Dieci, cento, mille rosedi Gianfranco Spadaccia
SOMMARIO: Il dopo referendum. Attuazione dello Statuto: lontanissmi dall'obiettivo. Perché la sospensione delle attività nazionali del partito: l'impossibilità di esercitare l'opposizione democratica al regime; l'inefficacia e la crescente pericolosità delle forme di lotta nonviolenta nelle forme e nei modi sperimentati nel passato; la prevedibilità assunta dalle nostre forme di lotta e di iniziativa. Informazione e nonviolenza. Il successo nel voto sui referendum (Legge Reale e Finanziamento pubblico dei partiti): i radicali soli contro tutti. Le elezioni parziali. L'analisi del Pci sui radicali: qualunquisti, disgregatori, radical-fascisti. L'estremo tentativo della dirigenza comunista di eludere un'analisi seria della crisi di un'intera ideologia. Una risposta libertaria alla crisi: i radicali e la sinistra. Vecchie abitudini e nuovi problemi. Il rischio del monocentrismo. Promuovere i partiti regionali con le lotte, promuovere una molteplicità di soggetti politici autonomi. Senza lotta i progetti non ser
vono: non esistono scorciatoie elettoralistiche. Perché la presentazione di liste radicali a Trieste. Il problema del finanziamento pubblico e l'autofinanziamento radicale. No alle impostazioni moralistiche. Una carta dei fini per i quali il finanziamento pubblico NON deve essere utilizzato. Rovesciare il rapporto; fare del finanziamento pubblico non una contraddizione che il regime pone al partito ma viceversa.
(NOTIZIE RADICALI N. 120, 28 luglio 1978)
Con il referendum dell'11 giugno il Partito Radicale ha visto rafforzarsi enormemente la sua credibilità come forza politica di opposizione al regime e la sua candidatura a promuovere una forza politica di alternativa, socialista e libertaria.
Sia con i successi dell'attività parlamentare (e in particolare del recente ostruzionismo contro le scelte della maggioranza che ha consentito lo svolgimento del referendum sulla legge Reale), sia con i risultati dell'11 giugno sui referendum e del 25 giugno a Trieste e a Gorizia, il Partito ha dimostrato di saper utilizzare e valorizzare al massimo il patrimonio delle proprie lotte ormai quindicennali, insediate al livello istituzionale. L'immagine del partito, la sua credibilità, la sua candidatura ad essere a pieno titolo forza politica nazionale ne sono uscite rafforzate rispetto all'opinione pubblica, ma anche rispetto alle altre forze politiche e sempre di più (avremo motivo di rendercene conto pure nelle polemiche che saranno rivolte contro di noi) anche nella pubblicistica politica e nella attenzione dei commentatori e degli studiosi.
Questa situazione se da una parte rende più difficile la prospettiva che il Partito possa essere nel breve termine travolto e battuto, massacrato e definitivamente emarginato dal regime, come era legittimo temere ancora qualche mese fa, dall'altra aumenta enormemente la divaricazione, la sproporzione fra le forze, le reali possibilità, l'organizzazione di cui dispone e le aspettative che ha creato nel paese, i compiti e le responsabilità che derivano dai suoi stessi successi.
Il dopo referendum
Questa sproporzione non è una novità nella vita e nella storia del Partito Radicale. E' una novità invece la situazione nella quale si verifica.
Ricorrentemente in passato ci siamo trovati ad affrontare lotte e situazioni con la consapevolezza collettiva che da esse dipendeva la possibilità della continuità di una politica e della stessa esistenza del partito radicale.
In cosa oggi la situazione è diversa?
Apparentemente ha superato il punto di non ritorno nell'opera di insediamento della forza politica radicale all'interno delle istituzioni, nel confronto politico con le altre forze politiche, e nella conoscenza e coscienza delle masse. Ma proprio per questo il partito deve dare oggi risposte a domande diverse dal passato, per la quale è inadeguato e ancora assolutamente impreparato.
Dobbiamo renderci conto che, per far fronte a queste esigenze, è necessario, e necessario al più presto, un altro consistente salto qualitativo nell'organizzazione, nelle lotte, nel modo d'essere del partito: realizzare quel partito federativo, articolato nei partiti regionali, fondato su reali autonomie (e perciò su autonome capacità di promozione delle lotte radicali e di progettazione politica) che è previsto dallo statuto. E dobbiamo dirci chiaramente che siamo lontanissimi da questo obbiettivo e che esso non sarà raggiunto senza radicali mutamenti, senza difficili sperimentazioni, senza lotte articolate e significative che devono trovare altri soggetti di progettazione e di attuazione da quelli che il partito ha avuto e conosciuto fino ad oggi.
Attuare lo statuto: lontanissmi dall'obiettivo
Questo partito, e ciascuno dei suoi militanti, si è formato ed è cresciuto nella progettazione e nella attuazione di lotte nazionali che avevano come interlocutore una istituzione centrale (il Parlamento, le commissioni parlamentari, i gruppi parlamentari degli altri partiti, il governo, un ministero, la Corte Costituzionale, la RAI-TV, ecc.) e che avevano come punto di riferimento e centro di direzione politica della iniziativa gli organi esecutivi centrali del partito o compagni che da sempre facevano parte del gruppo dirigente del partito.
In questo la nostra esperienza, i nostri riflessi collettivi, ed anche la nostra capacità di autonomia nella gestione di queste lotte hanno indiscutibilmente raggiunto un alto ed abbastanza omogeneo grado di sviluppo, anche se non in misura eguale dappertutto. Al di fuori di questo la nostra inesperienza, la nostra incapacità, la nostra impreparazione sono pressoché assolute. C'è tutto da scoprire, tutto da inventare, tutto da imparare e acquisire all'esperienza del partito.
La prima opportunità di una consapevolezza collettiva di questa situazione, di questi problemi, di queste necessità ci è stata offerta dalla decisione del segretario del partito di dichiarare sospesa, nel febbraio scorso, ogni attività nazionale radicale per l'impossibilità assoluta di progettarla, di esercitarla e gestirla nelle forme e nei modi che erano stati possibili nel passato.
Perché la sospensione delle attività nazionali
E' utile ricordare le motivazioni e le analisi che indussero la compagna Aglietta a prendere quella decisione:
1) impossibilità di esercitare una opposizione democratica al regime che non accettasse di essere soffocata ed emarginata dall'uso di parte dei mezzi di informazione di massa, attuato dalle forze politiche che detengono il potere, della sistematica violazione di fondamentali garanzie democratiche e costituzionali (regolamenti parlamentari, referendum), dell'isolamento politico ricercato e attuato attraverso vere e proprie forme di criminalizzazione (per quanto ci riguarda le accuse di radical-fascismo, le accuse di sabotaggio delle istituzioni e di attacco al Parlamento, le accuse di favoreggiamento al terrorismo delle Brigate Rosse);
2) inefficacia e crescente pericolosità delle iniziative di lotta non-violenta nelle forme e nei modi in cui erano state sperimentate nel passato;
3) conoscenza della nostra prassi è prevedibilità da parte dei nostri avversari delle nostre iniziative politiche e quindi necessità di portare la lotta in luoghi e con iniziative e modi che gli avversari non fossero in grado di prevedere; necessità perciò di diffondere la lotta radicale e di insediarla e radicarla nelle regioni.
Erano tutte motivazioni strettamente pertinenti alla evoluzione della situazione politica nazionale. Il rafforzamento della nostra politica e del nostro partito muta certamente la situazione nel senso che ha introdotto importanti fattori di allarme e di preoccupazione nelle maggiori forze politiche, ci rende più temibili ai loro occhi, e crea degli elementi nuovi di contraddizione negli equilibri politici di regime. Questi fattori di novità non hanno mancato già di dispiegare i loro effetti con le dimissioni di Leone prima e con l'elezione di Pertini dopo a conclusione della lunga vicenda dell'elezione presidenziale. Non mi sembra però che nessuna di quelle motivazioni sia venuta meno, anzi se è possibile la loro validità si è rafforzata proprio in forza della nostra maggiore temibilità.
Informazione, non-violenza
E' inutile soffermarsi sul comportamento dei mezzi di informazione, della commissione di vigilanza e della RAI-TV durante i referendum e dopo le elezioni di Trieste. E non può ingannare nessuno il relativo successo che ancora una volta abbiamo potuto conseguire con uno sciopero della sete, date le condizioni per noi eccezionali e irrepetibili nelle quali si è verificato (eravamo protagonisti dei referendum e avevamo a disposizione tempi limitati ma garantiti e assolutamente autonomi di Tribuna politica). Quanto alla partecipazione di 13 compagni allo sciopero della sete, di centinai di altri a quello della fame, alle manifestazioni di sostegno (marcia degli imbavagliati), al primo sperimento del boicottaggio di massa di un telegiornale, utilizzando l'informazione e il coordinamento di Radio Radicale di Roma, sono sintomi positivi della direzione nella quale ci si deve muovere, anticipazioni di una nuova prassi nonviolenta radicale, ma costituiscono certo ancora quelle strutture di lotta e quella prassi nonvi
olenta che dobbiamo riuscire a realizzare.
Guardando a queste condizioni ritengo che sia difficile negare che oggi qualsiasi attività nazionale, così come l'abbiamo conosciuta e realizzata nel passato, oltre ad essere inadeguata ai nuovi compiti del partito, correrebbe comunque il duplice rischio o di iniziative ripetitive, destinate a scadere e perdere d'efficacia, proprio per la loro prevedibilità e ripetitività, o altrimenti mancherebbe degli strumenti esterni (informazione) e delle strutture interne (capacità di iniziativa autonoma diffusa e articolata nel paese con larga influenza di opinione e incidenza di massa) che costituiscono oggi le condizioni necessarie di un successo della nostra forza politica.
Ma per avere meglio chiara la situazione, è necessario che riportiamo l'analisi ai fattori politici generali, dopo le prove elettorali di questa primavera-estate e dopo i referendum, sollevandoci da una ristretta ottica interna di partito. A queste considerazioni interne potremo poi ritornare con una visione meno angusta e angosciata dei nostri problemi e delle nostre difficoltà. Non ci appariranno per questo minori ma ne avremo almeno colto la prospettiva reale.
Il successo dell'11 giugno
I referendum dell'11 giugno e le elezioni del 14 maggio e del 25 giugno hanno dimostrato che esiste una mobilità dell'elettorato e che questa mobilità è assicurata da una fascia assai ampia di elettori che ha imparato a fare un uso critico del voto. Questa fascia, che come tutto sembra confermare è destinata non a registrarsi ma ad ampliarsi, corregge con il suo comportamento critico le anomali di una situazione che ha visto formarsi in parlamento una maggioranza che coincide quasi con la unanimità e che impedisce pericolosamente di dare sbocchi democratici alle tensioni sociali e politiche che esistono nel paese.
Ciò per cui avevamo lavorato per anni, e che avevamo saputo vedere e prevedere e a cui abbiamo saputo dare anche con le nostre iniziative possibilità di espressione e di voce, è oggi oggetto di analisi su tutte le pagine dei giornali e delle riviste politiche e culturali ed è oggetto di preoccupazione, addirittura sembrerebbe, a volte, di ossessione per certi politici e certi intellettuali.
Qualunquismo, disgregazione, radical-fascismo? Una fuga dal PCI
Non mi soffermo qui sulle analisi che vengono fatte soprattutto da parte comunista, in particolare quelle sul qualunquismo di queste fasce di elettorato mobili e critiche. Sia il paragone con il qualunquismo, sia il paragone implicito nelle analisi delle crisi, con il pericolo che precedette il fascismo mi sembrano estremamente superficiali. Mi sembrano una fuga, un estremo tentativo per eludere una analisi seria della crisi di una politica di sinistra e di un'intera ideologia. In questo quadro le accuse di radicalfascismo che ci vengono rivolte costituiscono una caricatura di quelle di socialfascismo che venivano rivolte ai socialisti negli anni 20 e fino alla metà degli anni 30.
Una risposta socialista libertaria alla crisi
Nessuno vuole negare - ci mancherebbe altro - che questi fattori elettorali siano il sintomo di una crisi, e sul piano specifico che stiamo analizzando di una crisi profonda del rapporto dei partiti con il loro elettorato. Nessuno vuole negare che siano determinati anche da fattori disgregativi. Solo che questi fenomeni elettorali sono i segni politici ed elettorali di una reale e profonda disgregazione sociale che è il prodotto della crisi delle ideologie e delle strategie dominanti della sinistra. Il volerne attribuire la responsabilità a chi tenta di dare ad essi una risposta in forme democratiche e non violente, a chi ricerca sbocchi politici positivi, di una alternativa democratica e costituzionale, è un modo fin troppo comodo per non guardare alle cause e ai fenomeni reali, politici, sociali e istituzionali, di questa crisi. Il terrorismo delle Brigate Rosse o le reazioni di alcune corporazioni di interessi e di potere, sono a loro volta sintomi e conseguenza e fattori aggiuntivi di questa disgregazion
e; non sono certo i soggetti che allo stato attuale, e nelle condizioni generali del paese, possono assicurare sbocco politico autoritario di destra e di sinistra a questi fenomeni. Se si dovesse arrivare a soluzioni traumatiche di carattere anticostituzionale, si può essere sicuri che i soggetti e i protagonisti di queste soluzioni verrebbero fuori dalle istituzioni e dall'attuale classe e mondo politico, non da altrove. Di qui la nostra costante attenzione alle dinamiche istituzionali e a questi fenomeni che definiamo di fascismo istituzionale. Ma insisto nel dire che non ci sono le condizioni per temere nel breve periodo le soluzioni traumatiche di questa natura.
La verità è che ogni disgregazione apre la possibilità alle nuove aggregazioni sociali e politiche e che questa mobilità elettorale dimostra oggi, non meno del 14 maggio 1974, una richiesta e una disponibilità al cambiamento. Una risposta a questa richiesta e a questa disponibilità al cambiamento deve essere data in forme democratiche e deve essere una risposta di sinistra, socialista e libertaria. Questa è la nostra scommessa; il problema con cui siamo alle prese.
Se guardiamo ai risultati del referendum sulla legge Reale dobbiamo prendere atto che quel partito socialista libertario di oltre il 20% di cui abbiamo parlato per la prima volta nel '74 esiste già potenzialmente alla base sociale del paese. Ma non esiste partito che possa oggi organizzarlo politicamente e rappresentarlo elettoralmente.
Questo partito non è certo il PSI. La nuova classe dirigente socialista con la sua duttilità tattica (che non è necessariamente un difetto opportunistico, può essere anche una manifestazione di intelligenza) e con la sua indiscutibile capacità manageriale che non tarderà a manifestarsi nella organizzazione del partito, può utilizzare parzialmente questa potenzialità che esiste nel paese per migliorare le sue posizioni elettorali come già è avvenuto il 14 maggio e per modificare a suo vantaggio sia pure leggermente i rapporti di forza con la DC e il PCI. Ma le contraddizioni della strategia socialista, le sue persistenti caratteristiche di partito di potere, la sua politica di alleanze e le sue necessarie ambiguità, la concezione infine dell'organizzazione del partito e la sua prassi gli impediscono di riempire questo vuoto della politica italiana e di essere il protagonista della rifondazione libertaria del socialismo italiano e della politica di alternativa socialista.
Noi e la sinistra
Il nostro compito e la nostra responsabilità, il nostro patrimonio di esperienza libertaria, il nostro statuto e la nostra prassi rimangono essenziali per questo obiettivo. Ma non potremo sperare di assolverlo in altra maniera che con la lotta politica e con la lotta politica diffusa in una pluralità di centri e animata promossa e attuata da una pluralità di soggetti autonomi. Non sono più sufficienti né le lotte nazionali centralizzate che favorirebbero la crescita di una enorme testa su un corpo esile e di un partito monocentrico (cioè esattamente il contrario del partito articolato e federativo previsto dallo statuto), né le iniziative non violente individuali e le azioni politiche esemplari di carattere leaderistico perché darebbero del partito una immagine che non corrisponde alla propria realtà nel paese, mentre costituirebbe una fuga in avanti, pericolosa e astratta, necessariamente verticistica, la scelta di trasformare il partito in un partito di progetti e proposte programmatiche che non nascessero
e non avessero le proprie radici nelle esperienze di lotta, radicate nella società.
La sospensione delle attività nazionali del febbraio scorso decisa dal segretario del partito, e condivisa nelle sue motivazioni dal consiglio federativo, ha avuto due effetti positivi:
1) ha interrotto drasticamente abitudini e riflessi, strutture di lavoro, che erano stati funzionali ad una fase ormai esaurita della vita del partito e la cui sopravvivenza sarebbe stata contraddittoria con queste esigenze oltre ad imporre costi politici organizzativi e finanziari sproporzionati ai risultati che ne sarebbero derivati;
2) ha creato le premesse perché si proceda nella direzione della attuazione dello statuto, avendo dimostrato che il partito può assolvere ai suoi compiti e alla gestione di attività politiche nazionali anche eccezionali con un minimo dispendio di energie quando disponga degli strumenti pubblici e delle possibilità di accesso ai mezzi di informazione.
Ci troviamo tuttavia in una situazione in cui, cadute alcune cose a cui eravamo abituati, ci troviamo di fronte ad un vuoto determinato dal fatto che le lotte politiche centralizzate e di iniziativa nazionale non sono state sostituite da lotte politiche autogestite dai partiti regionali e dalle associazioni.
Vecchie abitudini e nuovi problemi
Questa impressione di vuoto spinge a ricercare un ritorno indietro verso la prassi e le abitudini precedenti per ritrovare sicurezza. Sarebbe un grave errore. Non è guardando indietro ma avanti, nella direzione dello statuto, che possiamo risolvere questi problemi.
E' certo che si è verificata questa apparente contraddizione: che mentre da una parte il partito, in coincidenza della sospensione delle attività nazionali, ha saputo far fronte benissimo alle specifiche responsabilità degli organi nazionali (difesa del referendum e campagna referendaria) ed a queste responsabilità hanno risposto autonomamente e direi automaticamente anche partiti regionali e associazioni, dove più dove meno bene, dall'altra è caduta invece ogni lotta organizzata dal partito in compiti che statutariamente non appartengono agli organi nazionali se non al massimo come responsabilità di servizio e di coordinamento. Il caso dell'aborto è il più evidente e significativo, ma non il solo. La considerazione può essere generalizzata.
Ciò è dipeso da molti fattori. Certamente c'è stata una insufficiente gestione della sospensione delle attività nazionali, sia all'esterno del partito, verso le istituzioni, sia all'interno.
Sarebbe ingiusto sottovalutare insufficienze ed errori, passività e inerzie. Ma queste non possono attenuare o sminuire la considerazione che la difficoltà del compito di riconversione delle attività del partito e di attuazione dei partiti regionali è oggettivamente enorme e che non è pensabile che l'acquisizione di una nuova esperienza collettiva, fondata su comportamenti autonomi, possa essere affare istantaneo e non invece, come è inevitabile, lavoro lento e difficile.
Il rischio del monocentrismo
Un ritorno indietro verso i vecchi riflessi, le vecchie abitudini, le vecchie strutture non avrebbe effetto di mantenersi allo stadio attuale di attuazione dello statuto, ma ce ne allontanerebbe sempre di più. Creeremmo un partito che magari con la pretesa di esercitare su di essi un controllo, vivrebbe in funzione degli insediamenti istituzionali che ha conquistato con le sue lotte passate. Non solo, questi insediamenti istituzionali, cui lo statuto riconosce ampie autonomie, finirebbero per acquisire un peso che non debbono avere. Ma altri due effetti ancora più negativi si verificherebbero: anche se oggi questo è un pericolo che non sembra attuale, non possiamo dimenticare che i compagni che abbiamo mandato a lavorare nelle istituzioni, agiscano necessariamente in una logica istituzionale, che non è non deve essere quella di un partito libertario. Di questa logica il partito finirebbe per essere di riflesso vittima e prigioniero. Il secondo effetto negativo non potrebbe che consistere nella riduzione dei
compiti del partito a quelli di un comitato elettorale. Il partito si allontanerebbe sempre di più dalle caratteristiche statutarie di organismo politico extraparlamentare di organizzazione, di promozione e di espressione della domanda emergente dalla società civile.
I partiti regionali hanno poco più di due o tre anni nel migliore dei casi. Sono in genere o delle proiezioni dei dati associativi della città capoluogo o delle fotografie delle aggregazioni associative che si sono costituite nel territorio nazionale. Al più sono stati strumenti di coordinamento tra le associazioni e loro canali di trasmissione con il consiglio federativo e con gli organi esecutivi nazionali. Per quanto riguarda le associazioni, quando non si sono formate e non si sono impegnate nelle grandi battaglie nazionali del partito, salvo le dovute eccezioni che naturalmente si sono cominciate a verificare negli ultimi due anni, si sono ritagliati interessi e attività più che locali localistici, cioè non suscettibili di diventare lotte politiche capaci di avere eco e ripercussioni regionali e nazionali.
Occorre trasformare gli attuali partiti regionali in centri di promozione del partito nella regione, e non si promuove e non si insedia il partito regionale senza imporre ed insediare lotte politiche regionali.
Come? Io credo che abbiamo un punto di riferimento: l'attività del partito radicale quando era poco più di un comitato promotore, un piccolo collettivo che si proponeva di organizzare e affermare quello che è poi diventato l'attuale partito nazionale.
Promuovere i partiti regionali con le lotte
I requisiti di questa promozione del partito radicale, durata quasi dieci anni (dal 1963 al 1973) sono stati: 1) l'esistenza di un gruppo di compagni fortemente omogeneo, capace per le proprie scelte personali e collettive di resistenza nel tempo, rivolgendo le proprie conflittualità all'esterno nella lotta politica e risolvendo costantemente nella progettazione a tempo della propria attività gli inevitabili dissensi, le differenze di attitudini e anche le naturali incomprensioni e conflittualità interne, capace infine di ricercare e di promuovere intorno al gruppo nuove aggregazioni; 2) la organizzazione delle strutture di lavoro semplici, funzionali all'aggregazione che si tentava ogni volta di suscitare, poco costose; 3) la ricerca di una serie di fronti di lotta che venivano portati avanti contemporaneamente, fino a quando uno di essi non diveniva il fronte trainante, senza per altro abbandonare gli altri temi di lotta (non è affatto vero che il partito sia stato un partito, di volta in volta a tema unic
o: quando divenne trainante il divorzio, avevamo in corso la battaglia sull'ENI, quella sull'industria bellica, e cominciavamo quella sull'obiezione di coscienza, sul concordato, antimilitariste, sull'assistenza pubblica, riuscendo ad essere presenti su avvenimenti politici di attualità o imposti da noi con le Notizie Radicali, con i sit-in e con le manifestazioni); 4) l'individuazione di strumenti di diffusione e di comunicazione di massa intorno ad iniziative studiate ad hoc, per promuovere e allargare la conoscenza del partito e raccogliere e sedimentare, attraverso le adesioni alle iniziative, il consenso dei sostenitori, e l'autofinanziamento (in particolare lo strumento di cui ci servimmo erano i numeri unici a stampa a larga diffusione). Oggi i partiti regionali o le associazioni che intendono insediare lotte radicali hanno anche a disposizione il diritto d'accesso regionale, le radio e le tv (il primo, a livello regionale, credo che non sia mai o quasi mai utilizzato).
Ovviamente questa esperienza vale come indicazione, la trasposizione e la ripetizione di questa esperienza non può essere meccanica e schematica: però ritengo che il metodo di insediamento di lotte radicali non possa essere molto diverso da questo, a meno che non si vogliano tentare le scorciatoie del partito burocratico ed elettoralistico.
Quando dico che bisogna voltare pagina, non dico quindi che è esaurita e da buttare via la teoria e la prassi di quindici anni di lotte radicali, dico soltanto che deve essere trasferita dal partito nazionale ai partiti regionali e deve essere realizzata contemporaneamente in una pluralità di centri, su una grande gamma di iniziative politiche diversificate a seconda del contesto regionale e locale, da una molteplicità di soggetti politici autonomi.
Senza lotta i progetti non servono
Per realizzare questo obiettivo è necessaria una progettazione articolata ed è necessario il dibattito e il confronto fra i compagni e nel partito. Senza progetti di cui si debba rispondere e che fissino le direzioni di marcia e gli obiettivi, l'attività rischia di diventare attivismo la spontaneità spontaneismo. Ma i progetti ed i programmi non servono a nulla senza l'iniziativa e la lotta, senza compagni disposti a pagare ogni giorno il prezzo che la lotta radicale richiede: e se c'è la volontà di vincere e di raggiungere gli obiettivi che ci si propone può essere un prezzo pagato anche con felicità e non con spirito di sacrificio.
Penso dunque a un congresso che sia un momento di riflessione collettiva su quindici anni di teoria e di prassi radicale, su quindici anni di lotte radicali, e sia un congresso di dibattito su come trasferire, moltiplicare, diffondere nel paese questa teoria e questa prassi, attuando lo statuto federativo e federalistico del partito. Il tema potrebbe essere approssimativamente "1963-'78: quindici anni di lotte radicali, diffonderle e radicarle nel paese per creare il partito federativo dell'alternativa socialista e libertaria".
Non esistono scorciatoie
Non so ancora, ho su questo la stessa incertezza che abbiamo tutti, quale dovrà essere la strumentazione nazionale che ci daremo al termine di questo dibattito, quale dovranno essere le funzioni degli organi nazionali. So solo che queste progettazioni regionali non potranno calare dall'alto, ed avere per protagonisti soggetti nazionali (non è ipotizzabile il partito giacobino che impone i progetti né il partito leninista che manda i funzionari a fare i partiti regionali: da queste esperienze nascono partiti giacobini e leninisti, non possono nascere partiti federativi e libertari).
In questo sforzo di moltiplicazione dei centri di promozione del partito e delle sue lotte, dobbiamo mantenere l'ambizione che ci ha caratterizzato fino ad oggi: quella di essere non una forza minoritaria, ma una forza realmente alternativa rispetto agli equilibri politici attuali.
Non sono, su questa strada, che resta difficile e impervia, possibili scorciatoie.
Il rischio elettoralistico
I pericoli più gravi per questo partito sono rappresentati dalla tentazione elettoralistica e dalla tentazione efficientistica che può spingere a ripetere l'esperienza fallimentare delle organizzazioni politiche tradizionali.
Eviteremo questi pericoli se sapremo trovare di volta in volta giuste risposte ai problemi della nostra politica elettorale e all'uso del finanziamento pubblico che, dopo l'esito del referendum, torna a costituire per noi un pericoloso fattore di contraddizione.
Per il semplice fatto che siamo oggi una forza politica nazionale capace di gestire con relativa facilità presentazioni anche elettorali e di assicurare efficacia alle proprie rappresentanze elettive (cosa che sarà tuttavia meno facile senza una diffusione nel paese delle lotte e dell'organizzazione radicale), non possiamo ritenere che solo per questo sia automaticamente possibile ed opportuna la presentazione di liste radicali in qualsiasi circostanza, amministrativa, regionale e circoscrizionale.
Il caso Trieste
Ci sono voluti quindici anni di lotte extraparlamentari prima di riuscire a trasferirle attraverso una rappresentanza parlamentare all'interno delle istituzioni rappresentative. Non si può ora rovesciare questa esperienza e ritenere che si possa insediare il partito e le sue lotte attraverso le liste elettorali e le rappresentanze consigliari. Intraprendere questa scorciatoia significa esporre il partito a un sicuro insuccesso. Sul piano elettorale si raccoglie soltanto quel che si è seminato e non esistono rendite della politica nazionale che si può pretendere e sperare autonomamente sul piano locale.
Il caso Trieste non è una prova in contrario; ne costituisce anzi una conferma. Il successo lì è stato reso possibile da due fattori: l'esistenza dell'opposizione al Trattato di Osimo, sulla quale il Partito si era inserito a livello locale e di cui era stato un protagonista sul piano parlamentare, e l'impegno diretto nelle amministrative di Marco Pannella e dell'intero gruppo parlamentare. Non possiamo certamente ipotizzare la possibilità di una ubiquità di Pannella, né analoghi impegni del gruppo parlamentare. E dobbiamo dare atto ai compagni di Trieste e del Friuli Venezia Giulia che non si sarebbero presentati senza il verificarsi della seconda condizione. Il fatto che, essendosi verificata, non si sia stati in grado, per una disattenzione di carattere pratico, di presentare le liste regionali, è stato un grave insuccesso per il partito.
Solo a queste condizioni a Trieste e sul piano elettorale, il partito è riuscito a conservare l'immagine di una forza vincente e in crescita. Senza queste condizioni (e senza questi risultati) il partito trasmette l'immagine del mini-partito, dell'ennesimo partito di regime, come è avvenuto a Pavia in Val d'Aosta.
C'è chi a questo proposito suggerisce l'introduzione di riforme statutarie o almeno di norme di salvaguardia transitoria destinate a durare per alcuni anni. Potremo valutarne l'opportunità. Ma io ritengo che la prima e l'unica disciplina che valga davvero sia quella libertaria, che nasce dalla consapevolezza di ciascun radicale, o di ciascuna associazione o partito radicale: la consapevolezza di ciascuno di noi che tuteliamo un patrimonio collettivo e un patrimonio di quindici anni di lotte, di cui ciascuno deve rispondere a tutti gli altri e al disegno comune.
Il problema del finanziamento pubblico
L'esito del referendum ci ripropone negli stessi termini dello scorso anno il problema del finanziamento pubblico. E ci ripropone gli stessi rischi e le stesse contraddizioni. Personalmente ritengo che la soluzione da me proposta lo scorso anno in via eccezionale (alienare il finanziamento pubblico al gruppo parlamentare, in quanto soggetto diverso dagli organi del partito, completamente autonomo e libero da discipline di partito), non possa essere adottata in via ordinaria. Una cosa è infatti una soluzione eccezionale (che peraltro è una alienazione a un determinato gruppo parlamentare) in vista dello svolgimento del referendum, ed altra cosa è infatti una soluzione definitiva e istituzionale.
I vantaggi che la soluzione eccezionale ha assicurato sarebbero annullati dagli inconvenienti che una soluzione ordinaria e definitiva comporterebbe, il principale dei quali consistente in una riforma implicita dello statuto con la quale si finirebbe ad attribuire al gruppo parlamentare compiti che lo statuto non prevede. D'altra parte non ritengo che una soluzione eccezionale, che protrarrebbe nel tempo una situazione di incertezza, sia consigliabile anche se non si può certamente escludere.
No alle importazioni moralistiche
Proprio sulla base del dibattito avvenuto lo scorso anno, sono personalmente contrario ad ipotesi tendenti a creare un centro "ad hoc" per l'utilizzazione del finanziamento pubblico; innanzitutto per le stesse ragioni che sconsigliano l'assegnazione di questo compito al gruppo; e poi perché ho sempre rifiutato alcune impostazioni moralistiche che hanno avuto largo corso nel partito e secondo le quali il partito non doveva temere tanto alcuni meccanismi degenerativi nella sua vita interna e nella sua organizzazione, ma un uso direttamente politico di quei fondi anche se non finalizzato a dirette utilità di partito. Per questa ragione ho sempre rifiutato le suggestioni dei garanti esterni, le proposte di appaltare o erogare il finanziamento pubblico a progetti attuati da altri, le suggestioni di tipo assistenziale, ecc. La proposta di assegnare in via eccezionale, la spesa senza vincoli e controlli, alla autonomia del gruppo, era determinata anche e soprattutto dal fatto che il gruppo era pur sempre un soggett
o radicale.
L'utilizzazione diretta ci ripropone certamente tutte le contraddizioni individuate lo scorso anno: innanzitutto quella riguardante l'autofinanziamento, essenziale caratteristica statutaria del Partito; ma penso che il problema non si risolverà se non facendosene carico fino in fondo.
Una carta di utilizzazione dovrebbe essere innanzitutto carta dei fini per i quali "non" deve essere impiegato il finanziamento pubblico: "non" deve essere impiegato per l'organizzazione diretta o indiretta del partito, nazionale, regionale o locale (telefoni, affitti, ciclostili): "non" deve essere impiegato per organi di comunicazione gestiti direttamente o indirettamente dal partito (radio radicali, giornali e altro). Chiarito e confermato questo (e il modo migliore per chiarirlo innanzitutto a noi stessi è la volontà di colmare con i nostri mezzi il deficit, programmandone e assicurandone il ripianamento), non sarà difficile poi individuare i fini dell'utilizzazione: fini che impediscano che il finanziamento pubblico sia una contraddizione che il regime crea al partito, per farlo diventare un elemento di contraddizione ulteriore del regime.
I risultati dell'11 giugno
Concludo la mia relazione al c.f. con un appello ad evitare discussioni inutili e formalistiche sulle dimissioni di Paolo e sulla segreteria. La segreteria è pienamente in funzione, non l'abbiamo mai né sospesa né congelata: la sua attività "è consistita nel dichiarare sospesa l'attività nazionale del partito". Di questa attività risponderà al congresso, della cui preparazione per la parte che gli compete è pienamente responsabile. Se è questo il tema della discussione, è inutile. Se invece ciò che si vuole è dichiarare superata la sospensione delle attività nazionali, la segreteria fa bene a rifiutarvisi e il consiglio federativo contraddirebbe sé stesso: quella che è stata una decisione politica centrale per tutto il partito nel corso di questo anno, e di cui deve essere pienamente investito il dibattito e la sovranità del congresso, invece di costituire la presa di coscienza e un programma politico di svolta nella vita del partito, sarebbe svilita a una disgraziata e strampalata parentesi in un momento di
difficoltà.
I risultati dell'11 giugno sono i risultati di 15 anni di lotte nazionali, i risultati di ciò che di queste lotte siamo riusciti a trasmettere negli ultimi anni poche volte in televisione. Si pensi al mezzogiorno dove il partito, se si esclude Napoli, praticamente non esiste. Se non vogliamo costituire un partito di clienti, non abbiamo scorciatoie: raccoglieremo consensi, occuperemo con una politica e con un partito socialista e libertario, solo lì dove avremo seminato lotte autonome socialiste e libertarie.