di Angelo PanebiancoSOMMARIO: In ogni sistema politico si rischia che i gruppi di vertice dei partiti operino per il fine dei "rappresentanti", cioè per mantenersi il potere, e non per quello dei rappresentati. Con la burocratizzazione e l'acquisizione del controllo dello Stato i partiti gestiscono la società. L'occupazione dello Stato da parte dei partiti è alimentata dall'alleanza fra politici e dirigenti dell'economia. Quattro le risorse della partitocrazia: la burocrazia, la comunicazione, il carattere finanziario, la definizione di una "agenda politica". Da qui l'autonomia del politico dalla società. Anche la società italiana non è partecipante, ma con mere mobilitazioni politiche. Contro l'integralismo dei partiti il PR deve agire con i referendum e la rotazione ai vertici. Bisogna rivendicare una maggiore apertura dei canali di partecipazione politica.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Maggio 1978, n. 7)
La chiave interpretativa della vicenda italiana che qui presento è volutamente limitata. Non pretendo che essa sia l'unica chiave interpretativa possibile né che quello che sto per dire abbia il pregio della originalità. Al contrario ritengo di non avere fatto altro, in questa comunicazione, che un tentativo, necessariamente schematico e imperfetto, di dare un minimo di sistematicità e di coerenza, adattandole al caso italiano, a idee e sensibilità che stanno affiorando un po' ovunque, sia pure in settori ancora fortemente minoritari della sinistra europea.
La tesi principale di questo discorso è che l'involuzione e i fenomeni disgregativi della società italiano sono in larga misura il frutto di una "crisi di rappresentanza politica" sempre più vistosa e grave, a sua volta conseguenza di processi di burocratizzazione e di sclerosi che investono i partiti politici, della cristallizzazione al loro vertice di oligarchie più portate alla gestione che alla innovazione e quindi inadeguate a fronteggiare le esigenze di una società in mutamento. Questa tesi, ripeto, non è nuova né originale. E' nient'altro che, in forma aggiornata, la vecchia polemica contro la "partitocrazia", contro il potere dei gruppi dirigenti dei partiti. Quella vecchia polemica è stata a suo tempo riconosciuta come una polemica di destra. E lo era senza dubbio. Esprimeva infatti, in Italia ma un po' dovunque in Europa, sia pure in tempi e con modalità diverse, la insofferenza e a volte la rivolta contro l'affermazione dei partiti di massa. Il suo bersaglio erano organizzazioni politiche, in spec
ie quelle legate al movimento operaio, che con la loro attività di propaganda, indottrinamento e mobilitazione, portavano le classi subalterne all'interno della sfera politica. Le strappavano alla scelta cui erano in precedenza condannate fra apatia e rivolta sterile, le integravano per questa via nel sistema politico.
La polemica antipartitocratica aveva quindi allora il doppio carattere di ripulsa della società di massa che stava nascendo e di difesa del vecchio partito di notabili, rappresentante di ristretti interessi borghesi o aristocratici.
Si tratta quindi di vedere se gli sviluppi politici della società industriale autorizzano oggi a riprendere da una prospettiva opposta, mutandone il segno politico, quella vecchia polemica, se cioè questi sviluppi ci autorizzano ad affermare che gli attuali partiti, per la loro organizzazione interna e ancora di più per i rapporti che intrattengono con lo Stato e con la società civile, da strumento di democratizzazione della società quali erano in origine si sono trasformati essi stessi in un ostacolo serio all'ulteriore sviluppo della democrazia.
Il problema del partito
Possiamo cominciare con l'osservare che la sinistra, peraltro non solo italiana, sconta gravi ritardi culturali che decenni di rituale ripetizione di dogmi non consentono di superare di colpo. Oggi, come è noto, è letteralmente esplosa in Italia l'attenzione per i problemi delle istituzioni e non mancano elementi di svecchiamento della cultura politica della sinistra. E' persino accaduto che la domanda provocatoria che Bobbio ha lanciato due anni fa: "Esiste una dottrina marxista dello Stato?" sia stata accolta nel modo giusto: a parte qualche eccezione, si è riconosciuto che no, effettivamente, e contrariamente alle opinioni sbandierate in precedenza, il marxismo non possedeva una teoria dello Stato degna di questo nome e che quel poco che era rintracciabile nei sacri testi aveva, per i problemi dello stato contemporaneo, ben poco valore. Ma la sinistra, vorrei aggiungere, non mancava soltanto di una teoria dello Stato, di una teoria del funzionamento delle istituzioni. Mancava e manca tutt'ora di una "teor
ia della rappresentanza politica" che non può che essere, in un sistema politico democratico, soprattutto una teoria del partito, del partito come organizzazione e del partito nelle assemblee elettive, in generale del suo ruolo e delle sue funzioni nella società contemporanea.
Le resistenze culturali e psicologiche ma soprattutto politiche a una riflessione attenta e spregiudicata sul partito e in generale sui meccanismi della rappresentanza, sono indubbiamente molto forti dal momento che nessuna élite politica può accettare di buon grado che le basi del suo potere vengano smontate, analizzate e criticate.
Ricerche approfondite in questa direzione potrebbero, ad esempio, mettere in crisi quella ideologia dominante nella sinistra istituzionale e in particolare nel PCI e continuamente ribadita all'esterno da una buona parte dei suoi dirigenti e dei suoi intellettuali organici, secondo cui il partito rappresenta in ogni momento, e sottolineo in ogni momento, gli interessi, le aspirazioni e la volontà della classe operaia e dei gruppi sociali ad essa alleati, ne esprime in ogni atto, decisione o dichiarazione dei suoi dirigenti, la "volontà generale".
Senonché, come sa qualsiasi sociologo della organizzazione, non esiste organizzazione che raggiunti certi livelli di grandezza, di istituzionalizzazione e di divisione del lavoro interno, non cominci a sviluppare anche interessi propri, legati al "suo" funzionamento, agli equilibri più o meno instabili che si delineano al suo interno e che a un certo punto, nel caso dei partiti di massa, questi interessi non comincino essi stessi ad essere rappresentati nella loro politica quanto e a volte più degli interessi esterni. In altre parole non esiste partito di qualche dimensione sufficientemente insediato nella società e nel sistema politico che, oltre a rappresentare gli interessi della classe operaia, della borghesia, dei ceti medi e via enumerando, non rappresenti anche, in una certa misura, se stesso.
Ma il punto non è tanto questo: il punto è individuare quando e in che misura avviene - e naturalmente se avviene - che gli interessi legati al mantenimento o all'espansione della organizzazione, quindi della struttura "rappresentante" prevalgono sugli interessi dei "rappresentati", sulle loro domande e sulle finalità originarie o costitutive dell'organizzazione.
Come i lettori avranno capito si tratta della vecchia tesi di Roberto Michels sulla tendenza inerente alle organizzazioni alla "sostituzione dei fini". "Chi dice organizzazione - sostiene Michels nel suo studio classico dell'inizio del secolo sulla socialdemocrazia tedesca (1) - dice tendenza alla oligarchia" e l'oligarchia, lo strato dominante che si forma e si consolida al vertice del partito a poco a poco farà prevalere le esigenze della propria sopravvivenza sulle ragioni e gli interessi di chi dice di rappresentare.
Certo, la tesi che Michels ha riassunto nella "legge ferrea della oligarchia" è troppo rigida. L'esperienza storica dei sistemi di partito, e lo stesso panorama contemporaneo, mostrano anche modalità più complesse e più varie di distribuzione del potere all'interno dei partiti. Non sempre i partiti sono dominati da una compatta oligarchia di vertice. A volte la gestione del partito è il frutto di una competizione fra oligarchie concorrenti, altre volte di più complesse dislocazioni di potere nelle quali svolgono un ruolo strategico i leaders del livello intermedio, i quadri che legano la base del partito al suo vertice. Inoltre accanto e in opposizione alle tendenze inerenti alle organizzazioni complesse che spingono verso gli esiti descritti da Michels, possono operare a volte tendenze che ostacolano o rallentano il processo di sostituzione dei fini, tendenze che consentono il controllo dal basso da parte degli elettori o degli iscritti o di entrambi. Ciò che sembra tutt'ora valido della tesi di Michels è c
he la democrazia - in organizzazioni complesse quali sono i partiti di massa - è quasi sempre un mito e che ovunque sono gruppi molto ristretti a imporre tutte le decisioni cruciali.
E' significativo, ritengo, che fino ad oggi la sinistra abbia accuratamente evitato di fare i conti con una tradizione culturale, con un filone di ricerca che obbligherebbe in molti casi ad accettare conclusioni scomode.
E' chiaro che per parlare di partitocrazia o di regime partitocratico non è sufficiente constatare l'assenza di democrazia all'interno dei principali partiti, cioè l'esistenza di oligarchie al loro vertice. La tendenza dei partiti ad essere retti da gruppi ristretti è un fenomeno probabilmente universale. Non ne consegue che tutti i sistemi politici che si fondano sui partiti siano per ciò stesso partitocrazie. Perché questa espressione sia giustificata occorre l'azione congiunta di almeno altri due fattori.
In primo luogo occorre che non soltanto i partiti siano retti da gruppi ristretti che controllano il processo decisionale interno (prima condizione della "legge ferrea" di Michels) ma anche che si sia effettivamente verificato il fenomeno detto della "costituzione dei fini" (seconda condizione di quella legge), cioè che gli interessi legati alla stabilità dei vertici e al mantenimento e all'espansione dei principali partiti siano ormai prevalenti rispetto alle domande e alla volontà dei "rappresentati". Ciò accade quando il meccanismo classico su cui si regge un sistema democratico correttamente funzionante - il cosiddetto "meccanismo delle reazioni previste" per cui i leaders, per non perdere il potere si mantengono in sintonia con i desideri e la volontà dei propri elettori - funziona poco e male. Questo significa che la classe politica professionale che sta al vertice dei partiti controlla ormai con sicurezza alcune risorse strategiche (vedremo in seguito quali) che le consentono di ridurre al minimo la n
ecessità di rispondenza, di ricettività alle domande dei rappresentati. Anche se naturalmente la domanda non può essere totalmente ignorata - e viene infatti di tanto in tanto presa in considerazione soprattutto quando è espressa in forma intensa. E d'altra parte occorre ricordare che neppure i regimi dittatoriali possono permettersi di essere totalmente non ricettivi.
La seconda condizione che deve essere presente perché si possa parlare di partitocrazia è che i partiti siano diventati i più importanti centri di potere della società, cioè che altri gruppi, organizzazioni e istituzioni non spartiscano con i partiti, su basi paritetiche, quote rilevanti di potere politico.
Va da sé che le due condizioni sono intrecciate e si rafforzano a vicenda: il processo di sostituzione dei fini, che è possibile a sua volta se vengono neutralizzati i meccanismi di controllo dal basso, è nettamente agevolato dalla assenza di organizzazioni concorrenziali di tipo non partitico altrettanto potenti dei partiti (e i sindacati che pure in un certo momento della storia recente sembravano sul punto di assumere in Italia questa posizione concorrenziale, si sono dovuti riadattare a un ruolo sostanzialmente subalterno).
Professionismo politico e organizzazione
Al di là delle profonde differenze, tre processi, tra di loro intrecciati, che hanno accompagnato e scandito le tappe della industrializzazione, accomunano l'Italia agli altri paesi occidentali.
Il primo è la crescita, in larghe sfere della vita sociale, di grandi organizzazioni e la loro parallela burocratizzazione. Il secondo processo è consistito nella estensione del controllo dello Stato su settori sempre più ampi del sistema economico e sociale. Il terzo processo infine è stato l'emergere di una autonoma sfera politica per così dire la "emancipazione" di una società politica per opera dei partiti di massa e di un nuovo ceto sociale, quello dei professionisti della politica che ha quasi completamente rimpiazzato la vecchia figura del notabile.
Questi processi sono ovviamente collegati, ma qui li possiamo separare perché essi rispondono a stimoli sovrapposti ma diversi. I processi di burocratizzazione e di espansione dello Stato sono una risposta agli sviluppi economico-tecnologici, l'emancipazione di una sfera politica dominata da un ceto di professionisti con autonome risorse di potere è una risposta alle necessità di una democrazia di massa a suffragio universale.
Ciò che distingue il caso italiano dipende dal diverso grado e dalla diversa intensità con cui i tre processi - burocratizzazione, crescita delle funzioni dello Stato, autonomizzazione della sfera politico - partitica - si sono presentati rispetto ad altri paesi. Il punto che mi pare centrale è che l'aumento di autonomia della sfera politica dalla società civile ha assunto in Italia forme più nette e radicali.
Se nel caso italiano si può parlare di partitocrazia, di un potere incontrollato dei partiti, di un "potere discendente", come dice Bobbio, non riequilibrato da un sufficiente potere ascendente, dalla società civile ai partiti, ciò è perché il sistema italiano è stato interessato da un "doppio movimento" che si sviluppava contemporaneamente: mentre lo Stato si espandeva nella e sulla società civile, i partiti a loro volta "occupavano" lo Stato.
Il risultato è che i partiti - fino al 20 giugno 1976 la DC e i suoi alleati - acquistavano, per il tramite dello Stato, un controllo a maglie piuttosto strette sulla società civile mentre prima di quella data il PCI, escluso dalle zone "centrali" del potere, si ritagliava un proprio spazio ereditando e rafforzando la subcultura socialista. Qui io schematizzo, per ovvie ragioni di spazio, processi molto più complessi e mai lineari, ma se il caso italiano è tale, lo è anche, e forse soprattutto, in virtù di questa occupazione dell'apparato statale per la quale, come rilevava anni fa un osservatore francese, François Bourricaud, a uno Stato debole (perché occupato e frammentato) corrisponde un sistema dei partiti ove è massima la concentrazione del potere.
Tra i fattori che possono spiegare queste peculiarità della politica italiana mi limiterò a ricordarne tre. Innanzitutto, l'incapacità di una burocrazia, inefficiente e ricattabile, di resistere alla colonizzazione come hanno invece saputo fare altre ben più potenti caste burocratiche (come, ad esempio, quella francese). In secondo luogo - un argomento ormai si può dire classico ma non per questo meno valido - si possono sottolineare i guasti di una assenza prolungata di alternanza che ha gravemente indebolito quel meccanismo delle reazioni previste e che dispiega i suoi effetti soprattutto quando è possibile una scelta effettiva e non soltanto teorica fra i partiti concorrenti, possibilità negata oggi come ieri, anche se per ragioni diverse, da caratteristiche e scelte strategiche dei principali partiti. E una volta neutralizzato quel fondamentale meccanismo di controllo, la classe politica ha le mani libere per espandere ovunque il suo potere mediante l'occupazione di uno stato che è a sua volta in espansi
one.
Il terzo elemento infine che può aiutare a spiegare questo potere riguarda un aspetto più generale che, a mio parere, stranamente nessuno ha sollevato nel dibattito che si sta trascinando un po' stancamente da un paio d'anni sul problema della egemonia. Quel dibattito si è arenato quando da parte dei più si è ritenuto scontato che in una società industriale possono darsi soltanto due possibilità: o l'egemonia è esercitata dalla borghesia oppure è esercitata dalla classe ad essa storicamente antagonista, il proletariato, mentre una terza via è comunque esclusa. E' strano che nessuno abbia considerato anche altre possibilità che, tra l'altro, non venivano scartate dagli stessi classici del marxismo: penso, ovviamente a testi come il "18 Brumaio" di Marx e a "Rivoluzione e Controrivoluzione" di Engels. In una situazione di debolezza delle forze sociali o di equilibrio fra le classi è ben possibile che siano le forze politiche ad acquistare il potere effettivo. E se pure è vero che Marx e Engels si riferiscono a
situazioni che ritengono eccezionali e transitorie è anche vero che essi non potevano prevedere lo sviluppo di quei processi indicati in precedenza, in particolare l'emergere di una autonoma e stabile sfera politica per opera dei partiti di massa e di una classe politica professionale.
L'incapacità della borghesia italiana di esercitare una vera egemonia - fenomeno rilevato innanzitutto da Gramsci e poi a più riprese utilizzato per spiegare la vicenda politica italiana - favorisce la dilatazione del potere dei partiti, consente al nuovo ceto di professionisti che è venuto emergendo di riempire il vuoto, di insediarsi "in forma durevole" al centro del sistema di potere, di impadronirsi della quota maggiore di potere sociale.
Naturalmente occorre intendersi: concentrazione del potere nel sistema dei partiti significa anche immobilismo, assenza di leadership ecc. Perché il sistema politico è principalmente un mercato a struttura oligopolistica che funziona attraverso processi di contrattazione e di scambio fra gli attori politici. L'assenza di una funzione di governo, di sintesi e di guida unitaria è così l'altra faccia di una situazione di debolezza dello Stato e di concentrazione del potere nel sottosistema politico-partitico.
Oggi assistiamo al paradosso per cui i politici sono partecipi, direttamente o indirettamente, di tutte le decisioni rilevanti che riguardano la società e tuttavia questa partecipazione, questo potere che si esercita su ogni questione ha come contropartita l'assenza di capacità di sintesi al vertice delle istituzioni, il non governo. Il potere dei partiti - un fenomeno già notato anni fa da Alessandro Pizzorno - la loro capacità di essere i più importanti centri di controllo sociale si traduce nel suo opposto, nella impotenza dei partiti in quanto guide unitarie e efficienti della società.
Sono i rapporti con lo Stato e con la società civile che spiegano questo fenomeno. Occupazione dello Stato significa feudalizzazione della sfera pubblica, frammentazione dello Stato in potentati politico-burocratici in competizione fra loro. Controllo sulla società civile significa mutamento in senso corporativo delle strutture della società civile e, per questa via, alterazione profonda dei rapporti di classe. L'espressione "capitalismo assistenziale" indica una avvenuta dislocazione delle strutture sociali in senso fortemente corporativo. Le strutture della società civile appaiono così dominate da organizzazioni di tipo gerarchico in competizione per la spartizione di risorse scarse. Il fulcro del sistema è la mediazione quale si manifesta nella ripartizione e nella distribuzione di rendite politiche attraverso, ad esempio, la definizione del bilancio dello Stato (con contraccolpi e fenomeni del tipo "crisi fiscale").
Si può notare, per cominciare, la silenziosa saldatura e l'alleanza che si è delineata a tutti i livelli fra il ceto politico professionale e i ceti burocratici (che sono anche, ma non dimentichiamo i giornali, l'industria pubblica e ampi settori della industria privata, fra i principali percettori di rendite politiche). Basti pensare ai risultati di una recente inchiesta sulla classe politica municipale dalla quale risulta la schiacciante prevalenza fra gli amministratori dei comuni, senza significative distinzioni fra partiti di sinistra, di centro e di destra, dei burocrati prevalentemente impiegati nel settore pubblico con forte sottorappresentazione di tutti gli altri gruppi occupazionali (2).
Il secondo aspetto importante riguarda l'alleanza, che però sottintende un conflitto latente che di tanto in tanto esplode per ricomporsi subito dopo, fra i politici da una parte e gli altri dirigenti, i managers della grande industria privata, della industria pubblica delle banche. L'alleanza si manifesta, si rende visibile nelle "carriere orizzontali", nella mobilità da un settore all'altro (Agnelli, Visentini, Pandolfi ecc.) mentre il conflitto latente e la rivalità tra queste due classi, politici e managers, come è stato recentemente osservato, "(...) ha sempre come scopo il controllo e l'orientamento delle strutture e delle risorse sociali. Benché esistano gruppi, in entrambe le classi, che tendono ad esasperare i contrasti, nel complesso le influenze e i condizionamenti reciproci definiscono una situazione di equilibrio instabile" (3). Tra burocrazie pubbliche e private, alti dirigenti e corporazioni, al centro del rapporto stanno comunque e sempre i vertici di partito. L'equilibrio all'interno di ques
ta élite del potere è infatti tutto affidato alla capacità di mediazione dei politici. I vertici di partito si mantengono al centro della fitta trama di rapporti sociali delineata grazie al controllo che sanno esercitare sulla società civile. Infatti l'intero sistema di potere e gli equilibri che esso garantisce sono destinati a saltare o ad essere per lo meno scossi se la società civile si libera, anche temporaneamente dalla tutela e riesce a imporre un contropotere, un potere ascendente e controbilanciante dai cittadini ai gruppi dirigenti dei partiti.
Le risorse della partitocrazia
Mi sembrano fondamentalmente quattro i tipi di risorse sulle quali si fonda il potere autonomo della classe politica, attraverso le quali si riproduce il potere della partitocrazia.
La prima e più importante risorsa è quella "organizzativa". Le burocrazie di partito gestite da ristrette élites sono la base principale del potere politico. La cristallizzazione ai vertici del sistema politico di oligarchie inamovibili si spiega appunto con la loro capacità di controllare le rispettive organizzazioni. Il che soprattutto significa impedire un allargamento della partecipazione alle decisioni a fasce più estese di militanti e di iscritti. Il controllo di risorse organizzative, a sua volta, accresce le possibilità di estendere in altri ambiti il potere del gruppo dirigente: ad esempio, permettere la scelta dall'alto di tutti i candidati alle assemblee elettive e la nomina di personale di partito nei posti del sottogoverno. Il rinnovamento del gruppo dirigente socialista che segue una sconfitta che aveva posto le basi per un declino del partito non sembra preludere a cambiamenti su questo fronte (cioè sul piano della velocità e della intensità del ricambio dei gruppi dirigenti) perché, una volta
avvenuto il rimescolamento delle carte interno, non sono ancora stati modificati i meccanismi organizzativi che favoriscono il consolidamento di una oligarchia di vertice.
La seconda risorsa cruciale è la "comunicazione": mass media e industria culturale non sono neppure lontanamente un potere indipendente dal potere politico. Controllo della comunicazione significa, a sua volta, due cose: monopolio sulle ideologie propagandate e monopolio sulle informazioni trasmesse. Il meccanismo di controllo dal basso viene indebolito e a volte neutralizzato anche attraverso la manipolazione o la soppressione delle informazioni, restringendo per questa via le alternative disponibili ai cittadini, costringendoli entro canali obbligati di comportamento politico.
La terza risorsa è di carattere "finanziario": il finanziamento pubblico dei partiti è soltanto una delle risorse finanziarie controllate direttamente dai vertici di partito, le altre consistono come è noto, in una parte dei proventi della industria pubblica e nella gestione del sottogoverno. Ed è la competizione per la ripartizione di risorse finanziarie, come si è detto, che crea la principale frattura fra politici e alti dirigenti.
Ultima, ma non in ordine di importanza, risorsa controllata consiste in ciò che potremmo definire "la definizione della agenda politica": sono i politici che controllano monopolisticamente, e in genere arrivando ad accordi abbastanza automatici, quali questioni devono essere in ogni momento argomento di decisione. In un sistema di questo genere infatti la frammentazione è tale che nessun gruppo esercita un controllo in qualche modo prevedibile sul processo decisionale. Il controllo acquista così un carattere preventivo, si esplica nella definizione della agenda politica. La domanda fondamentale da porsi non è quindi: "chi prende le decisioni in questo sistema?" perché ogni decisione è il frutto di sempre mutevoli alleanze fra settori della classe politica, settori della burocrazia e settori della classe dei managers. La domanda fondamentale è invece: "chi decide "su che cosa" si deve decidere?". Il potere più rilevante dei partiti consiste proprio nel controllo sulle "procedure" mediante le quali viene presa
la decisione su che cosa dovrà essere sottoposto a decisione. Qui interviene una solidarietà interna alla classe politica che, al di là dei contrasti che possono manifestarsi sulla "sostanza" delle singole decisioni, deve sempre necessariamente costituirsi pena una grave destabilizzazione di tutti gli equilibri. Se i lavori e le trattative mediante le quali viene definita l'agenda politica parlamentare sono l'esempio più importante e più visibile, è bene notare subito che esso non è affatto l'unico: a tutti i livelli, dal consiglio regionale fino all'ultimo dei consigli di quartiere e dei comitati di circoscrizione, il principale potere esercitato dai partiti consiste nella definizione dell'ordine dei lavori e nella decisione, preliminare a qualsiasi discussione di sostanza, su che cosa deve essere incluso e in quale ordine nella agenda politica.
Mediante l'utilizzazione da parte dei vertici di partito delle risorse indicate si è così delineata, e arrivo all'argomentazione centrale del mio ragionamento, quella "autonomia del politico" dalla società civile che secondo alcuni è un bene che la sinistra dovrebbe tutelare e che secondo me è invece una delle principali cause della crisi della democrazia italiana. La crisi di rappresentanza cui facevo cenno in apertura è il frutto di questa autonomia eccessiva del "politico" dalla società civile.
Senza entrare in complesse argomentazioni dottrinarie basti osservare che un certo grado di autonomia della politica dai rapporti della società civile probabilmente c'è sempre stata. Anche nell'epoca del primo capitalismo il governo non era un puro e semplice "comitato d'affari della borghesia" né più in generale la politica era sovrastruttura, mero riflesso dei rapporti sociali sottostanti. Tuttavia può accadere che la autonomia della politica diventi quasi assoluta - la frattura, di cui si parla abitualmente, fra società civile e società politica, o fra il paese legale e il paese reale - perché la classe politica, monopolizzando le risorse indicate in precedenza riesce a compromettere e a rendere in larga misura inoperanti i meccanismi di controllo dal basso. Ed è allora che si produce una crisi di rappresentanza.
Ho parlato di classe politica e di partitocrazia e sono possibili a questo punto due tipi di obiezioni. La prima è che non distinguendo fra DC e sinistra istituzionale, attori storicamente portatori di esigenze e di progetti diversi, sto facendo una analisi che conduce dritto filato a conclusioni di tipo "qualunquistico". La seconda obiezione possibile è che ipotizzando un controllo partitico piuttosto stretto sulla società civile non sono poi in grado di spiegare la vitalità della società civile, la sua intensa partecipazione degli ultimi anni, le sue forti spinte progressiste.
Cominciamo dalla prima obiezione: se sia lecito fare di tutta l'erba un fascio dimenticando ciò che oppone idealmente e politicamente la sinistra istituzionale, comunisti e socialisti, alla DC e alla sua trentennale gestione del potere. Ovviamente non ignoro queste differenze ma appare chiaro che se si fa un tentativo di individuare i meccanismi che presiedono al funzionamento del sistema politico da almeno due anni a questa parte, occorre riconoscere che la sinistra - come del resto hanno sempre sostenuto gli oppositori del compromesso storico e dei governi di grande coalizione - si è semplicemente inserita in una trama di rapporti che è stata ricamata in precedenza dalla DC, quando il sistema si reggeva ancora sulla logica della "conventio ad excludendum". Se guardiamo ai comportamenti effettivi anziché alle enunciazioni di principio e alle dichiarazioni di intenti, non possiamo che concludere che la sinistra, anche consapevolmente, si è letteralmente invischiata in rapporti precedentemente non da lei defi
niti. A questo punto parlare di classe politica e di partitocrazia non significa disconoscere differenze né mettere i partiti della sinistra sullo stesso piano della DC. Significa però affermare che i vincoli strutturali del sistema definiscono i comportamenti possibili, che il processo di sostituzione dei fini nei partiti di sinistra ha raggiunto livelli decisamente preoccupanti, che essi stanno diventando compartecipi di una gestione che consiste essenzialmente in processi di spartizione delle risorse fra i diversi settori della società corporativa.
Partecipazione fittizia e mobilitazione
Veniamo alla seconda possibile obiezione, quella secondo cui poiché la società italiana è una società partecipante, l'idea di un controllo dall'alto da parte di ristrette oligarchie di partito è sbagliata e fuorviante.
Ebbene credo che alla origine di questi ragionamenti, peraltro molto comuni e diffusi, ci sia una concezione errata di ciò che si deve intendere per "partecipazione". A me pare che per partecipazione sia opportuno intendere soltanto una cosa: l'autogoverno, la partecipazione del cittadino, al livello locale o nazionale, alle scelte che lo riguardano, cioè ritengo che per partecipazione si debba correttamente intendere l'atto del partecipare del "singolo cittadino" al processo decisionale. Da questa definizione discende che in una società è tanto più ampia la partecipazione quanto più estese, numerose e accettabili sono le arene politiche nelle quali una parte fondamentale è svolta dagli istituti di democrazia diretta (in concorrenza e a volte in sostituzione degli istituti di democrazia rappresentativa) e in secondo luogo, quanto più ampio e costante è il ricambio delle élites politiche.
Se accettiamo questa definizione, volutamente restrittiva, dobbiamo concludere che la società italiana - con alcune eccezioni, la più importante fra le quali è stato il referendum sul divorzio - non è affatto una società partecipante. La società italiana è stata ed è invece una società viva e vitale che a più riprese si è "mobilitata" esprimendo insistentemente una "domanda di partecipazione", facendo esplodere una crisi di partecipare. E sta qui indubbiamente una differenza importante fra la società italiana di questi anni ed altre società europee. Ma tra partecipare e "domandare di partecipare" attraverso una mobilitazione corre una distanza che non si può ignorare al prezzo di non capire le radici principali della crisi.
La società italiana è stata interessata non da fenomeni di partecipazione - che presupponevano un adattamento e una apertura istituzionale che non ci sono stati - ma da fenomeni di "mobilitazione politica", più esattamente da due diverse forme di mobilitazione che occorre tenere ben distinte, una mobilitazione spontanea (nella quale si manifestava la domanda vera e propria di partecipazione) e una mobilitazione indotta, guidata e controllata dai vertici di partito. Con la stagione dei movimenti collettivi c'è stata una forte attivazione di minoranze intense, si è trattato di una mobilitazione spontanea in larga misura contro le élites esistenti, in particolare contro le élites di partito (4).
E' accaduto che a un certo punto settori ampi della società civile sono usciti dallo stato di spoliticizzazione e di apatia oppure di partecipazione di tipo subculturale, le forme tipiche di rapporto fra il cittadino e la politica negli anni cinquanta e sessanta. In parte per riassorbire questa mobilitazione spontanea, ma in parte anche nel solco del più tradizionale rapporto dei partiti di sinistra e del movimento sindacale con la società civile, si è intensificata contemporaneamente una mobilitazione dall'alto che si traduceva in fenomeni detti partecipativi ma che partecipativi non sono, e che sarebbe piuttosto lecito definire di "partecipazione fittizia" perché il cittadino non è chiamato né incoraggiato a partecipare alle decisioni ma soltanto a sostenere linee politiche e parole d'ordine elaborate altrove.
Mentre settori ampi della società si attivavano chiedendo partecipazione, la risposta era dunque una mobilitazione dall'alto volta a riassorbire e controllare quella domanda. Naturalmente sarebbe ingeneroso disconoscere i meriti storici che sono legati alla capacità soprattutto del PCI e del movimento sindacale di mobilitare la società civile perché lo strumento della mobilitazione è stato in passato anche un modo per favorire la crescita politica, per educare alla democrazia. Solo che la società italiana degli ultimi anni aveva ormai superato lo stadio in cui la mobilitazione indotta esercita comunque effetti benefici, allarga i confini della democrazia. La società italiana chiedeva e chiede in realtà molto di più, chiedeva l'apertura e l'attivazione di tutti i possibili canali istituzionali attraverso i quali sviluppare una partecipazione reale alle decisioni.
Ma la risposta è stata, in tutti questi anni un'altra e non poteva essere diversamente perché una apertura di canali effettivi di partecipazione avrebbe messo in crisi, e metterebbe tutt'ora in crisi, il sistema di potere descritto in precedenza, significherebbe attivare un potere ascendente capace di ridimensionare il potere discendente dei partiti. Scelte e atteggiamenti della classe politica nella vicenda dei referendum sono ovviamente esemplari. Ma la chiusura delle istituzioni politiche alla domanda di partecipazione è verificata e verificabile a tutti i livelli.
Così le poche ricerche di cui disponiamo in materia di decentramento urbano mostrano - ad esempio, nei comitati di quartiere - il persistente controllo degli apparati di partito (e non è casuale da questo punto di vista che la recente legge sul decentramento urbano non abbia previsto, per volontà concorde dei partiti, alcuno strumento di democrazia diretta). Così più in generale l'autonomia e le possibilità reali di autogoverno degli enti locali - peraltro previste esplicitamente dalla carta costituzionale - come anche recentemente ha osservato uno storico delle istituzioni politiche, Ettore Rotelli, sono state completamente vanificate dal centralismo dei partiti, dalla contemporanea burocratizzazione e riduzione a un ruolo esclusivamente "consiliare" delle istituzioni elettive del governo locale (5).
Alla mancata apertura di canali di democrazia diretta - quindi di apertura istituzionale alla domanda di partecipazione - si affiancava un controllo fortemente selettivo sul reclutamento politico che consentiva e consente a un ristretto personale dirigente di rinnovarsi per cooptazione. La "partecipazione fittizia" era la risposta - disastrosa, come oggi purtroppo sappiamo, a una domanda di partecipazione reale, era l'indicatore più visibile e vistoso di un esercizio del potere con il quale si è ormai affermato il predominio degli interessi di stabilità e di controllo sociale dei gruppi dirigenti dei partiti, delle strutture "rappresentanti" sugli interessi e le domande della società civile rappresentata.
La crisi della democrazia e il ruolo dei radicali
Si può ritenere che a questo punto gli effetti di questa prolungata crisi di rappresentanza siano ormai sfociati in processi non più controllabili, che ormai non resta altro che assistere passivamente all'imbarbarimento della vita politica e dei rapporti sociali.
Ma se si ritiene - pur con tutto il pessimismo della ragione che a questo punto appare doveroso - che ancora qualche cosa è possibile fare per invertire le attuali linee di tendenza, non v'è dubbio che è proprio sulla frattura fra società civile e società politica che occorre agire: occorre cioè puntare - per prendere in prestito con tutt'altro significato e con tutt'altre intenzioni, l'espressione di Mario Tronti - a una riduzione drastica della "autonomia del politico" dalla società civile. Poiché alla origine della crisi sta soprattutto una chiusura istituzionale causata da una cristallizzazione di ristrette oligarchie di partito credo che il Partito Radicale dovrebbe riprendere e agitare con forza di fronte alla opinione pubblica un progetto capace di rendere - come scriveva Gobetti presentando il suo programma di rivoluzione democratica - più permeabili, più "fluide" le attuali élites politiche, realmente aperte allo interscambio con i cittadini (6). Occorre individuare e proporre mezzi idonei per favor
ire una più elevata circolazione delle élites all'interno del sistema politico.
Questo programma richiede di intaccare il controllo monopolistico che la classe politica esercita sulle risorse che ho in precedenza indicato - della comunicazione, della definizione della agenda politica, finanziarie e organizzative. Occorre che questo controllo si diffonda ad aree molto più ampie di cittadini che in questi anni si sono vanamente mobilitati chiedendo questo e, a mio parere, soprattutto questo. L'azione radicale, mi sembra, si è già ampiamente indirizzata in questa direzione. Per quanto riguarda il controllo che la classe politica esercita sulla definizione della agenda politica, non si può non osservare che promuovere referendum - oltre al tentativo di attivare su singoli problemi quel potere ascendente dai cittadini alla società politica che i politici si sforzano continuamente di neutralizzare - significa contemporaneamente intaccare il controllo su questa fondamentale risorsa politica. Significa proiettare nella agenda politica - come hanno fatto settecentomila cittadini - problemi che l
a classe politica, autonomamente, non avrebbe mai affrontato.
Su questo piano forse è possibile fare di più. Ritengo che i radicali dovrebbero pensare seriamente alla possibilità di "attivare" lo strumento dei referendum regionali, contando soprattutto sui probabili effetti imitativi: se una eventuale "provocazione" radicale sul terreno dei referendum regionali venisse ripresa in seguito, con continuità, da gruppi sempre più ampi e diversificati di cittadini, anche il potere che la classe politica mantiene di definizione delle agende politiche regionali, subirebbe un duro colpo e si creerebbero le condizioni per una partecipazione politica meno facilmente manipolabile dagli apparati di partito.
Per quanto riguarda le risorse finanziarie, la richiesta del referendum sul finanziamento pubblico, mi pare, si è mossa proprio nel senso di colpire il controllo di ristretti vertici delle burocrazie di partito su una risorsa decisiva della lotta politica, cioè di colpire una legge che contemporaneamente accentua le disparità di potere fra gruppi dirigenti e iscritti ai partiti e fra i partiti e i cittadini che scelgano la strada di una partecipazione extrapartitica al sistema democratico. Chiedere un finanziamento diverso significa chiedere un ridimensionamento del potere dei gruppi dirigenti dei partiti di massa, una ridistribuzione in senso egualitario che lasci più chances anche a potenziali élites politiche concorrenti (tanto all'interno che fuori dei partiti politici).
Non mi soffermerò sul problema della comunicazione perché i radicali da anni ormai si battono su questo versante, con alterni successi, per intaccare il monopolio politico sui canali di comunicazione. Veniamo invece all'ultimo punto, al problema delle risorse organizzative. E' chiaro che puntare a un aumento della circolazione delle élites e ad accrescerne la "fluidità" significa puntare a un ridimensionamento degli apparati di partito.
Nella bozza del "progetto socialista" è sostenuta una tesi che, ritengo, i radicali non possono non condividere (anche perché quella ed altre enunciazioni contenute nel progetto non sono altro che la teorizzazione di una pratica politica e di posizioni che sono state in questi anni non del partito socialista ma del partito radicale). Si sostiene cioè che i partiti devono perdere il carattere che oggi hanno totalizzante e integralistico e lasciare che la società civile possa così esprimere e realizzare le sue aspirazioni all'autogoverno (7). Senonché, si può osservare che proprio perché i partiti sono totalizzanti e concentrano nelle proprie mani il massimo di potere possibile, la società civile non è messa in condizione di autogovernarsi. E nel progetto non è possibile reperire una chiave, una linea d'azione che consenta di spezzare questo circolo vizioso.
Occorre allora riprendere le suggestive proposte avanzate da Julliard di un progetto di "deprofessionalizzazione della politica" (8): rotazioni, incompatibilità di cariche, opportunità per i cittadini di partecipare per periodi temporanei alle attività pubbliche (conservazione dello stipendio e del posto di lavoro ecc.), riduzione drastica del personale politico stipendiato.
Aumentare la circolazione delle élites riducendo così la frattura fra società politica e società civile significa quindi avviare un processo di ridimensionamento dei tratti burocratici del sistema politico. Un progetto simile richiede però di adottare una prospettiva che ancora nessuno ha osato apertamente abbracciare. Ormai tutta una letteratura politologica, sociologica e giuridica, attenta alle trasformazioni dello Stato contemporaneo, ci ripete da tempo che i partiti non sono più, come erano un tempo, associazioni di privati cittadini impegnati politicamente; ci dice, al contrario, e l'esperienza lo conferma, che i partiti sono ormai di fatto veri e propri organi dello Stato. Ma nessuno ne ha ancora tratto tutte le necessarie conseguenze. Se la tendenza dei partiti a perdere l'iniziale carattere privatistico non è un fatto congiunturale ma è al contrario il portato degli sviluppi dello Stato nella società industriale avanzata e di una conseguente ridefinizione molto drastica di ciò che è "pubblico" e di
ciò che è "privato", sarebbe illusorio e anacronistico pensare di riportare i partiti allo stato precedente. Poiché essi sono diventati a tutti gli effetti i più importanti organi dello Stato occorre invece proporre una loro democratizzazione.
E' l'ora di democratizzare i partiti
Così come si chiede maggiore democrazia nei tradizionali apparati dello Stato, è arrivato forse il momento di chiedere, nella stessa identica ottica, la democratizzazione dei partiti attraverso una regolamentazione pubblica. Infatti il modo in cui, per esempio, la DC o il PCI si organizzano al loro interno non può essere più un fatto "privato" che riguarda soltanto democristiani e comunisti e, al massimo, i loro elettori. Al contrario riguarda tutti i cittadini, anche quelli che non sono né elettori comunisti né elettori democristiani, dal momento che determina in larga misura il buono o il cattivo funzionamento del sistema democratico.
Le proposte possibili sono molte. Dalla richiesta di una riduzione del personale politico stipendiato alla "elezione diretta" degli organi dirigenti, segreterie nazionali comprese, da parte degli iscritti all'obbligo di referendum interni vincolanti per gli organi nazionali su qualunque questione attinente alla politica del partito quando richiesti da un certo numero di iscritti, all'obbligo infine di sottoporre a votazione interna qualsiasi proposta dei vertici per l'assegnazione del personale di partito a cariche non elettive.
Soprattutto occorrerebbe ridimensionare il potere di nomina da parte dei vertici di partito dei candidati alle assemblee elettive. Si potrebbe riprendere, adattandola al contesto attuale, una proposta già sostenuta da Mortati durante i lavori della costituente, di introduzione di un sistema di "elezioni primarie". Con elezioni primarie a tutti i livelli si potrebbe trasferire dagli apparati di partito agli elettori una quota non irrilevante di potere sulla composizione e l'ordine di lista alle assemblee elettive (dal quartiere al comune al parlamento). Un sistema di questo tipo - che tecnicamente ha diverse possibilità di realizzazione - ridimensionerebbe probabilmente il potere dei vertici e delle burocrazie di partito, sarebbe un potente strumento di apertura della classe politica, aumenterebbe la circolazione delle élites, spezzando cordoni ombelicali che facilitano omertà e conformismo politico. Per questa via, e forse soltanto per questa via, sarebbe possibile una reale riconquista di potere istituziona
le da parte delle assemblee elettive, parlamento in testa. I suoi componenti infatti, in quanto scelti dagli elettori anziché dagli apparati di partito verrebbero a disporre di un potere parzialmente autonomo e controbilanciante rispetto alle organizzazioni politiche di appartenenza. Si potrebbe così ricostituire una salutare dialettica oggi del tutto inesistente, fra partiti e assemblee elettive. Una dialettica che può essere messa in moto soltanto attraverso la liquidazione delle `discipline di partito' e la riaffermazione della "responsabilità individuale" di fronte agli elettori. E ridare forza istituzionale alle assemblee significa ricostituire quella "bilancia dei poteri" fra organizzazioni che può consentire di limitare il potere della partitocrazia.
Mentre comunisti e socialisti, sia pure con accenti e prospettive molto diverse, si avviano a proporre misure razionalizzatrici volte a dare alle istituzioni più efficienza, le tesi che ho esposto presuppongono invece che esista una correlazione molto stretta tra apertura delle istituzioni alla democrazia diretta insieme a una maggiore circolazione delle élites e efficienza delle istituzioni.
Queste tesi presuppongono in altre parole che non sia un "eccesso di democrazia" ma esattamente il suo contrario, la chiusura istituzionale alla partecipazione e la cristallizzazione di oligarchie al vertice delle istituzioni, la causa principale anche della inefficienza. Non v'è dubbio che per lungo tempo la "governabilità" delle democrazie occidentali è stata resa possibile dalla apatia politica delle maggioranze. Ed è anche difficile negare che, almeno in Italia, questo meccanismo è entrato in crisi perché ampi settori della società civile hanno rifiutato di "stare al gioco", cioè di continuare ad essere semplici oggetti delle politiche del governo e della opposizione. La crisi di efficienza delle istituzioni è anche il prodotto di questa mobilitazione.
Per ridare efficacia alle istituzioni e "governabilità" al sistema non restano allora che due strade: o ridurre in qualche modo la domanda di partecipazione - che è la strada che sta imboccando oggi la sinistra istituzionale - oppure aprire e adattare le istituzioni all'aumentato livello della domanda di partecipazione. Da quanto ho detto è chiaro che ritengo la seconda l'unica strada giusta.
Se l'attuale crisi nella quale è cresciuta la violenza terroristica è il frutto diretto di una frattura fra società politica e società civile che non poteva protrarsi così a lungo senza conseguenze disastrose e devastanti, occorre proprio ora rivendicare l'apertura di tutti quei canali di partecipazione alla politica che una società mobilitata per anni ha chiesto invano a una classe dirigente chiusa a riccio nella difesa della propria egemonia. E forse ancora possibile rafforzare la democrazia e per questa via sconfiggere anche il terrorismo, ma soltanto se fasce sempre più ampie di cittadini - da massa indifferenziata il cui unico compito politico consiste nell'applaudire un leader in una piazza imbandierata - sono messe in condizione di partecipare in prima persona alle decisioni della comunità e di esercitare quel controllo continuo sulla classe politica senza il quale la democrazia diventa rapidamente una finzione.
(*) "Questo saggio è stato discusso dall'autore con gli altri redattori della rivista nei mesi scorsi e una sintesi è stata presentata al convegno organizzato dal consiglio federativo del Partito Radicale sul tema: "La teoria e la pratica del partito nuovo socialista e libertario, e lo statuto e l'esperienza del Partito Radicale nella società e nelle istituzioni" tenutosi a Roma il 5-6-7 maggio 1978".
Note
1) R. Michels, "La sociologia del partito politico", Bologna, 1966
2) C. Barberis, "La classe politica municipale", Milano, 1978
3) F. Ferrero, "La struttura di classe in Italia di fronte alla crisi", in AA.VV. La società italiana in crisi, Torino, 1978, p. 3
4) Su questo punto vedi G. Pasquino, "Partecipazione, alternanza e socialismo", in "Mondoperaio", N. 11 (1977), pp. 98-99
5) E. Rotelli, "Autonomie locali e autogoverno", in G. Quazza (a cura di) "Democrazia e partecipazione", Torino, 1978. Per una ricerca sui consigli di quartiere a Roma che conferma il quadro delineato si veda R. Bettini, "Il decentramento urbano a Roma", Pisa, 1976
6) P. Gobetti, "Scritti politici", Torino, 1969, p. 192 e ss.
7) "L'alternativa dei socialisti", Roma, 1978
8) J. Julliard, "Contre la politique professionelle", Parigi, 1977. Vedi anche, a cura della redazione della rivista "Il Mulino", "Per una nuova "laicità" della politica italiana", in "Il Mulino", N. 255 (1978) e P. Rosanvallon e P. Viveret, "Pour une nouvelle culture politique", Parigi, 1977.