazione di un termine breve - 15 giorni - per l'inizio della raccolta delle firme; elevazione a 1 milione del numero delle firme stesse), quanto a stabilire una serie di garanzie, che giocano tutte a favore, della maggioranza parlamentare, tali da consentirle comunque un ``recupero'' della situazione o in via preventiva (possibile rinvio di sei mesi della consultazione popolare; sospensione automatica della stessa, nel caso in cui venga sospesa l'efficacia della legge; decadenza della richiesta per abrogazione o modifica ``sostanziale'' della legge; divieto di sottoporre a ``referendum'' leggi che non siano in vigore da almeno tre anni) o in via successiva (elevazione del ``quorum'' - maggioranza assoluta - ovvero mantenimento del ``quorum'' attuale, ma con computo delle schede bianche tra i voti validamente espressi e contrari all'abrogazione; rinvio degli e

ffetti abrogativi al 90· giorno dalla data di pubblicazione del risultato della consultazione popolare).

Si possono avanzare numerosi dubbi sulla legittimità costituzionale di alcune delle modifiche che si vorrebbero introdurre (ovviamente non di quelle previste nelle proposte di revisione costituzionale) (6), ma l'aspetto che pare più difficilmente conciliabile con la previsione costituzionale dell'istituto sta proprio nel tentativo di renderlo del tutto funzionale alla logica del sistema rappresentativo.

Esso è infatti per sua natura, direi ``per definizione'', uno strumento che, quanto meno inteso in quell'unica forma accolta dal costituente, ossia quella abrogativa di leggi, si presenta in qualche modo come ``alternativo'' a quel sistema ed ha un senso se mantiene la caratteristica di funzionare da momento di verifica, a disposizione delle minoranze, di quella consonanza tra volontà degli elettori e volontà degli eletti, che non sempre può valere come ``presunzione assoluta'' (se è vero che oltre al ``referendum'' anche un altro istituto, previsto dalla Costituzione, quello dello scioglimento anticipato delle Camere, è appunto preordinato ad analogo scopo) (7). Si tratta dunque di un istituto che, ove previsto, presuppone (anziché causarla) l'eventualità di una situazione di potenziale contrasto tra corpo elettorale e Parlamento e ne consente il superamento attraverso una consultazione popolare, il cui risultato è in grado di porre nel nulla la manifestazione di volontà del secondo. Ed è se mai per questa

via che esso recupera una sua ``funzionalità'' rispetto al sistema complessivo, eliminando o confermando il dubbio sulla reale esistenza di quel contrasto.

Proprio con riferimento ai possibili effetti ``traumatici'' del ``referendum'' abrogativo vennero avanzate, in sede costituente, numerose obiezioni sull'opportunità di introdurre un istituto siffatto e ad esse vanno ricondotte, come si è detto, le particolari cautele con cui la disciplina costituzionale tratta la materia. E' infatti fuor di dubbio che, pur accogliendolo, si pensasse ad un istituto del tutto eccezionale rispetto alla logica complessiva del sistema e di cui il legislatore ordinario avrebbe ben potuto calibrare gli aspetti destinati a produrre disfunzioni ingiustificate (8).

Ma tutto questo fin dove è possibile e cioè mantenendo ferma quella caratteristica di ``alterità'' rispetto al normale funzionamento del sistema rappresentativo che l'istituto possiede, in linea di principio.

Sotto questo profilo, se è legittima, e si può forse condividere, la tendenza a sottolineare la funzione di ``deterrente psicologico'' (e quindi di stimolo nei confronti della maggioranza parlamentare) che esso può svolgere, risulta assai meno legittimo limitare esclusivamente in quest'ambito la ragion d'essere del ``referendum'' e vanificare, o quanto meno ridurre ad una eventualità quasi puramente teorica, il verificarsi di altri e ben più incisivi effetti che ad esso sono connessi.

Non pare possibile, in altre parole, trasformare ciò che "può" essere una conseguenza soltanto eventuale (quella cioè di un intervento del legislatore tale da rispondere in modo più o meno soddisfacente alle esigenze sottese alla richiesta di ``referendum'') in una regola generale codificata, cui viene riconosciuto il ruolo di fungere in ogni caso da esito per così dire ``naturale'' (quasi obbligato) dell'intera vicenda.

Questo è al contrario l'impressione che si trae dall'esame delle proposte di modifica citate. Ma con ciò, nonostante le espresse affermazioni in questo senso, non si rafforza l'istituto in questione, ma se ne alterano a tal punto i connotati essenziali da stravolgerne completamente il significato. E tutto questo muovendo dall'ipotesi, per lo meno singolare, per cui la semplice richiesta di ``referendum''dovrebbe far scattare una sorta di necessaria autotutela preventiva della maggioranza parlamentare, impegnata solo ad evitare il ricorso alla consultazione popolare (magari smentendo o alterando il proprio operato) anziché a difendere davanti al corpo elettorale la bontà delle proprie scelte.

3. Queste considerazioni mi pare possano valere non solo in generale, ma anche con riferimento alla presente situazione politica. Proprio la rivelazione delle modifiche intervenute nel rapporto istituzionale classico tra maggioranza e opposizione (modifiche che non datano da oggi, ma che comunque oggi hanno trovato un assetto e un'articolazione che non ha riscontro nella precedente esperienza) convince del fatto che altro e ben diverso dovrebbe essere il terreno su cui muoversi per contrastare fenomeni di dissenso che possono disturbare, che forse peccano per eccesso, che possono mettere a repentaglio delicati equilibri, che forse domani potrebbero rimettere in discussione obiettivi faticosamente raggiunti, ma che tuttavia sono innegabilmente parte del nostro sistema politico e che non sempre riesce facile ridurre ad irrilevanti manifestazioni di isteria politica, o peggio, e come tali bisognosi soltanto di risposte istituzionali del tipo di quelle suggerite.

Sembra evidente, infatti, che una delle risposte all'interrogativo che si poneva all'inizio circa le cause che hanno prodotto l'iniziativa di un massiccio ricorso al referendum debba rintracciarsi proprio in questo mutato quadro politico istituzionale, in cui al progressivo superamento delle vecchie preclusioni a danno dei partiti di sinistra vi è in molti il timore che si accompagni un fenomeno di sempre maggiore emarginazione non solo dei partiti minori, ma di tutti quei gruppi e movimenti politici che già oggi si sentono estranei alla logica parlamentare. Senza voler esaurire in uno schematico accenno l'analisi di un fenomeno che richiederebbe ben altri approfondimenti, pare chiaro che un'interpretazione del nuovo assetto politico condotta per ora quasi esclusivamente in chiave difensiva o autocelebrativa, qual è quella che ne offrono alcuni, anche se non tutti, i partiti che ne sono i protagonisti, accompagnata da notevoli incertezze sugli approdi di una situazione siffatta, nonché da sintomi non sempre

confortanti circa i suoi esiti concreti (basti ricordare il clamoroso episodio della legge sulla disciplina dell'aborto e, per altri aspetti, la stessa vicenda della legge. n. 382, sul trasferimento dei poteri alle Regioni) non possa che portare ad un profondo senso di disagio e di disorientamento, di cui anche le richieste di ``referendum'' mirano, in qualche modo, a farsi interpreti. Ma se tutto questo corrisponde almeno in parte alla realtà, ad una realtà che tra l'altro vede la crescita di una progressiva consapevolezza della necessità di un diverso tipo di partecipazione politica, che non si esaurisca né nell'adesione ad un partito e tanto meno nella semplice delega elettorale, quella intrapresa sembra davvero una strada che rischia di spezzare (anziché rinsaldarlo) il rapporto tra cittadini e sistema rappresentativo, rafforzando invece di attenuare le perplessità che si avanzano sulle prospettive aperte dagli attuali equilibri politici, e di avviare le minoranze dissenzienti verso altri e ben più risch

iosi sentieri di lotta politica.

Non è certo il caso di incorrere in una eccessiva enfatizzazione degli effetti positivi del ricorso al ``referendum'', il quale mantiene comunque una funzione marginale rispetto al disegno istituzionale complessivo, ma esso pare, con tutti i suoi limiti, uno strumento che può oggi, e forse soprattutto oggi, risultare utile al fine di mantenere il confronto politico in un ambito di correttezza democratica.

Ciò presuppone però l'esistenza di una condizione fondamentale, ossia quella rappresentata dalla disponibilità e dalla capacità da parte dei partiti organizzati di assumersi la responsabilità e di subire le conseguenze della favorevole o sfavorevole valutazione politica connessa al risultato della consultazione popolare, e soprattutto dalla disponibilità e capacità dei medesimi di saper mostrare al corpo elettorale gli aspetti negativi e le disarmonie che la proposta, se accettata, introdurrebbe nel quadro degli interessi complessivi (9). Ma è appunto dell'esistenza di tale condizione che le proposte di legge esaminate inducono a dubitare. Se questo dubbio corrispondesse davvero alla realtà, credo che la sorte dell'istituto referendario sarebbe già segnata, al di là di ogni discussione su proposte di modifica dell'attuale disciplina.

NOTE

1. Cfr. "Atti Parlamentari", Camera dei deputati, n. 1578.

2. Vedi la proposta di legge costituzionale della DC ("Atti Parlamentari", Camera dei deputati, n. 1510), del PSDI ("Atti Parlamentari", Camera dei deputati, n. 1514), e dello stesso PCI ("Atti Parlamentari", Camera dei deputati, n. 1577).

3. Cfr. le proposte citate alla nota precedente, tutte concordi nel richiedere l'elevazione dal 500 mila a 1 milione del numero dei sottoscrittori la richiesta di ``referendum'' e, in più (proposta comunista) il raggiungimento della maggioranza assoluta perché venga approvata la proposta di abrogazione ovvero la legge di revisione costituzionale. Si noti, per inciso, che, una volta intrapresa la strada della revisione costituzionale, avrebbe forse suscitato minori perplessità e polemiche intervenire sul piano delle limitazioni previste dall'art. 75 2· c., la cui ``tassatività'' è stata del resto messa in dubbio da parte della dottrina.

4. Là dove si allude alla frequenza del ricorso al ``referendum'' cui si assiste oggi ``per iniziative di talune minoranze politiche''.

5. Nel senso che tali iniziative tendono non più a utilizzare l'istituto referendario per il raggiungimento di singoli e specifici obiettivi, bensì a farne strumento privilegiato per la realizzazione di un intero ``programma politico''. A questo l'istituto in parola mal si presta, se non a patto di gravi forzature del significato che il costituente ha inteso attribuirgli, stante la previsione per tale scopo di altri e diversi strumenti. Va per altro notato che questa osservazione, valida in linea di principio, quando cioè quegli altri e diversi strumenti (dibattito parlamentare, rapporto dialettico maggioranza-opposizione, ecc.) mantengono una loro funzionalità, va forse riconsiderata rispetto alle modificazioni che tali meccanismi possono subire (su ciò vedi oltre nel testo).

6. Vedi soprattutto il divieto di richiedere la consultazione popolare per leggi in vigore da meno di tre anni, il sistema di computo delle schede bianche, il blocco della consultazione per intervenuta modifica ``sostanziale'' della legge.

7. Secondo quanto osserva puntualmente Mortati, "Istituzioni di diritto pubblico", Padova, 1967, p. 707.

8. Vedi in proposito quanto ebbe ad affermare Ruini, a conclusione del dibattito sull'art. 75: ``l'espressione `modalità di attuazione' va intesa in senso lato. Se il popolo si pronunzia per l'abrogazione di una data legge ciò non vuole dire che vi sia una vacanza nell'ordinamento legislativo e che la materia relativa resti temporaneamente senza norme di legge. Potrà la legge sul `referendum stabilire che anche quando il popolo si sia pronunziato perché venga abrogata una data legge, questa rimanga in vigore per un determinato periodo nel quale il Parlamento dovrà emanare, se occorrono, le nuove norme regolatrici della materia...'' (cfr. "A.C." p. 1290). A parte il valore che si possa assegnare a tali affermazioni di interpretazione ``autentica'' del margine di discrezionalità che il costituente intese riservare al legislatore in sede di ``attuazione'', val la pena di rilevare come il senso che se ne ricava sembra essere appunto quello indicato nel testo.

9. Cfr. ancora Mortati, "op. cit." p. 708.

 
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