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Mancini Federico - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (25) Libertà sindacale, riforma di polizia, Costituzione e sinistre
di Federico Mancini

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

Gustavo Zagrebelsky ha svolto un intervento molto bello e - aggiungerò per Neppi Modona - nient'affatto metafisico su un tema estraneo alle problematiche del referendum e dell'ordine pubblico: l'attacco che all'inizio di quest'anno la DC, il PCI e il PRI hanno portato all'indipendenza della Corte costituzionale, rea di avere più volte messo in difficoltà il Parlamento, stipandola di uomini certamente degni, ma noti soprattutto per essere vecchie volpi del mondo politico. Il suo esempio m'incoraggia a far uso di un altro scandaglio atto a misurare l'ampiezza della crisi in cui il dialogo tra DC e PCI rischia di gettare il modello di Stato disegnato dalla Costituzione. Lo forniscono le vicende che hanno di recente impresso una svolta al lungo e ormai frustrante braccio di ferro sulla configurazione del futuro sindacato di polizia.

Esaminerò brevemente questo tema soffermandomi sulle proposte formulate negli ultimi mesi dai due maggiori partiti. I democristiani, com'è noto, puntano alla formazione di una Federazione di polizia dotata di personalità giuridica pubblica e di rappresentanza esclusiva nei confronti degli addetti al settore. Una struttura del genere - essi affermano - esiste da tempo in Gran Bretagna; e l'implicazione, innegabilmente suggestiva, di questo richiamo è che non può considerarsi liberticida, o anche solo pericolosa, una soluzione sperimentata con generale soddisfazione nella terra classica del garantismo.

In realtà, il richiamo giuoca sull'ignoranza di coloro che intende rassicurare; è, insomma, un esempio abbastanza vistoso di disonestà intellettuale. Ciò almeno per tre ragioni che corrispondono ad altrettante differenze tra la situazione inglese e quella italiana. Sulla prima ragione non occorre spendere troppe parole. In Italia abbiamo una Costituzione rigida, mentre la Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta e organi a cui sia affidato il controllo sugli atti legislativi. Le garanzie dei cittadini inglesi sono nate "in the bosom of the judges" o, com'è il caso della libertà di associazione sindacale, sono state poste dal legislatore ordinario; da quest'ultimo, perciò, possono essere limitate o manipolate in misura assai più ampia di quanto sia consentito al nostro Parlamento.

In secondo luogo, i "chief constables", che svolgono funzioni per qualche aspetto analoghe a quelle dei nostri questori, sono nominati dagli amministratori locali e ad essi rispondono politicamente. La polizia inglese è, dunque, assai meno ``separate'' della nostra; assai meno disponibile - come provano le vicende di quel paese, almeno dopo lo sciopero generale del 1926 - a essere rivolta contro la società ogniqualvolta nella società si aggregano domande di benessere e di potere che i gruppi dominanti giudichino intollerabili. Se portare il sindacato nella polizia significa introdurvi le idee, i problemi, le tensioni del mondo che la circonda, sembra evidente che di un sindacato di polizia vi è meno bisogno in Inghilterra che in Italia.

Infine i democristiani tacciono sulle circostanze che presiedettero alla nascita della "Police Federation". Il movimento dei poliziotti inglesi si organizzò fin dal 1913 in un sindacato nazionale che i pubblici poteri tollerarono, senza mai esplicitamente riconoscerlo, per circa sei anni. Il suo scioglimento e la sua situazione, imposti per legge, con un organo tutto sommato più simile a un ordine o a un collegio professionale, ebbero luogo nel 1919 a seguito di una serie di scioperi che, in piena guerra mondiale, misero in crisi l'ordine pubblico a Londra e a Liverpool. Ma il movimento italiano non ha fatto nulla di tutto questo; ha dato prova, anzi, di una pazienza e di un lealismo costituzionale che alcuni osservatori giudicano addirittura eccessivi. Riservargli un trattamento che nel paese in cui fu escogitato ebbe valenze chiaramente punitive (e che, a quanto mi consta, i poliziotti inglesi cominciano oggi a contestare) sarebbe dunque privo di qualsiasi giustificazione.

Ma la sciamo stare questi raffronti e guardiamo alla proposta così com'è, nel quadro costituzionale e politico in cui è stata avanzata. Sulla sua illegittimità non possono sussistere dubbi. La Federazione democristiana - unica, parastatale, non legittimata a promuovere scioperi - sembra ispirarsi ai princìpi della legge 3 aprile 1926 con cui Alfredo Rocco trasformò il sindacato italiano da veicolo di una sanguigna lotta di classe in colonna portante del regime. Del sindacato di Rocco essa è, anzi, politicamente e giuridicamente più debole. Quello poteva almeno contrattare gli aspetti normativi ed economici del rapporto di lavoro; questa non lo può. Al tavolo contrattuale non siederanno i suoi rappresentanti; opereranno - e, per quanto è dato comprendere, in piena autonomia dalla struttura associativa - otto delegati eletti direttamente dal personale. Ci si può chiedere allora che cosa i proponenti abbiano avuto in mente quando hanno scritto la norma sulla Federazione: forse un circolo ricreativo, forse una p

alestra per lo più "jus murmurandi". Certo è che, progettandola, ai poliziotti essi hanno riconosciuto non la libertà sindacale, ma la libertà di crocchio.

Il risultato di quest'operazione, come ho detto, non potrebbe essere più scopertamente incostituzionale. I proponenti lo negano, osservando che i diritti di libertà sono passibili di limitazioni quando entrano in conflitto con interessi non meno degni di tutela: nel nostro caso il mantenimento dell'ordine pubblico e la neutralità degli apparati in cui si esprime la forza coercitiva dello Stato. Nulla da eccepire sul principio. Ma, per quanto riguarda il primo interesse, se è ragionevole richiamarlo a proposito dello sciopero (che peraltro è fuori questione dopo la rinuncia dei poliziotti a farvi ricorso), non si vede come possano comprometterlo l'esercizio della libertà d'associazione o la capacità contrattuale del sindacato. Forse che nei tredici paesi europei i cui agenti godono di tali diritti l'ordine è tutelato meno efficacemente che da noi?

Quanto poi al secondo interesse, basterebbe rilevare, se si avesse a che fare con interlocutori ragionevoli, che a preoccuparsene sono già stati i costituendi. Il 3· comma dell'art. 98 autorizza infatti il legislatore ordinario a limitare il diritto di iscriversi ai partiti per quattro categorie di pubblici dipendenti: i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero e, appunto, i funzionari e gli agenti di polizia. In questa vicenda, tuttavia, la ragionevolezza dei democristiani è messa a dura prova da esigenze ben più pressanti: sulla falsariga di una vecchia e criticatissima ordinanza del Consiglio di stato essi obiettano, perciò, che ``partiti'' equivale a ``forze politiche''; e che tra queste ultime, nella realtà italiana coi suoi collateralismi e le sue cinghie di trasmissione, devono certamente annoverarsi i sindacati. Ora io mi domando se sia possibile immiserire più di così il tema grande e a volte drammatico dei rapporti tra le organizzazi

oni - le rosse, le bianche e persino le nere - della classe lavoratrice. Vincendo il disagio che si prova nel raccogliere una sfida tanto rozza, osserverò comunque che sul terreno del diritto la tesi democristiana è insostenibile. I sindacati sono certamente soggetti del sistema politico; tra il sindacale e il politico, in altre parole, non esiste frattura o soluzione di continuo, nella realtà italiana come in quella di ogni altro paese industrialmente avanzato. Ma questa constatazione, addirittura banale, non esclude affatto che la linea divisoria tra il sindacale e il partitico resti tracciata con forza. E ciò non tanto perché il partito ha una vocazione al potere totale, mentre il sindacato mira all'esercizio di un potere particolare, che è una valutazione non sempre confermata dai fatti; ma perché l'ordinamento - e in primo luogo la Carta fondamentale - mette a disposizione dei due aggregati strumenti diversi che incidono, divaricandoli profondamente, sui loro modi d'operare.

Di quali strumenti si tratta è ben noto: da un lato, una azione di autotutela diretta da parete dei lavoratori nelle forme della contrattazione (art. 39), dello sciopero (art. 40) e del contributo alla gestione alla gestione delle aziende (art. 46); dall'altro, un'attività che si esercita sul piano elettorale, sul piano parlamentare e, in genere, nei canali della rappresentanza politica. Ora, scrivendo il 3· comma dell'art. 98, i costituenti ritennero con tutta evidenza che il primo ordine di strumenti è meno del secondo suscettibile di compromettere i valori - imparzialità, riserbo ecc. - a cui gli uomini di certe istituzioni devono adeguare la loro condotta. Per questo giudizio li possiamo criticare; quello che non possiamo è attribuire loro un giudizio diverso, far dire loro più di quanto abbiano affermato. In uno Stato democratico - dovremo ricordare alla DC - le limitazioni alle libertà politiche e civili sono di regola tassative.

Passiamo ora alla proposta del PCI o, meglio, alla proposta che un autorevole parlamentare comunista, il senatore Pecchioli, ha formulato rispondendo ale domande del direttore di "Nuova polizia" (n. 9, p. 6). Pecchioli - mi sembra- cerca di quadrare il cerchio concedendo alla DC l'essenza di quel che domanda (un organismo autonomo e unico per l'intera categoria) senza sacrificare la linea sin qui sostenuta dalla sinistra (piena libertà d'organizzazione). Agli agenti sarebbe riconosciuto il diritto di formare quante associazioni vogliono e poi di federarle alle tre maggiori centrali, di legarle alla Cisnal o di mantenerle autonome. Ma tali associazioni dovrebbero dar vita a una rappresentanza unitaria composta in proporzione degli iscritti; e abilitato a trattare con il Governo sarebbe proprio questo supersindacato.

Che dire di tutto ciò? Se non mi sbaglio, la proposta Pecchioli non fa che rimettere in circolo, pur senza postulare l'uso di strumenti legislativi, una norma inattuata della Costituzione: l'art. 39, 4· comma, che prevede appunto un organo di coordinamento alla cui formazione concorrano tutti i sindacati secondo la loro consistenza numerica. Come tale, e diversamente dal progetto democristiano che è in netto contrasto col 1· comma di quell'articolo (``l'organizzazione sindacale è libera''), la sua correttezza formale è fuori discussione. Forma e sostanza, tuttavia, possono divergere; ed è questo, temo, il nostro caso.

Vediamo perché. La rappresentazione unitaria - sia realizzata per legge o, come Pecchioli suggerisce, su base volontaria - implica necessariamente numerosi vincoli alla libertà e all'attività dei sindacati: per esempio, una serie di controlli sul numero e sulle qualità personali degli iscritti o il divieto di dare l'ostracismo alle associazioni meno rappresentative e scopertamente fasciste escludendone dal processo contrattuale. Ma - ecco il punto - nell'ottica dell'art. 39 questi limiti non sono fine a se stessi. Al contrario, i costituenti li concepirono come garanzie per l'accesso a un potere di grande rilievo istituzionale e, all'epoca in cui la Carta fu scritta, di notevole portata pratica: quello di concludere contratti collettivi "erga omnes", cioè capaci d'imporsi anche ai datori di lavoro che, per non essere iscritti alle associazioni imprenditoriali stipulanti, non sarebbero tenuti secondo l'art. 1372 del codice civile a rispettare gli impegni da esse assunti.

Senonché i sindacati dei poliziotti non si troveranno di fronte a imprese scorrette o troppo ``marginali'' per poter sostenere il costo dei trattamenti economici e normativi minimi che i contratti stabiliscono. Come controparte essi avranno soltanto il Governo e in particolare il Ministero degli interni. Nei loro confronti, dunque, un problema di contrattazione "erga omnes" non può evidentemente porsi; e se ciò è vero, costringerli per legge o con pressioni politiche a confluire in un organismo unitario, coi lacci e i lacciuoli che tale onere comporta, sarebbe del tutto immotivato: una grossa scorrettezza o - dirà qualcuno - tradimento, tanto meno accettabile quanto più mascherato da ossequio, della volontà dei costituenti.

E non basta. Ormai da vent'anni l'art. 39 è solo un'arma spuntata nell'arsenale propagandistico della destra. A evocarlo sono Almirante - perché la sua attivazione legittimerebbe la Cisnal, oggi esclusa dalle trattative - e gli ultimi moicani del vetero-corporativismo cattolico: per esempio il senatore Fanfani che, con qualche giustificazione, vi scorge un riflesso delle formule (tipo ``libero sindacato nella professione organizzata'') a cui si affidò la fama non imperitura dei codici di Friburgo e di Malines. Che lo rilancino i comunisti è dunque abbastanza grottesco. Peggio ancora, può attirare su di loro l'accusa di mirare all'ingabbiamento giuridico dei sindacati. Oggi nella polizia, domani (sarebbe comodo tagliare le unghie alla Fisafs o all'Anpac inquadrandole nelle reppresentanze unitarie delle ferrovie e del trasporto aereo!) in tutta l'area dei servizi pubblici essenziali.

Concludo. Alla trattativa della scorsa primavera sull'ordine pubblico la sinistra storica andò, pur senza renderla esplicita come avrebbe potuto e dovuto, con una strategia precisa: non chiudersi - perché il paese, allarmato dallo sviluppo del terrorismo e della delinquenza comune, non lo avrebbe capito - in una difesa ad oltranza dei diritti civili e accettare di conseguenza un parziale trasferimento di potere dalla magistratura alla polizia; ma allo stesso tempo ottenere una profonda riforma democratica della destinataria di questi poteri. Al centro della riforma - e in primo luogo a garanzia della sua effettività o, dirò meglio, della sua genuinità - avrebbe dovuto porsi la costituzione di un sindacato di poliziotti aderente alla Federazione Cgil-Cisl-Uil.

Confesso che questa strategia mi lascia perplesso. Dubito infatti che si possa democratizzare la polizia italiana, con la sua storia e le sue peculiari caratteristiche socio-politiche, mentre la si rende beneficiaria di statuti speciali, come si fece con la legge Reale, o la si dota, come si è fatto con l'accordo a sei di strumenti che le interpretazioni più benevole dichiarano al limite estremo della costituzionalità. Riconosco però che la linea del PCI e del PSI aveva una sua dignità e, scontato il ritardo dei due partiti nell'elaborazione di una politica criminale seria e capace d'imporsi all'opinione pubblica, un innegabile fondamento di ragionevolezza. Si tratta ora di evitare che anche quella linea salti; in altre parole che il compromesso di luglio si trasformi in una sconfitta secca e forse irrimediabile per la nostra democrazia. Né sarà facile riuscirvi dati i rapporti di forza in Parlamento e la tendenza dei partiti minori a sciogliere le loro primitive riserve in senso favorevole alla tesi democri

stiana o a orientarsi verso formule mediatorie, ma in pratica prossime a quelle dei Segni e dei Mazzola.

Tenendo conto di questi fattori proposi un mese fa ("Repubblica" del 14 settembre) di dare via libera alla costituzione del sindacato di polizia nell'àmbito della Federazione Cgil-Cisl-Uil senza attendere le decisioni del Parlamento. A un'iniziativa del genere - scrissi - non si frappongono ostacoli giuridici perché il decreto che vieta la sindacalizzazione dei poliziotti è stato tacitamente abrogato dalle leggi con cui l'Italia ratificò le numerose convenzioni internazionali che ai poliziotti riconoscono, se pure con qualche limite, il diritto di costituire sindacati. E - aggiunsi - essa spiazzerebbe la DC; in termini alberoniani, la scalzerebbe dalla posizione di chi può legittimare un ``movimento'' per costringerla in quella, assai meno comoda, di chi deve delegittimare un'``istituzione''.

La proposta, come qualcuno ricorderà, fu fatta propria dal coordinamento dei poliziotti democratici e da qualche esponente sindacale nella grande assemblea romana dello scorso 2 ottobre; ma di fronte alle durissime reazioni della DC e della stampa conservatrice, essa fu ritirata. Alla sinistra, perciò, non resta oggi che una strada: fare in modo che il dibattito parlamentare sulla riforma della polizia sia contestuale a quello sul disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico; e nello stesso tempo persuadere il paese che la battaglia per il riconoscimento del sindacato ha una posta altissima; che dal suo esito dipenderanno in larga misura la ``qualità'' del nostro Stato negli anni a venire e le stesse condizioni di un progresso verso forme più civili di convivenza.

Su questa strada PCI e PSI hanno ancora molte carte da giuocare. Imboccare scorciatoie o mobilitare le risorse dell'ingegneria istituzionale per la ricerca di transazioni destinate a spuntarsi sul muro delle garanzie che la Costituzione ha posto a difesa dei poliziotti avrebbe, invece, un solo effetto: minerebbe quel tanto di credibilità che alla sinistra storica rimane. E non solo agli occhi delle 70.000 guardie che hanno affidato le loro speranze di riscatto all'unità col movimento dei lavoratori.

 
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