di Gaetano PecorellaSOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.
("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)
Neppi Modona ha improntato il suo discorso ad un fermo, esplicito richiamo, nella lotta alla criminalità, alla "Realpolitik": abbandoniamo i discorsi da teorici del diritto - è stato l'invito - constatiamo la gravità dell'attacco alle istituzioni democratiche e comprimiamo talune libertà in nome dello stato di emergenza. E', nella sostanza, la tesi di Ugo Pecchioli: ``occorre sottolineare - è detto nel "Contemporaneo" ("Rinascita" '77, n. 38) - i limiti e anche i pericoli di un astratto ed esasperato "garantismo" che da alcune parti viene oggi riproposto. Sfugge ai portatori di questa istanza che il problema fondamentale è quello di un equilibrio fra diritti dei singoli e diritti della collettività in una società in trasformazione secondo valori sociali e morali ben diversi da quelli dei vecchi sistemi liberali''.
C'è forse, in queste parole, un equivoco sul concetto di "garantismo", che non vuole dire equilibrio tra diritti individuali ed esigenze sociali, a vantaggio dei primi, bensì inviolabilità di taluni diritti della persona, predeterminazione e tassatività dei limiti e questi diritti, giurisdizionalizzazione degli interventi dello Stato che possano tradursi in lesioni dei diritti stessi. Senonché, per cogliere con chiarezza il senso, la portata e anche i rischi di questo ``realismo'', per stabilire se la ``revisione'' del garantismo non sia anche scadimento delle libertà costituzionali, bisogna avere ben presente per quali aspetti sta mutando il volto della giustizia penale.
Prendiamo allora i due esempi più illuminanti, che ci consentono di capire l'insieme del fenomeno.
Il primo è il trattamento della libertà della persona sottoposta a procedimento penale. La drastica risoluzione della custodia preventiva, avutasi negli anni '70, aveva significato non soltanto l'attuazione degli artt. 13 e 27 della Costituzione, ma anche un giusto trasferimento dei costi delle disfunzioni giudiziarie dal cittadino allo Stato. Se la giustizia penale si fosse inceppata, le conseguenze avrebbero dovuto ricadere soltanto o soprattutto su di essa. Con le leggi ``illiberali'' dal 1974 la carcerazione preventiva ha raggiunto termini irragionevoli, essendo possibile oggi una custodia "ante processum" che arrivi a otto anni. C'è di più: è consentita una carcerazione preventiva che duri all'infinito, come nella ipotesi della legge cosiddetta anti Curcio, secondo cui i termini della custodia preventiva rimangono interrotti, tra l'altro, ``durante il tempo in cui il dibattito è sospeso o rinviato per legittimo impedimento dell'imputato ovvero a richiesta sua o del difensore o comunque per fatto a lui i
mputabile, ovvero per causa di forza maggiore che impedisca di formare i collegi giudicanti o di esercitare la difesa''. Con il che la responsabilità penale per il fatto altrui è riapparsa nel nostro ordinamento non più come pena, bensì - ed è ancora più incivile - come carcerazione prima della condanna.
Se si aggiunge il divieto - reintrodotto nel 1975 - della libertà provvisoria per non pochi reati, si ha il quadro di un ritorno al processo come accertamento della legittimità di una carcerazione già scontata, piuttosto che come legittimazione di una pena da scontare.
L'altro esempio da ricordare concerne i poteri di polizia.
Un taglio netto con il passato si era avuto con l'eliminazione dell'interrogatorio dell'arrestato o del fermato da parte di agenti o ufficiali di polizia giudiziaria: infatti, con questa innovazione mutato doveva ritenersi non tanto l'andamento di uno specifico atto istruttorio, quanto lo stesso ``sistema'' processuale, sia perché l'interrogatorio aveva perduto il carattere di ``fonte di prova'' per restare solo come ``mezzo di difesa'', sia perché l'abolizione dell'interrogatorio di polizia riportava a pubblici ministeri e giudici istruttori il controllo su tutta l'istruttoria, attribuendole natura affatto giurisdizionale - almeno nelle intenzioni -. Le ragioni della riforma andavano poi dalla necessità di protezione della incolumità fisica dell'arrestato, alla opportunità di prevenire l'``inquinamento'' delle prove con confessioni estorte.
Dal 1974 sono sopravvenute quelle misure che hanno dilatato i poteri della polizia giudiziaria, più di quanto consentisse lo stesso codice Rocco. Con l'estensione delle ipotesi di fermo giudiziario a tutti i reati per i quali la legge stabilisce una pena non inferiore nel massimo a sei ani, allorché vi siano "sufficienti" indizi; con la facoltà riconosciuta all'ufficiale di polizia giudiziaria di procedere "all'interrogatorio" delle persone arrestate e fermate, anche con la sola presenza del difensore di turno; con il ``procedimento privilegiato'', preveduto dagli artt. 27 e seguenti della legge 22 maggio 1975 n. 152, per gli ufficiali di polizia giudiziaria imputati di ``fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica''; con tutto ciò, sono stati saldati tre momenti che, assieme, potrebbero dar luogo a pericolosissimi arbitri, spettando al poliziotto la decisione di privare l'imputato della libertà, potendolo così interrogare lui stesso, avendo la sicurezza che
le accuse di coazione fisica passeranno al setaccio della Procura generale.
Modesta salvaguardia è, talora, l'obbligatorietà della presenza del difensore all'interrogatorio dell'arrestato o del fermato: fondato, infatti, è il timore di difensori di ufficio che siano interessati solo a una rapida conclusione dell'atto, se non addirittura disposti ad ``autorizzare'' lo svolgimento dell'interrogatorio pur in loro assenza. Accadrà anche che si formalizzi, davanti a un difensore poco attento, un interrogatorio già svolto in precedenza, senza le richieste garanzie.
L'aumento dei poteri di polizia, tra l'altro, ha trasferito l'attività di accertamento dei reati dalla giurisdizione al potere esecutivo. La polizia, cioè, trasmetterà al magistrato l'indagine praticamente già compiuta, e compiuta nella fase più delicata: il magistrato potrà limitarsi a controllare la validità formale degli atti di polizia, a esaminare se sussistevano i presupposti per il loro compimento. Si è tornati così alla subordinazione del magistrato al poliziotto, con l'estraneazione del primo dalle fonti di prova e con queste due perniciosissime conseguenze (ricordate da Galli): la prima è il rischio di un erroneo orientamento delle prime indagini, nel clima di concitazione che è loro proprio e di collegamenti della polizia giudiziaria a poteri estranei all'autorità giudiziaria se non addirittura con questa confliggenti; la seconda è il riflettersi di iniziali deviazioni su tutte le successive indagini, una volta affidate queste ad un giudice ormai condizionato.
Il prezzo che si rischia di pagare è assai alto, troppo alto perché si possa chinare la testa, rassegnati, ad un presunto ``realismo'' politico, che vorrebbe misurare l'accettabilità delle trasformazioni dello Stato in chiave ``utilitaristica''. Il prezzo è troppo alto, perché queste trasformazioni delle linee portanti del processo penale possano essere valutate ponendo sullo stesso piano le più differenti esigenze - quelle politiche, quelle pratiche, quelle costituzionali - per constatare poi se a lato dei giudizi negativi possano formularsi giudizi positivi, così da avere alla fine un bilancio complessivo, in attivo o passivo che sia. Il criterio-giuda deve essere un altro. Non possono confrontarsi, infatti, entità non omogenee come efficienza della giustizia e diritti dell'imputato, necessità di lotta alla criminalità a garanzie costituzionali. C'è, viceversa, una discriminazione iniziale: quella di ritenere una data legge rispondente o non rispondente ai principi costituzionali, intesi nella loro funzion
e di tutela di un ordine che vede al suo centro la persona umana. Solo nel caso affermativo, saremo autorizzati a scegliere quelle misure che siano le più efficaci efficaci per combattere la criminalità. Non è una posizione ``illuministica''. E' una scelta di campo: o stare nella Costituzione, o stare fuori dalla Costituzione.
Senonché, quand'anche ci si dovesse porre sul terreno della ragione di Stato, della bontà pratica delle riforme (fatte dal 1974 in poi) e di quelle in cantiere (dopo l'accordo a sei), si dovrebbe arrivare alla conclusione che esse sono state e sono inidonee a risolvere i problemi giudiziari e di lotta alla criminalità per cui erano state introdotte ed ora sono poste tra i punti degli accordi programmatici.
Cominciamo da un primo rilievo: gli effetti sul futuro processo penale. Sarebbe buona regola che i mutamenti del sistema politico-sociale fossero programmati secondo un piano di realizzazione, nel quale ciascuna fase fosse la premessa di quella successiva. Tra la legge delega da un lato, e le leggi di ``emergenza'', dall'altro, c'è, viceversa, incompatibilità. Basterebbe considerare che le stesse leggi ``eccezionali'' pongono se stesse fuori dalle linee della riforma del processo penale, con la disposizione di ``chiusura'' secondo cui le norme processuali in esse contenute ``valgono fino all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale''. Non si tratta, è evidente, di un avvertimento di ordine tecnico, dato che, a questi fini, sarebbe stato sufficiente l'art. 15 delle disposizioni sulle leggi in generale, per cui una nuova legge è da ritenersi abrogata anche quando una nuova legge ``regola l'intera materia già regolata dalla legge precedente''. L'indicazione è politica, e vuol significare che c'è,
nella legislazione in formazione, una ``deviazione'' che il futuro codice correggerà.
Ciò a parte, resta il fatto che il nuovo codice ci procedura penale tenderà ad un processo di tipo accusatorio; la legge delega lo dice come preambolo. Il processo accusatorio, però, ha come caratteristica essenziale che nessuna prova è formata dalla polizia (o, in genere, dale parti): la prova è indicata sì dalle parti, ma viene ad esistenza, giuridicamente, nel contraddittorio pubblico. La formazione della prova, cioè, è potere esclusivo e privilegiato del giudice. Ora, se si è creato un sistema in cui la prova è introdotta, già come tale, nel processo dalla polizia, e questa prova è ad esempio la confessione dell'imputato, è chiara la contraddizione di fondo rispetto al futuro codice.
Né è esatto che le riforme dell'8 agosto anticiperebbero il nuovo codice di procedura penale.
Rispetto alle nullità, la legge delega contiene espressamente l'indicazione del mantenimento delle nullità assolute: poiché le nullità assolute riguardano, nella situazione data per esistente dal legislatore delegato, i tre soggetti fondamentali del processo (il giudice, il pubblico ministero e l'imputato), e poiché nessuna distinzione è fatta nella delega tra le tre posizioni, nel momento in cui si è voluto escludere dalla insanabilità - con l'art. 6 della legge n. 534 - solo la violazione del diritto di difesa dell'imputato, è chiaro che ci si è posti fuori dall'ottica della legge delega.
Altrettanto macroscopiche sono le deviazioni della legge n. 534 rispetto alla legge delega, sul terreno della connessione tra procedimenti. Lodevole è la tendenza a snellire le procedure così da poterle definire, anche non unitariamente. Senonché, l'art. 2 ha addirittura capovolto il criterio del giudizio indiviso disponendo che : ``la connessione non produce effetti né sulla competenza, né ai fini della riunione rispetto ai procedimenti relativi a reati commessi da arrestati, detenuti o internati, ai reati per i quali l'imputato o gli imputati sono strati sorpresi in flagranza e ai reati per i quali la prova appare evidente. In questi casi si procede separatamente per gli altri reati e nei confronti degli altri imputati''. In tal modo, proprio per le situazioni che più lo avrebbero richiesto si è reso zoppicante, se non impossibile, il giudizio sulla personalità dell'imputato, che viceversa il punto 9) della legge delega avrebbe voluto che fosse ``effettivo'', tramite l'acquisizione, in ogni stato e grado d
el giudizio di merito e in contraddittorio, di elementi che consentano una compita conoscenza del soggetto.
Il rimedio escogitato - non tanto nell'interesse dell'imputato, quanto per attenuare gli effetti negativi della separazione dei giudizi sul sistema delle prove - è peggiore dei guasti provocati con l'art. 2: si è consentita, infatti, nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti di imputati dello stesso reato o di reati connessi, l'acquisizione e la lettura di atti dei procedimenti separati, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile. Si è così aperta la strada al rischio che un giudice (e persino un Pubblico ministero) possa controllare la inchiesta condotta da un altro giudice, semplicemente instaurando un procedimento connesso, e magari instaurandolo sulla base di un'accusa che risulterà poi senza consistenza. Il rischio è tutt'altro che teorico, dato che i documenti dei servizi segreti, ora resi pubblici, hanno dimostrato che in passato ci sono stati magistrati i quali non sono stati restii a dare al Sid consigli e informazioni su processi politici in corso presso altre sedi giudizi
arie.
Né, d'altronde, si è realizzato un congegno che assicurerà l'eliminazione dei trasferimenti, talora di comodo, dall'uno all'altro giudice di procedimenti che riguardano gravi fatti di eversione: il giudizio di ``evidenza'' della prova, che sta alla base del caso più generale di separazione dei processi, è molto soggettivo e, comunque, talmente discrezionale da giustificare tanto la richiesta di riunione da parte di un giudice, che ritenga sussistente la connessione perché la prova non è evidente, quanto il provvedimento di separazione da parte di altro giudice che consideri evidente la prova. E la Cassazione, giudice del conflitto, come potrà valutare, con obiettività, l'esistenza o meno di questo requisito?
Viceversa, la breccia aperta dalla legge dell'agosto nei confronti dell'indipendenza del giudice, anche sotto il profilo morale, rischia di diventare molto più cospicua: il disegno di legge governativo in materia di ordine pubblico non soltanto riconosce il potere di chiedere copie degli atti di altri procedimenti a tutti i giudici istruttori, pretori e pubblici ministeri, ma questa stessa facoltà attribuisce al Ministero per l'interno, sia pure limitatamente alla richiesta di informazione scritte. Il provvedimento di rigetto dovrà essere motivato: a che potrà servire questa motivazione (data la inoppugnabilità del provvedimento), se non a far conoscere al Ministro gli orientamenti del giudice? La questione della connessione va risolta, ma non va risolta né a danno del giudizio sulla personalità dell'imputato, né a danno dell'autonomia che deve avere il magistrato nel momento in cui conduce le indagini.
Rispetto alla strategia delle riforme, il primo bilancio delle leggi sull'ordine pubblico deve essere, dunque, fortemente critico. Gli apparati, le prassi e i costumi giudiziari, si stanno consolidando, sotto la spinta delle leggi eccezionali, secondo indirizzi che il nuovo codice di procedura penale dovrebbe contrastare. C'è da credere, però, che, innestandosi la riforma su un corpo incancrenito, le strutture esistenti gli faranno resistenza sino a piegare il nuovo alle vecchie realtà.
Un secondo rilievo. Il richiamo alla "Realpolitik" impone che ci si misuri su questa domanda: davvero le misure che nascono dall'accordo a sei, saranno efficaci nei confronti della criminalità?
Ci sono due dati obiettivi da osservare. Il primo è che, stando alle statistiche giudiziarie, le leggi eccezionali hanno dimostrato la loro pressoché assoluta inefficacia: infatti, né la legge Reale, né le leggi che l'hanno seguita, sono riuscite a modificare l'entità e la gravità dei fenomeni criminali, per combattere i quali erano state volute e giustificate.
Sono quasi cinquant'anni che abbiamo un sistema penale impostato sul criterio delle pene molto elevate, delle lunghe carcerazioni preventive e della limitazione dei diritti della difesa. Questo sistema non ha dato buoni frutti nello scontro con la criminalità. Sono poi intervenute alcune leggi che hanno peggiorato le caratteristiche del codice Rocco, non modificandone gli orientamenti portanti: prima tra tutte la legge Reale che si è dimostrata anch'essa arma spuntata contro la criminalità. Cionostante, in che direzione ci si muove ora? Testardamente ci si propone di irrigidire ulteriormente un insieme di meccanismi che nel loro complesso si sono rivelati inidonei a frenare la criminalità dilagante.
La strada percorsa, d'altronde, non poteva dare che questi risultati fallimentari. L'intensificarsi dei caratteri repressivi dell'ordinamento, lo ``sbirrismo'' come lo chiamava Gramsci, hanno un effetto contrario a quella che si potrebbe pensare: causano, cioè, un peggioramento, in quantità e in qualità, dei fatti criminosi.
Il livellamento, rispetto alla sanzione penale, di fatti di differente gravità - livellamento dovuto al calo che al di sopra di un tetto, anche non troppo elevato, tutte le sanzioni hanno la stessa afflittività -, gli effetti dell'aumento delle sanzioni sulla durata della custodia preventiva, il sentimento di ribellione che è provocato da carcerazioni troppo prolungate senza una sentenza definitiva, l'impressione - d'altra parte - di un giudizio troppo sommario, talora addirittura sbrigativo, che è determinata da non pochi processi per direttissima, la morte d'ogni speranza in chi ha da scontare carcerazioni lunghissime e in coloro che sono esclusi dalle misure alternative alla pena, sono tutti fattori che spingono l'autore di un crimine a tentare il tutto per tutto.
Faccio un esempio: quando si è aumentata la sanzione per il sequestro di persona sino a renderla non troppo dissimile da quella prevista per l'omicidio, si è costretto chi compie questo crimine a fare una scelta tra l'eliminazione dell'ostaggio, contando egli con ciò di farla franca, e la sua liberazione, correndo così maggiori pericoli di essere scoperto e di subire una pena che in pratica corrisponde a quella che gli verrebbe applicata in caso di omicidio. Poiché la criminalità non è altro che una forma d'impresa economica, la scelta tenderà ad essere nel senso del maggior profitto e del minor rischio.
C'è poi un errore che va smascherato: quello di credere che facendosi tacere gli scrupoli garantisti, riducendosi le garanzie dell'imputato, diverrebbe più agevole arrivare alla scoperta dei colpevoli, la persecuzione del delitto otterrebbe risultati migliori. E' vero, piuttosto, il contrario. Non bisogna dimenticare che, nell'epoca delle riforme ``garantiste'', molte innovazioni erano state introdotte proprio in funzione di gravi errori giudiziari che erano stati commessi per la mancanza di assistenza dell'imputato: così l'eliminazione dell'interrogatorio di polizia ebbe all'origine, tra l'altro, il caso Egidi che impressionò non soltanto perché un innocente era stato condannato a seguito di una confessione estorta con la violenza, ma anche e soprattutto perché questa stessa violenza aveva fatto sì che i veri colpevoli non fossero stati individuati. I diritti riconosciuti all'imputato di controllare, anche tramite il proprio difensore, ciò che fanno gli inquirenti, traggono sì causa diretta dalla necessità
di tutelare gli interessi del giudicando, ma nello stesso tempo, contribuendo anche l'imputato all'accertamento della verità, sono funzionalmente utilizzati dall'ordinamento per impedire che il colpevole, il colpevole in senso storico, resti impunito. Non c'è dubbio, infatti, che per ogni innocente in carcere, c'è un delinquente fuori.
In conclusione: la mancanza di garanzia potrà sì fare in modo di portare, più speditamente, in carcere qualcuno, ma questo non vuol dire che la lotta alla criminalità sia vincente, posto che proprio la mancanza di garanzie può condurre a colpire coloro che non sono gli effettivi responsabili.
Un terzo rilievo, sempre rispetto all'efficienza delle misure per l'ordine pubblico, ha per tema la loro ``razionalità'', e cioè la congruità dei mezzi ai fini. Il senso comune esclude detta congruità.
Si prenda l'art. 22 del progetto governativo, sugli atti preparatori, il quale autorizza, nel corso di operazioni di polizia volte alla prevenzione di reati, l'arresto provvisorio, da parte di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, di persone che, anche fuori dei casi tentativo, pongano in essere atti preparatori (anche non obiettivamente rilevanti!) di uno dei delitti previsti dagli articoli 253 (distruzione o sabotaggio di opere militari), 284 (insurrezione armata contro i poteri dello stato), 285 (devastazione, saccheggio e strage), 286 (guerra civile), 306 (banda armata), 419 bis (devastazione e saccheggio), 422 (strage), 428 (naufragio, sommersione e disastro aviatorio), 429 (danneggiamento seguito da naufragio), 430 (disastro ferroviario), 431 (pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento), 432 co. 1· (attentati alla sicurezza dei trasporti), 433 (attentati alla sicurezza degli impianti di energia elettrica e del gas, ovvero delle pubbliche comunicazioni), 435 (fabbricazione o detenzi
one di materie esplodenti), 438 (epidemia), 439 (avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), 575 (omicidio) 628, ultimo comma, n. 1 e 2 (rapina), 630 (sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione) del codice penale, o dagli artt. 1 e 2 co. 1·, della legge 20 giugno 52, n. 65, concernente la riorganizzazione del disciolto partito fascista, o dell'art. 75 della legge 22 dicembre 75, n. 685, concernente la disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, o dall'art. 1, co. 7·, della legge 4 marzo 76, n. 31, concernente disposizioni penali in materia di infrazioni valutarie.
C'è da chiedersi: si è mai verificato il caso che la polizia sia stata al corrente e abbia avuto le prove che si stava organizzando un sequestro di persona o una rapina e che sia rimasta a braccia conserte lasciando che il reato fosse portato a termine, che fosse consumato, perché prima di quel momento la legge gli impediva di intervenire? Soltanto se una situazione di tal fatta c'è stata, soltanto in questo caso l'arresto preparatorio può essere proposto come misura necessaria.
In realtà, non è concepibile, neppure in ipotesi, la conoscenza del compimento di atti preparatori, da parte della polizia, che non porti di per sé l'impedimento dell'esecuzione del reato nella fase in cui questo atto preparatorio diventa atto socialmente e giuridicamente rilevante perché pericoloso: quando, cioè, sotto gli occhi della polizia assume i caratteri del tentativo.
Il criterio primario - come dicevo all'inizio - rispetto al quale si deve esprimere un giudizio sulla fisionomia che le leggi per l'ordine pubblico stanno facendo assumere al processo penale, resta, tuttavia la Costituzione.
Le ragioni di critica, su questo terreno, potrebbero essere numerosissime. Intanto, l'intero sistema delle misure coercitive contraddice la Costituzione. Da un lato, mentre la custodia preventiva dovrebbe configurarsi come uno stato eccezionale e provvisorio, con le leggi attuali essa sta diventando una situazione pressoché normale e definitiva per l'imputato. Dall'altro, mentre i poteri di polizia in questo settore dovrebbero essere eccezionali e limitati ai casi di necessità ed urgenza, estendendosi, come si stanno estendendo, gli interventi della polizia, attraverso l'istituto degli atti preparatori, attraverso la dilatazione del fermo di polizia giudiziaria, la limitazione della libertà personale da parte della polizia è diventata un fatto del tutto ordinario: tant'è che, probabilmente nella maggioranza dei casi lo stato di detenzione ha inizio da un atto di polizia e non da un atto del magistrato.
Altrettanto pericoloso è l'attacco portato al principio di legalità, perché le misure di prevenzione stanno mutando il loro significato, in quanto non assumono più come riferimento un costume di vita, quello che si potrebbe chiamare un tipo di autore antisociale, bensì stanno diventando una misura da applicarsi anche a coloro che compiono il singolo atto, un atto cosiddetto preparatorio.
Con ciò si hanno due diritti paralleli, l'uno che fa perno sul principio di legalità e sulla prova, l'altro sulla discrezionalità e sul sospetto. Si hanno due sistemi penali paralleli, l'uno fa riferimento al reato e l'altro che fa riferimento all'atto preparatorio: il sistema che fa riferimento al reato porta alla pena e il sistema che fa riferimento all'atto preparatorio porta alla misura di prevenzione. Senonché il principio di legalità è dettato esclusivamente in ordine al sistema normativo che ha come cardini reato e pena.
Ma poi, per l'atto preparatorio, è possibile porsi un problema di atipicità? C'è chi, come Neppi Modona, è convinto che sì: con un po' di fantasia anche gli atti preparatori sarebbero assoggettabili alla garanzia della tassatività. Lo sforzo, tuttavia, mi sembra destinato a restare improduttivo. Nessun atto, in sé e per sé, può essere ritenuto un atto preparatorio tipico della commissione di un reato. Si è fatto il caso del ritrovamento di una mappa: in che circostanza una mappa potrebbe costituire un atto preparatorio? Dove? Se posseduta da chi? Si è fatto l'esempio dell'appostamento: cos'è l'appostamento? Stare in un luogo, ma a fare che? In relazione a chi e a cosa?
Il principio di legalità, invero, è incompatibile con il concetto di atto preparatorio, proprio perché l'atto preparatorio, non essendo univoco, è un atto qualunque, che chiunque può realizzare. Anche chi parla in pubblico, ad esempio, sta commettendo un atto preparatorio dell'istigazione a delinquere, perché durante il suo discorso potrebbe istigare l'uditorio a commettere un reato.
L'atto preparatorio non è soltanto in contraddizione con il principio di legalità: esso è anche il tramite con cui il progetto governativo si prefigge di portare un duro colpo al diritto di difesa. L'arrestato, perché ``sospetto'' di atti preparatori, può essere interrogato anche in assenza del difensore, purché questo sia stato nominato e sia stato avvertito: non importa che gli sia stato dato il tempo di intervenire, conta soltanto la formalità dell'avviso. La polizia, dunque, potrà interrogare, avendo la piena disponibilità fisica e psicologica dell'arrestato, che sarà considerato ``fonte di prova'': da chi, a quanto si sa, non si è reso responsabile di un reato, si cercherà di trarre elementi per costruirgli addosso un'accusa. Dall'interrogatorio come mezzo di difesa si sta passando all'interrogatorio come reperimento delle prove contro l'interrogato, che da sospettato potrà trasformarsi in imputato per le sue stesse ammissioni. Stiamo tornando all'idea che ha giustificato per tanti secoli, sul piano del
diritto, l'istituto della tortura.
Con il marchingegno degli atti preparatori anche la riservatezza, che pure ha rango costituzionale, sarà esposta alle più penetranti aggressioni, se saranno ammesse le cosiddette ``intercettazioni preventive'': chiunque, infatti, potrebbe ritrovarsi l'apparecchio telefonico sotto controllo, dato che il progetto governativo prevede che il Procuratore della repubblica possa autorizzare l'intercettazione di comunicazioni o conversazioni telefoniche nei confronti di persone gravemente indiziate del compimento di atti preparatori dei delitti di cui già si è ricordato l'elenco: ora, come si è detto, ogni atto può costituire una premessa, remota o prossima, di un delitto, talché ogni cittadino può diventare un sospettato, spiato nella sua intimità.
Sono, queste, tutte osservazioni che non sono nuove nelle ricorrenti critiche alle leggi sull'ordine pubblico, viste nella prospettiva costituzionale. Si è trascurato, però, di esaminare queste leggi alla luce di una disposizione che è, nel nostro sistema costituzionale, tra le più qualificanti: l'art. 3, secondo comma, il quale stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano "di fatto" la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. Questo principio si traduce almeno in quest'altro: che è dovere del legislatore non introdurre mai una legge che gravi in misura diversa sulla parte socialmente più debole. Viceversa, nelle leggi ``eccezionali'' e ancora più nel progetto governativo si configura una situazione di maggiore diseguaglianza per i sogetti che sono già diseguali: queste leggi, cioè, finiscono per ricadere più pesantemente sulle classi sociali o economicamente più deboli o minoritarie.
Può assumersi come primo esempio il giudizio direttissimo. Siamo tutti d'accordo che la celerità dei processi è un fatto importante; è noto, tuttavia, che il giudizio direttissimo richiede un impegno difensivo particolare, talché la carenza di difesa, che è normale per chi non abbia un difensore retribuito, diventa patologica nel momento in cui il processo è tutto concentrato nel rapido volgere del dibattimento: si ha, in questi casi, l'assoluta assenza della difesa tecnica. Se si pensa che il giudizio direttissimo il più delle volte colpisce proprio le classi sociali più deboli, è chiaro che esso finisce per rappresentare un meccanismo di rapido trasferimento degli appartenenti alle classi sociali più deboli dalla situazione di libero a quella di detenuto.
Anche per quanto riguarda le notificazioni non si può non considerare quali siano gli effetti dovuti alla legge dell'8 agosto 1977, n. 534, sulle classi più povere. Essa prevede che un soggetto, quando sia sottoposto a processo penale, debba eleggere domicilio. Se lo elegge in modo incompleto o impreciso, ovvero se cambiando domicilio non lo comunica al giudice, la notificazione sarà fatta in cancelleria. La comunicazione al giudice, tra l'altro, deve essere fatta con forme sacramentali, cioè deve essere effettuata in cancelleria, oppure mediante lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da altra persona autorizzata.
Rispetto alla mobilità sociale delle classi lavoratrici, soprattutto degli emigranti e dei lavoratori stagionali, c'è da chiedersi come si sia potuto pretendere che ad ogni spostamento si abbia una nuova comunicazione alla cancelleria, e se si sia valutato quanto sia più gravoso per questo tipo di classe sociale il doversi recare ogni volta dal notaio con la lettera raccomandata da autenticare. Chi ha una condizione sociale stabile, viceversa, ha sempre un complesso di beni e di persone che gli assicureranno la continuità delle informazioni che lo riguardano.
Quali sono le conseguenze? La notificazione in cancelleria è "tamquam non esset", perché nessuno può immaginarsi che qualcosa è stato depositato in cancelleria. Né l'avvertimento al difensore dell'imputato cambia le cose: proprio perché si tratta delle classi più deboli, il difensore sarà il più delle volte d'ufficio o comunque si preoccuperà molto poco degli interessi del proprio cliente.
Quanto meno negli accordi a sei si sarebbe dovuto indicare, come premessa di ogni riforma che incidesse sulla posizione dell'imputato, che prima fosse risolto il problema del difensore d'ufficio. Non era questione che coinvolgesse le grandi strategie politiche: introducendo norme come quelle ora esaminate, si sarebbe dovuto puntare i piedi opponendosi ad esse fino a quando non fosse esistita una difesa garantita nella stessa misura.
Le nullità e le loro sanatorie ripropongono le stesse perplessità. Il difensore deve far valere le nullità che si sono verificate in istruttoria all'inizio del dibattimento. Quando la nullità è assoluta, ci sono più giudici che possono rilevarla anche nell'inerzia della difesa; quando è assoluta, anche un difensore che sopravviene in un'altra fase del processo ha la possibilità di eccepirla: con la legge n. 534 le nullità - e, si badi bene, le nullità che attengono al diritto di difesa - non sono più rilevabili se non in quel momento particolare. Per il difensore d'ufficio spesso gli atti del processo sono sconosciuti nel momento in cui ha inizio il dibattimento, e anche se poi dovesse accorgersi delle nullità non potrebbe più rilevarle.
Le leggi d'emergenza, infine, non soltanto incidono in modo sperequato sulle classi più deboli, ma introducono a loro danno un meccanismo che potremmo chiamare di ``etichettamento'', di individuazione cioè di chi sono i devianti, attraverso due strumenti: il primo è quello dell'"etichettamento sociale", della indicazione di tutto un gruppo di persone che è meglio non frequentare, che è meglio non avere come interlocutori, perché sono considerati pericolosi e potrebbero essere fonte di preoccupazioni per chi abbia con loro rapporti; il secondo è quello dell'"etichettamento giuridico", che consiste in un procedimento per trasformare l'emarginato in delinquente.
Un esempio del primo tipo. L'art. 3 della legge 8 agosto 1977, n. 533 ha introdotto una figura nuova di sequestro, disponendo che, nel corso del procedimento per i reati concernenti le armi e gli esplosivi, nonché per quelli previsti dagli artt. 241, 285, 286 e 306 del codice penale e dalla legge 20 giugno 1952, n. 645, e successive modificazioni, l'autorità giudiziaria dispone sempre, con decreto motivato, il sequestro dell'immobile, che sia sede di enti, associazioni o gruppi, quando in tale sede siano rinvenuti armi da sparo, esplosivi o ordigni esplosivi o incendiari, ovvero quando l'immobile sia pertinente al reato. Nella flagranza del reato, gli ufficiali di pubblica sicurezza procedono allo steso modo. L'appartenenza a banda armata è accertamento spesso assai incerto, fondato com'è - nella prassi - anche sul possesso di documenti, volantini, indirizzi, ecc.; imprecise, d'altronde, sono le caratteristiche della cosiddetta banda armata; ancora più evanescente è il concetto di "pertinenza" al reato dell'
immobile, stante che in linguaggio civilistico tale è la cosa destinata in modo durevole a servizio (o ad ornamento) di un'altra e non è certo questo il caso: tutto ciò, a parte i rischi di arbitrii nei confronti di taluni movimenti politici, potrà far sì che i locatori preferiranno non dare ospitalità, ad esempio, ad un gruppo di studenti in relazione al fatto che un domani potrebbe aversi il sequestro dell'immobile, salvo poi una procedura non semplice per dimostrare la proprietà della cosa e, prevedibilmente, la sua non appartenenza all'associazione, ritenuta sovversiva.
Né la norma è legittimata dalla necessità di stroncare la criminalità fascista. Per cancellare l'eversione di destra dal nostro ordinamento esistono già le leggi: il fatto è che non sono mai state usate.
L'``etichettamento'' giuridico del deviante, invece, passa attraverso l'istituto degli atti preparatori: servendosi di questo concetto ripescato nella nomenclatura del tentativo ed un tempo usato per discriminare il lecito dall'illecito, si può fare dei cittadini appartenenti alle classi sociali economicamente inferiori, dei criminali "in itinere".
Si è talora sostenuto che l'atto preparatorio può essere definito autonomamente dagli altri momenti che costituiscono l'"iter criminis"; perché in qualche caso c'è un margine tra il pensiero, che progetta il fatto, e l'esecuzione, che realizza il delitto per atti che non sono "univoci" (pur essendo idonei) o che "non" sono "idonei" (pur essendo univoci). Senonché, univocità ed idoneità sono qualifiche che non possono andare mai disgiunte, dato che l'atto è idoneo in relazione ad un preciso fine che deve individuarsi in modo univoco e deve sussistere al momento del suo compimento, così come l'atto è univoco soltanto se sia dotato della specifica idoneità a realizzare l'uno piuttosto che l'altro risultato.
Così l'esempio di chi faccia la prova generale di un sequestro come di un atto non univoco, ma ciononostante idoneo, non è convincente: mancando l'attualità dell'esecuzione del sequestro, la "mise en scène" non è idonea a realizzare alcunché.
In realtà, l'atto preparatorio, per sua natura, non è mai né idoneo né univoco: diventa univoco, tuttavia, in relazione al soggetto che lo pone in essere. Qualunque atto, infatti, in sé e per sé potrebbe essere preparatorio o non preparatorio: è soltanto il soggetto che pone in essere quell'atto che porterà la polizia la polizia o il magistrato a definire un atto comune come atto preparatorio di un delitto.
Si retrocede così, nel processo di ``etichettamento'', ad una fase anteriore persino al sospetto, perché il sospetto nasce da una condotta di vita, mentre nella specie si considera un singolo atto: questo atto diviene sì ``preparatorio'' con riferimento a un soggetto che è sospetto, ma il sospetto qui non si fonda sui casi previsti dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, bensì potrebbe trarre causa anche dalle idee, dal comportamento, dalle scelte politiche dell'agente.
L'atto, in relazione al soggetto, assume, dunque, i caratteri della preordinazione di un delitto, perché risulta diretto, se si vuole, "obiettivamente", alla sua realizzazione: dico ``diretto obiettivamente'' nel senso che, in quanto commesso da un soggetto che - per quello che è - potrebbe commettere un reato, tale può essere giudicato sulla scorta di fatti esteriori. Il requisito dell'obiettività, da qualcuno richiesto, non aumenta, perciò, le garanzie del perseguito, stante che è sempre la valutazione del soggetto, non agganciata tra l'altro a criteri tassativi, a dar luogo a un giudizio sull'atto, come preparatorio o non.
L'atto preparatorio è sanzionato con le misure di prevenzione; le misure di prevenzione, tuttavia, sono l'anticamera della carriera criminale. Infatti, il soggetto che abbia commesso un atto preparatorio, è sottoposto al soggiorno obbligato: è così definitivamente avviato alla criminalità, perché la rottura con il suo ambiente, con la sua vita, con il suo lavoro, la situazione in cui è posto anche economicamente, faranno sì che o scapperà dal soggiorno obbligato, commettendo un reato e quindi sarà ``criminalizzato'', oppure, quando avrà scontato la misura di prevenzione, sarà ormai un soggetto ai margini della società.
Di fronte all'"aut aut": garantismo o "Realpolitik", la risposta, al lume della Costituzione, può essere soltanto in un senso. Soltanto concludendo sino in fondo la battaglia per la conservazione di tutte le garanzie della persona, i responsabili dell'ordine pubblico saranno costretti a trovare soluzioni che siano sì efficienti, ma rispettino anche i diritti del cittadino: col che si torna al discorso sulla funzionalità delle strutture che è poi l'unica soluzione ``realistica'' dei problemi della criminalità.