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Pizzorusso Alessandro - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (17) Presupposti per una ricostruzione storica del referendum: i referendum ``di stimolo'' e i ``referendum di rottura''
di Alessandro Pizzorusso

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

Il mio intervento riguarda esclusivamente il tema del referendum e, dato che in proposito è già stato egregiamente detto tutto quello che si poteva dire per illustrare gli aspetti negativi dei progetti di legge di cui si discute, ritengo opportuno, anziché aggiungere altre critiche a quelle che già sono state svolte e che mi paiono in gran parte meritevoli di consenso, cercare di riesaminare il problema secondo una impostazione che sia invece orientata in senso ricostruttivo.

A questo fine mi sembra che sia importante partire dall'esame dei precedenti della vicenda attualmente in corso in Italia, i quali sono in realtà assai poco numerosi, anche se allarghiamo la nostra osservazione alle esperienze straniere. Per quanto riguarda la storia italiana, il panorama comprende soltanto il referendum del 2 giugno 1946 e quello del 12 maggio 1974, mentre nessun rapporto hanno con la situazione attuale i plebisciti risorgimentali. Per quanto riguarda la Francia, abbiamo i due referendum costituzionali del 1946 e quelli gollisti, mentre anche qui sembra inutile risalire più indietro.

Vi sono poi i referendum inglese e norvegese sull'adesione alla Comunità europea, i quali hanno anche'essi caratteristiche distinte che in certa misura li avvicinano ai referendum di ``autodecisione'' quali si sono avuti nella Saar, nella Slesia ed in altre parti d'Europa e del mondo. Caratteristiche molto particolari hanno altresì i referendum svizzeri. Vi sono infine i referendum tedeschi del periodo di Weimar, che sono probabilmente i meno noti, nonostante il revival d'interesse che si è avuto in questi ultimi tempi per per tutto ciò che riguarda quel periodo della storia tedesca. In considerazione di ciò mi pare che le vicende di fatto relative a questi ultimi non possano essere date per note e ne ricorderò le linee essenziali.

Bisogna dire innanzi tutto che non si trattava di referendum abrogativi, bensì di progetti di legge d'iniziativa popolare, destinati a tradursi in referendum (di approvazione) qualora il Reichstag non li avesse approvati. Tuttavia, questo motivo di differenziazione rispetto ai referendum italiani dei quali attualmente si discute non mi sembra che abbia grande rilievo.

Precisamente, l'art. 73 della Costituzione di Weimar e la relativa legge di attuazione del 1921 prevedevano due fasi, la prima delle quali comprendeva una raccolta di sottoscrizioni su una proposta di legge redatta in articoli e perché la proposta divenisse operante come tale occorreva che le sottoscrizioni raggiungessero un numero pari al decimo degli elettori, cioè, tenuto conto della popolazione della Germania di quel periodo, a circa quattro milioni.

Superata questa fase la proposta veniva sottoposta al Reichstag che doveva pronunciarsi su di essa: se l'accettava, essa diveniva legge e non c'era altro da fare; se la respingeva, si procedeva alla consultazione popolare vera e propria e per l'approvazione della proposta occorreva il voto favorevole della maggioranza assoluta degli elettori, pari a circa ventuno milioni di tedeschi. Le astensioni contavano perciò come voti negativi.

A quanto mi risulta i casi di applicazione di queste disposizioni furono tre, due relativi all'intero Reich, uno al Land prussiano, che era di gran lunga il maggiore. Il primo si concluse con la votazione del 26 giungo 1926 e riguardò il problema degli indennizzi che, in base al diritto vigente, avrebbero dovuto essere versati dai Länder agli ex-sovrani per i beni ad essi espropriati dopo il 1918 (1). In proposito era sorto un ampio dibattito, anche perché non era chiaro quali beni dovessero essere considerati proprietà privata dei vari principi e quali proprietà pubblica. Per l'affermazione del principio dell'espropriazione senza indennizzo fu avanzata una proposta di iniziativa popolare da parte del KPD (il cui seguito elettorale era allora di circa due milioni di voti), il quale riuscì a coinvolgere in essa anche la SPD. Nella prima fase la proposta raccolse 12,5 milioni di sottoscrizioni; respinta dal Reichstag il 6 maggio 1926, fu sottoposta a votazione popolare e si risolse in un insuccesso nonostante

che essa raccogliesse circa 15 milioni di voti (cioè circa 5 milioni di voti in più rispetto al seguito ottenuto dai comunisti e socialisti insieme nelle ultime elezioni). L'esito del referendum chiuse la discussione sul problema degli indennizzi ed i governi dei Länder dovettero raggiungere onerose transazioni con gli ex-principi.

Il secondo referendum si svolse il 22 dicembre 1929 ed è probabilmente il più famoso (2): esso fu promosso contro il piano Young che doveva fornire alla Germania aiuti economici che le consentissero, tra l'altro, di far fronte agli oneri derivanti dall'obbligo di pagare le riparazioni stabilite dal trattato di Versailles. Il capo del partito tedesco-nazionale, Hugenberg, costituì un comitato per il referendum contro il piano Young al quale aderì la potente organizzazione combattentistica Stahlhelm (della quale era membro onorario lo stesso Presidente del Reich, Hindenburg) e nel quale fu ammesso anche Adolf Hitler, fino a quel momento generalmente considerato come esponente di un gruppuscolo di disperati.

La proposta consisteva in pochi articoli, il primo dei quali faceva obbligo al governo di informare immediatamente in forma solenne le Potenze straniere che il riconoscimento della responsabilità della Germania per lo scatenamento della prima guerra mondiale era da considerare in contrasto con la verità storica, poggiava su false premesse e non era vincolante secondo il diritto internazionale. Il secondo articolo impegnava il Governo ad adoperarsi per ottenere l'abolizione del riconoscimento della Kriegsschuld contenuto nell'art. 231 del trattato di Versailles. Ma il più qualificante, se così si può dire, era l'art. 4 il quale comminava pene detentive non inferiori a due anni per qualunque cancelliere, ministro o loro plenipotenziario, i quali assumessero impegni internazionali comunque fondati sulla Kriegsschuld.

Questo delirante progetto, cui era stato attribuito il nome di Freiheitsgesetz (legge della libertà) raccolse nella fase preliminare 4.135.000 adesioni, pari al 10,02%, ma davanti al Reichstag fu respinto col voto contrario non solo di tutti i partiti costituzionali, ma persino di una parte dei tedesco-nazionali. Si rese così necessaria la sottoposizione agli elettori, nel corso della quale si ebbe un colpo di scena quando il presidente della Reichsbank, Schacht (poi ministro di Hitler), con improvviso voltafaccia, si dichiarò a favore della proposta e contro il piano Young alla cui elaborazione aveva lui stesso collaborato. Il referendum non raggiunse lo scopo, ma una proposta di questo genere raccolse 5,8 milioni di voti. Il terzo esempio è costituito dal referendum del 9 agosto 1931 svoltosi nell'ambito del Land Prussia su una proposta della destra tendente a sciogliere il Landtag, cioè il parlamento regionale controllato dalla SPD, che costituiva l'ultimo argine contro l'avanzata dei nazisti (3). Questo

referendum fu proposto e sostenuto dalla Stahlhelm, dai nazisti e dal KPD, il quale seguiva allora le direttive della III Internazionale secondo le quali i socialdemocratici (più che i nazisti) dovevano essere considerati come i veri nemici del popolo. Anche in questo caso la proposta fallì pur avendo conseguito ben 6 milioni di adesioni nella prima fase e nella seconda 9,7 milioni di voti pari al 37% dell'elettorato prussiano.

Tenuti presenti questi esempi, e gli altri che ho ricordato all'inizio, mi pare che un tentativo di classificazione dei vari casi di impiego del referendum possa cominciare col distinguere quelli nei quali viene proposta agli elettori un'alternativa effettiva, per cui realmente le forze politiche demandano al popolo la decisione su una specifica questione, come mi pare sia avvenuto in occasione del referendum italiano del 2 giugno 1946, della maggior parte dei referendum svizzeri, del referendum inglese, di quello norvegese, e nella maggior parte dei referendum di ``autodecisione'' di questi ultimi decenni, da quelli che si presentano come referendum a tesi, nel senso che si propone agli elettori di adottare una determinata presa di posizione formulata dai promotori, intorno alla quale si cerca di raccogliere consensi.

Questa seconda ipotesi mi pare che vada suddistinta a sua volta in due sub-ipotesi a seconda che il referendum ``a tesi'' sia promosso dalla maggioranza (o da chi comunque esercita il potere) o sia invece promosso da una minoranza (o da un gruppo che sia comunque escluso dal potere). La prima alternativa mi pare chiaramente realizzata dai referendum gollisti mediante i quali il capo carismatico chiedeva agli elettori di ratificare le scelte da lui precostituite senza lasciare loro in realtà alcun potere di decisione effettiva.

Invece i referendum ``di minoranza'' non hanno affatto tale funzione di conferma di un consenso presunto, ma tendono invece a creare intorno ad un certo progetto un consenso che ancora non esiste o quanto meno non è sicuro che esista.

Questi referendum possono a loro volta essere ulteriormente distinti in due gruppi, il primo dei quali comprende i referendum che potremmo chiamare ``di stimolo'' i quali tendono a dar avvio ad un processo politico nel corso del quale raccogliere gradualmente, intorno ad un'iniziativa inizialmente minoritaria, tante adesioni da renderla maggioritaria. Direi che questa ipotesi si sia verificata nel caso del referendum promosso dal KPD sulla questione degli indennizzi agli ex-sovrani, nella quale i comunisti riuscirono a coinvolgere i socialisti e poi anche altri, pur senza arrivare però a formare una maggioranza. Di referendum di stimolo si potrebbe parlare, a mio parere, anche con riferimento a quello del 12 maggio 1974 che fu promosso per abolire il divorzio da un circoscritto gruppo di cattolici integralisti, i quali riuscirono a coinvolgere la Democrazia cristiana ed altre forze sociali senza tuttavia raggiungere la maggioranza.

A questi referendum di stimolo mi pare si possano contrapporre i referendum ``di rottura''(4), principale esempio dei quali mi pare costituito dal referendum tedesco contro il piano Young, che cercava di raccogliere consensi intorno ad una posizione estremistica di attacco alla democrazia weimariana nelle persone dei suoi esponenti, nei collegamenti internazionali su cui si reggeva, ecc.

Ora, a me pare che la differenza principale che esiste tra i referendum di stimolo ed i referendum di rottura consista principalmente in ciò che nel primo caso i promotori si preoccupano, oltre che di conseguire il risultato ultimo, cioè la vittoria nel referendum, anche delle eventuali conseguenze negative dell'eventuale insuccesso della loro iniziativa, mentre nel caso del referendum di rottura l'obiettivo di chi propone il referendum consiste nella creazione di un certo movimento di opinione, mentre la vittoria nel referendum è relativamente indifferente.

Gli esempi sopra indicati dimostrano difatti come nei casi dei referendum di stimolo, nonostante l'acquisizione di un consenso relativamente cospicuo, il risultato negativo sia stato politicamente disastroso, sia per i promotori, sia e soprattutto per le grosse forze politiche (la SPD nel 1926, la DC nel 1974) che si erano lasciate coinvolgere dai primi, e come invece un risultato molto più modesto sia qualificabile come positivo per i promotori, dal punto di vista politico, quando parte da posizioni di rottura, come fu per la destra tedesca, e soprattutto per i nazisti, quello del 1929.

Sulla base di questo tentativo di classificazione si pone il problema di valutare a quale di queste categorie appartengano i referendum di cui ci occupiamo qui. Indubbiamente le opinioni in proposito possono essere assai diverse e sarebbe anzi interessante fare un sondaggio, ad esempio, fra i presenti. Poiché tuttavia non c'è tempo per farlo, vi dirò intanto quale è la mia opinione: a me pare innanzi tutto che alla nozione di referendum di rottura sia riconducibile il referendum sulla legge istitutiva del finanziamento dei partiti, il quale attacca alla base il sistema democratico attualmente operante in Italia e che ha nei partiti una struttura fondamentale. Ritengo invece riconducibili alla nozione di referendum di stimolo tutti gli altri, salvo alcuni problemi di diverso genere che possono porsi in rapporto a taluno di essi.

Questa, come vi dicevo, è un'opinione che non è possibile qui motivare in modo adeguato. Su di essa tuttavia si può fondare un'ulteriore considerazione, ove sia posta in relazione col problema dell'ammissibilità o dell'inammissibilità dei referendum di rottura in base al nostro ordinamento costituzionale.

In proposito la tesi dell'inammissibilità mi pare agevolmente sostenibile fondandola su due argomenti desunti dal testo della Costituzione e da un'interpretazione che esso comunemente riceve. Il primo argomento si fonda sulla considerazione che secondo un'opinione sostanzialmente pacifica fra i costituzionalisti, il referendum abrogativo non può avere come oggetto norme costituzionali. Da ciò mi sembra facile dedurre che questo strumento non può essere legittimamente impiegato per attaccare il sistema costituzionale nel suo complesso o nei suoi istituti fondamentali. Il secondo argomento si fonda sul testo dell'art. 75 della Costituzione, che, come è noto, contiene talune limitazioni espresse alla proponibilità del referendum. Voi ben sapete come all'epoca del referendum sul divorzio sia nata intorno a questo testo una discussione tra coloro secondo i quali queste limitazioni dovrebbero essere considerate tassative e coloro che ritenevano invece che ad esse dovessero affiancarsene altre dedotte implicitament

e dal testo della Costituzione. Questa seconda opinione, sulla quale si fondò tra l'altro il progetto di legge Scalfari del 1972, può dirsi attualmente prevalente fra gli studiosi (5).

Ora, se si accetta questa impostazione, come mi pare debba accettarsi, non vi è dubbio che il referendum sulla legge sul finanziamento dei partiti risulti di dubbia ammissibilità, in quanto mi pare evidente che tale legge rappresenta una forma di attuazione dell'art. 49 della Costituzione e poiché, d'altronde, il referendum proposto non tende a modificare questa legge, ma si rivolge contro il principio stesso del finanziamento dei partiti. Ora a me pare che il finanziamento dei partiti costituisca uno svolgimento del tutto legittimo ed anzi doveroso dell'art. 49 della Costituzione, anche se si può indubbiamente discutere sui modi in cui esso è stato realizzato.

Per quanto riguarda invece gli altri referendum, a me pare che almeno sotto questo punto di vista essi siano ammissibili e vadano sostenuti, senza peraltro rinunciare "a priori" alla possibilità di conseguire risultati analoghi in sede parlamentare e soprattutto senza trascurare la gravità dei rischi che possono essere connessi al loro eventuale insuccesso. E questa mi pare che sia una prospettiva della quale tutti debbano darsi carico tenendo presente che il rischio connesso a questa situazione non è certamente quello del vuoto legislativo che si creerebbe in caso di eventuale esito positivo del referendum (che non rappresenterebbe un problema, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista giuridico), bensì è quello connesso all'eventualità che un insuccesso di questi referendum possa tradursi in una sconfitta per la sinistra considerata nel suo complesso.

Fatte queste considerazioni a me pare di dover aggiungere ancora poche osservazioni per notare come la legge del 1970 risulti fondamentalmente inadeguata per il fatto di non aver in alcun modo previsto la necessità di stabilire degli strumenti di raccordo fra la procedura referendaria e la procedura parlamentare. E che questo inconveniente la legge attualmente vigente lo presenti, mi pare dimostrato dall'esperienza di questo primo periodo di attuazione, durante il quale, proprio perché la legge non conteneva adeguati strumenti di raccordo, si è cercato di usare come tali disposizioni che non erano state certamente concepite in vista di questo tipo di utilizzazione, come l'art. 39 sull'abrogazione della legge sottoposta a referendum o come la sospensione del referendum conseguente allo scioglimento delle Camere.

In questa situazione, mi pare che non sia affatto ingiustificato proporsi il problema di quali possano risultare idonei strumenti di raccordo fra procedura referendaria e procedura parlamentare, senza con questo necessariamente sposare la causa di coloro che si propongono di affossare i referendum ad ogni costo ed in ogni circostanza. Mi pare infatti che le forze politiche responsabili non possano non tener conto dei rischi connessi soprattutto ai referendum di rottura, ma talvolta anche ai referendum di stimolo, come gli esempi storici che ho riferito mi pare dimostrino. Senza con questo essere pregiudizialmente pro o contro i referendum, ma senza però essere neppure pregiudizialmente contro qualunque discussione sull'opportunità di essere pro o contro i referendum.

Partendo da questo punto di vista, le misure previste dai progetti di legge che qui sono stati esaminati appaiono in effetti gravemente carenti soprattutto nella parte in cui si presentano come misure dirette aprioristicamente contro il referendum, cioè contro qualunque referendum. Tale è il caso delle proposte di aumento del numero dei sottoscrittori, dato che non mi pare affatto giustificato introdurre questa sorta di scala mobile per cui all'aumento della popolazione dovrebbero aumentare tutta una serie di cifre previste dalla Costituzione. Lo stesso vale per l'aumento del numero dei presentatori, per la riduzione dei termini per la raccolta delle firme e per il differimento di tre anni dall'entrata in vigore della legge sottoposta a referendum (la quale ultima misura presupporrebbe che oggetto del referendum possano essere soltanto leggi contenenti norme astratte e generali e non anche leggi che esauriscano la loro funzione in periodo minore di tre anni).

Ancora peggiori sono poi le misure che non si presentano tanto dirette in generale contro il referendum, quanto specificamente dirette a far fallire i referendum, compresi quelli già proposti, come la previsione della maggioranza assoluta per l'approvazione delle proposte di abrogazione, quella sul computo delle schede bianche come voti negativi e quella sulla riduzione della durata delle operazioni di voto (le quali, in base al principio ``"tempus regit actum"'', si applicherebbero anche ai referendum in corso - quale che sia l'opinione dei redattori del progetto di legge - se diventassero legge in un momento in cui la procedura referendaria non sia ancora giunta alla fase della votazione).

Invece il problema che mi pare più difficile da risolvere e sul quale è forse opportuno soffermarsi un momento è quello concernente la determinazione delle eventuali misure di raccordo fra procedura referendaria e procedura parlamentare. I progetti in esame ci offrono innanzi tutto il rinvio presidenziale del referendum per sei mesi (cioè, praticamente, per un anno). A questo proposito sono emerse alcune perplessità, innanzi tutto perché non è chiaro se questo rinvio dovrebbe essere considerato come un atto presidenziale o un atto governativo o un atto duumvirale come si ritiene siano la nomina del presidente del consiglio e lo scioglimento delle Camere (6). Anche a me pare che non possa intendersi come un atto puramente presidenziale, ma che lo si dovrebbe configurare come un atto duumvirale o addirittura come un atto governativo, da adottare sempre sentiti i presidenti delle Camere. Inoltre mi pare che dovrebbe essere scritto esplicitamente nella legge quello che è detto soltanto nella relazione al progett

o, cioè che il rinvio potrebbe avvenire una sola volta. Estremamente ermetica mi sembra infine la disposizione che parla di sospensione della efficacia della legge, dato che il nostro ordinamento non prevede esplicitamente un istituto siffatto (7), mentre la sospensione deliberata mediante un'altra legge, che è indubbiamente possibile, dà luogo a problemi che non si discostano molto da quelli dell'abrogazione della legge e quindi sarebbe verosimilmente già ora riconducibile all'art. 39 della legge del 1970.

Senza soffermarmi ulteriormente su queste proposte, mi pare che un punto che dovrebbe essere per lo meno esaminato nel corso di questo dibattito sia quello concernente la possibilità di attribuire ai promotori del referendum un certo quale potere di disposizione nei confronti del referendum stesso. E' evidente che una prospettiva di questo genere presenta grossi inconvenienti. Mi pare però che essa non possa venir esclusa del tutto in un sistema costituzionale che impiega come strumento fondamentale l'istituto della fiducia e gli altri riconducibili alla nozione di responsabilità politica in generale. Si tratterebbe cioè di ricondurre a una forma di responsabilità politica il rapporto fra i promotori ed i firmatari del referendum. E come gli elettori dei deputati, dei senatori, dei consiglieri regionali, ecc., investono queste persone di poteri che si protraggono nel tempo, non vedo quale ostacolo assoluto impedisca di configurare i promotori dei referendum come rappresentanti dei sottoscrittori del referend

um stesso e di concepire quindi un loro potere di revoca della proposta di referendum o di concordare rinvii, ecc. A me pare che un problema di questo genere non debba essere completamente passato sotto silenzio, anche se mi rendo conto che la prospettiva ha tutta una serie di potenzialità negative che dovrebbero essere valutate attentamente.

Riassumendo queste osservazioni, a me apre che per quanto riguarda specificamente la parte attuale del problema, si dovrebbe innanzi tutto tener conto della differenza di qualità che esiste fra il referendum sul finanziamento dei partiti e gli altri. In secondo luogo, si dovrebbe tener conto del fatto che i referendum che appaiono ammissibili, in quanto riconducibili alla funzione di referendum di stimolo, abbiano come loro obbiettivo principale quello di realizzare modificazioni dell'ordinamento giuridico italiano capaci di armonizzarlo con i principi costituzionali e non già soltanto quello di agitare ad ogni costo problemi, anche qualora questo costo dovesse risultare particolarmente pesante per tutto il complesso delle prospettive di attuazione della Costituzione e di progresso sociale che la sinistra porta avanti in Italia da trent'anni a questa parte.

Per quanto riguarda in particolare i progetti di legge qui esaminati, a me pare che la maggior parte di questi progetti sia caduca e difettosa, come è stato qui largamente dimostrato, ma che non si debba però escludere nel modo più completo qualunque ipotetico ulteriore progetto che correggesse gli errori in essi contenuti (ed al tempo stesso le imperfezioni della legge 1970), realizzando in particolare adeguati strumenti di raccordo fra la procedura referendaria e la procedura parlamentare.

NOTE

1. E. Eyck, "Storia della Repubblica di Weimar", 1918-1933, trad. it., Einaudi, Torino, 1966, p. 415 ss.

2. Eyck, "Op. cit.", p. 563 ss.

3. Eyck, "Op. cit.", p. 633 ss.

4. Adoperando la terminologia coniata con riferimento al processo da J.M. Vergès, "Strategia del processo politico", trad. it., Einaudi, Torino, 1969, e su di esso, Pizzorusso, in "Quale giustizia", 1971, n. 11-12, p. 635 ss.

5. Mortati, "Istituzioni di diritto pubblico", Cedam, Padova, II, 1976, pp. 847-848.

6. Mortati, "Op. cit.", II, p. 661 ss.

7. Il che non vuol dire che l'istituto della sospensione della legge non sia configurabile in astratto: cfr. Pizzorusso, "Fonti del diritto", in "Commentario al codice civile Scialoja e Branca, sub" art. 2 dip. prel., Zanichelli, Bologna, 1977, p. 232.

 
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