di Francesco CiafaloniSOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.
(SAVELLI editore, ottobre 1978)
Indice:
Parte prima
I Politica e società (1376)
II Radicali sotto accusa (1377)
III Il Pr come partito bifronte (1378)
IV Radicalismo e socialismo (1379)
V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)
Parte seconda
Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)
Una sinistra liberale figlia del '68
di Francesco Ciafaloni
(»Argomenti radicali , n. 2, giugno-luglio 1977)
Malgrado la programmatica varietà delle iniziative, il sottolineato e talora paradossale rifiuto dei giudizi totali, delle adesioni globali (di cui sono un sintomo i problemi sollevati dalla ipotesi di una richiesta di iscrizione di Plebe) malgrado alcune pesanti valutazioni da sinistra, il ruolo e la funzione dei radicali non sembrano ambigui né vaghi.
Elementi caratterizzanti ne sono proprio il rifiuto della
totalità, delle teorie generali della società o della storia, la mancanza di una identità di classe, la pratica assenza (se si escludono talune posizioni egualitaristiche o iniziative moralizzatrici) dal terreno della lotta economica, la volontà di intervento diretto sulle istituzioni e sulle cose per la difesa dei diritti di libertà. Mentre i partiti neoleninisti (o neostalinisti) si sgretolano in una lotta intestina dicendo di voler rovesciare i rapporti di produzione e di potere, senza riuscire ad avere le adesioni di classe necessarie alla bisogna, l'unico spazio aperto all'azione diretta, spesso con risultati clamorosi, è rimasto quello degli interventi parziali del rifiuto degli aspetti più smaccatamente repressivi e violenti dell Stato e della società, del mutamento del costume, della denuncia. Si può parlare della ripresa, e positiva ripresa, in Italia, di una sinistra liberale che poteva ritenersi scomparsa con Giustizia e Libertà, e risorge come sinistra "libertaria".
Esistono naturalmente tra i radicali coloro che tendono ad attribuire all'azione diretta per la libertà o a comportamenti liberatori effetti rivoluzionari in senso proprio, cioè influenze dirette dirompenti sulle strutture fondamentali della società. Si sono letti su "Prova radicale" interventi che sostenevano il valore rivoluzionario della disgregazione del linguaggio e della pornografia; tesi peraltro non limitate all'Italia né tanto meno al Partito radicale. Chi, come è il mio caso, pensi che il linguaggio se si disgrega si disgrega da sé, mentre per produrre Babele programmaticamente ci vogliono forze altrettanto grandi di quelle necessarie a rovesciare un apparato produttivo, e che con la dislalia privata si arriva solo a non farsi capire, può pensare che anche tra alcuni radicali alligni la falsa coscienza.
Un'altra tesi che non condivido sulla funzione e la storia del Partito radicale (questa assai autorevolmente espressa) è quella che vede una continuità di lotta e di posizioni della sinistra liberale dal dopoguerra ad oggi e fa dei radicali l'unica opposizione nel paese fin dal '48 contro il compromesso realizzato dei cattolici e dei marxisti che si sarebbero spartiti il potere in tutti questi anni garantendo l'ordine e il conformismo nell'interesse delle due Chiese opposte ma convergenti. Risultano interamente espulse dal quadro le lotte e le trasformazioni sociali, i mutamenti produttivi, il grande risveglio della fine degli anni '60; i contrasti internazionali, Yalta, gli scontri dei servizi segreti, che non poco hanno contribuito a far versare le lacrime e il sangue di questi anni; e il fatto empirico assai meno drammatico ma non trascurabile della esclusione totale dei comunisti noti da tutte le sedi decisionali del paese, eccetto il parlamento e i consigli comunali. Viene invece dilatata a storia colle
ttiva la continuità di un impegno personale negli anni, certo degno di rispetto ma non trasformabile in fatto politico. Non mi sembra diverso lo sforzo di alcuni per cercare radici e continuità (in Morandi, in Curiel, nel caso di Merli) a frammenti di partiti neoleninisti. A me sembra importante cercare le origini, sociali ed ideali, delle aggregazioni politiche, ma non credo ai fili rossi perché le genealogie dei partiti si ostinano ad essere intrecciate assai più di quelle degli uomini. Chi voglia farne la storia non può dimenticare che i quadri e la base di Gl sono finiti in un arco di partiti che va dai comunisti ai liberali e che i radicali di oggi sono figli del '68 assai più che dei liberali di ieri, per quanto grande sia il peso culturale e formativo d chi è radicale da vent'anni e non da venti mesi.
Dicendo »figli del '68 intendo alludere naturalmente a tutte le influenze di movimenti e mutamenti sociali avvenuti su scala mondiale nei paesi industrializzati sul finire degli anni '60 e che in Italia hanno avuto come momento di esplosione e di crescita le lotte studentesche ed operaie del '68 e del '69.
L'esplosione di quegli anni ha avuto però carattere e aspirazioni globali; ha investito non solo la sfera delle libertà (in senso istituzionale e nel senso dei comportamenti) ma anche la sfera della produzione, della divisione e dell'organizzazione del lavoro, del tipo di consumi e della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro. E non sono mancati gli effetti e i successi anche su questi ultimi aspetti. E c'è stata anche una netta collocazione di classe, perché certo gli effetti maggiori sono stati raggiunti dalle lotte operaie. Che non si trattasse di velleità o di fantasie o di utopie è testimoniato dalla violenza stessa della risposta delle classi dominanti. Se hanno sparato tanto; se hanno messo bombe e fatto esplodere treni; se hanno dovuto stravolgere ed inquinare l'intera vita politica e civile del Paese, forse realmente l'ondata del mutamento era salita in alto. Purtroppo la capacità di tenuta, di organizzazione, di risposta, di progetto, di alleanze non è stata adeguata.
Oggi le lotte operaie non riescono a trovare nessuno sbocco in una linea sindacale rinunciataria da un lato (accettazione della contrazione salariale) e verbale dall'altro (proposte di intervento sulla produzione che non vanno mai oltre l'enunciazione di valori, per giunta imprecisa). E gli eredi politici diretti del '68 (indirettamente ed in parte lo è tutta la sinistra) sono frantumati tra una ala neoleninista o neostalinista priva di base operaia e un'altra libertaria, i radicali appunto.
Fino ad ora i radicali sembrano aver avuto una maggior coerenza e incisività; la loro importanza potrebbe anche crescere se la reazione alla violenza non si sa di chi, approvata da una parte minima della sinistra, dovesse portare come già in parte ha portato a un inasprimento della repressione istituzionale. Le tendenze alla formazione di uno Stato corporativo in Italia sono forti (corporativo è qui inteso nel senso storico di gerarchico »armonico , cioè senza conflitti espressi, totalitario, e non in quello, più diffuso nel movimento operaio, di particolare o categoriale).
Sono anche forti però le resistenze e in conflitti, espressi e non espressi. C'è quindi la necessità e la possibilità di lottare per la libertà e la trasparenza delle istituzioni. Se c'è il rischio che rifaccia capolino in una qualche forma lo stato di Gentile allora bisogna lottare per quello di Croce (non vorrei essere accusato di usare due riferimenti ambedue negativi e datati, perché nessun paese esce mai realmente dalle sue scarpe e di Gentile ce n'è talmente tanto in circolazione, a destra e a sinistra, da far paura).
A parte la battuta però nessuno a sinistra pensa alla difesa delle libertà nel senso della restaurazione dello Stato liberale. Molti radicali addirittura potranno sentirsi offesi anche solo dalla battuta.
Soprattutto è o dovrebbe essere consapevolezza di tutti che non si dà difesa delle libertà personali senza difesa della libertà economica; che non ci sono libertà, che non siano di tutti, e quindi anche e soprattutto degli sfruttati, degli oppressi, degli emarginati: anche e soprattutto degli operai. Non si può dimenticare che il movimento operaio, pur muovendo spesso da ideologie non »liberali è stato il massimo artefice delle libertà di questo paese.
Da queste osservazione per me risultano alcune delle non molte critiche che muoverei ai radicali; o meglio ad alcuni dei radicali, tra i quali emblematicamente Marco Pannella, il cui peso nell'immagine pubblica del partito è così grande per le considerevoli capacità intellettuali e per l'insolita abilità nell'uso della televisione.
Sono perfettamente d'accordo con tutte le »forzature dei radicali. Se tutti, anche coloro che non sono e non aspirano a diventare forza di governo, che hanno poteri istituzionali nulli, si chiedono ad ogni passo se per caso il dire la verità non faccia cadere il governo o se accusare i ladri non intasi le carceri o se il difendere comportamenti ampiamente legittimi ma mediamente non condivisi non guasti l'immagine, non si cambierà mai nulla di nulla. Sono altrettanto d'accordo che si può, si deve, dire alla televisione che Gentile era circa un chilometro più alto di Malfatti. Lo era proprio. Si può dire male di Lama; si può dire male anche di Di Vittorio, che pure per molti, anche per me, è ormai più un simbolo che una persona.
Non bisogna dimenticare però che la forza delle idee che i radicali hanno sostenuto sta in coloro che hanno creduto a Di Vittorio; che abbiamo vinto il referendum sul divorzio perché hanno votato "no" gli operai di Torino, di Milano, di Napoli e vinceremo negli otto referendum se li voteranno loro. Non credo che sarà la borghesia a votare per l'abolizione del codice Rocco o del Concordato.
Non sempre i comizi di alcuni esponenti radicali hanno dato il senso di questa consapevolezza. E pure si tratta in qualche caso di oratori che rappresentano senz'altro la sinistra dei radicali, che hanno pagato di persona, non accademici, certo non antioperai. Può darsi che si tratti di una sfasatura propria di un gruppo politico il cui peso culturale e d'opinione, la cui efficacia pratica è così enormemente maggiore del suo peso organizzativo (e speriamo lo resti perché è questa l'unica via di sopravvivenza).
Ma non vorrei dare consigli sul modo efficace di comunicare a chi certo lo fa meglio di me.