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Teodori Massimo - 8 gennaio 1979
Verso il referendum anti-nucleare
di Massimo Teodori

SOMMARIO: Ha suscitato contrasti il fatto che la richiesta di referendum abrogativo della legge 2 agosto 1975 n.393, che regola la localizzazione delle centrali elettronucleari in Italia, sia stata presentata non solo dagli "Amici della terra" ma anche da alcuni filonucleari.

Teodori respinge le critiche affermando che il referendum é uno strumento che semplifica al massimo le scelte riducendole a quella tra chi vuole rimettere ai cittadini determinate decisioni ed a chi è contrario. Fa poi notare, come sosteneva Nader, che il referendum è comunque portatore della conoscenza del problema in questione che vale di per sé somme ingenti di campagne informative.

Individua il problema cruciale nel riuscire a rimettere in moto una struttura politica militante in grado di portare in ogni angolo del paese il dibattito nucleare ed a raccogliere le firme.

Si rivolge poi al PSI affermando che non può stare a guardare.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Ottobre-Dicembre 1978, N. 10)

La richiesta di referendum abrogativo della legge 2 agosto 1975 n. 393 che regola la localizzazione delle centrali elettronucleari in Italia si è fatta nel segno della controversia. Ha suscitato contrasti, o perlomeno meraviglia, il fatto che insieme con il gruppo degli "Amici della Terra" accompagnati e guidati da Marco Pannella si presentassero alla Corte di Cassazione per firmare la richiesta abrogativa Aurelio Peccei e Loris Fortuna: - il primo, esponente del Club di Roma che propugna una politica energetica ragionata sottratta ai tecnici dell'ENEL e del CNEN; il secondo, presidente della Commissione industria della Camera, notoriamente filonucleare che è favorevole ad affidare al responso popolare la decisione in materia proprio per legittimarne la portata.

Le maggiori reazioni non sono venute dall'allarme dei pronucleari ma dagli anti-nucleari per il modo in cui, quasi di sorpresa e improvvisamente, la richiesta è stata avanzata il primo dicembre scorso, dai radicali - così è stato generalmente percepito il segno politico della mossa, - dopo che lo stesso PR nel suo massimo consesso deliberativo, il congresso di Bari di novembre, non aveva iscritto il referendum tra gli obiettivi annuali non ritenendolo immediatamente agibile, e per ragioni di opportunità politica e per ragioni tecnico-giuridiche.

Non c'è dubbio che sono stati due avvenimenti accaduti anch'essi inaspettatamente nel corso di novembre a determinare l'accelerazione della scelta referendaria come via necessaria di azione politica nella lotta antinucleare: dapprima i risultati del referendum austriaco che inaspettatamente (vedi "I nucleari e la democrazia referendaria austriaca" di John Lambert in "AR" 8/9) segnavano, sia pur di strettissima misura, la vittoria degli anti-nucleari con ripercussioni politiche e psicologiche internazionali, trattandosi della prima consultazione referendaria tenutasi in Europa sulla materia; poi, la imposizione governativa - ancora una volta per decreto legge - che avrebbe dovuto costringere il Molise ad accogliere nelle sue terre una centrale contro il parere di tutte le assemblee rappresentative locali e regionali oltre che del movimento popolare.

Ma, ciò detto, per valutare appieno le varie opzioni all'interno della scelta anti-nucleare nonché, le rispettive ragioni e i possibili esiti, conviene non indugiare troppo sulle polemiche sollevate a proposito del "chi" e del "come" della richiesta abrogativa, ed entrare invece nel merito della questione politica (non già della "questione nucleare" in sé quanto dell'azione di chi è all'interno del campo anti-nucleare).

Va innanzitutto affermato che non è accettabile la critica basata su pregiudiziali teoriche di coloro i quali fanno carico ai radicali di aver accettato la compagnia di Fortuna e di Peccei dal momento che entrambi gli esponenti hanno senza riserve aderito alla posizione referendaria, anche se per ragioni magari non coincidenti con quelle di chi lotta frontalmente contro la scelta nucleare: critica quindi che o è moralistica o è diretta alla contestazione proprio della scelta referendaria che per sua natura comporta l'adesione puntuale ad uno strumento di azione sul quale si formano specifiche convergenze e divergenze. Lo si è detto tante volte: il referendum è uno strumento che semplifica al massimo le scelte riducendole a quella tra chi vuole rimettere ai cittadini determinate decisioni e chi è contrario; e poi tra chi propugna l'abrogazione e chi il mantenimento di una determinata norma. La logica referendaria o la si accetta con tutto ciò che essa comporta, o la si respinge precludendosene la capacità di

impatto.

Ed è anche oziosa l'argomentazione della mancanza di consultazione preventiva del cosiddetto "movimento antinucleare" nelle sue svariate componenti e negli innumerevoli aspetti, per lo più non organizzativamente e politicamente formalizzati, attraverso cui esso si presenta. Giacché, una tale procedura - se pure fosse stata possibile, e ben si sa che in termini di movimenti sociali e di contestazione, è assai problematico individuare quanti intendono farsi soggetti politici attivi anche nel campo dell'azione istituzionale (questo è lo scopo del referendum) - non avrebbe consentito né la tempestività di decisione necessaria di fronte al rinnovato incalzare delle realizzazioni del piano nucleare, (decreti leggi per localizzazioni, nuovi stanziamenti al CNEN, ripresa della campagna intimidatoria...), né la proposizione di una forma di intervento politico che, proprio per il suo carattere ultimativo, pone la questione dell'azione in termini ridotti all'osso fra l'adesione e il rifiuto annullando ogni possibile sf

umatura intermedia.

Alle critiche sugli aspetti metodologici ("perché i radicali?"; "perché senza consultare nessuno?"; "il referendum è deviante e bisogna aprire un dibattito di massa"; "occorre un preventivo e ampio confronto unitario con tutte le forze che lottano contro il nucleare"...) si aggiungono tuttavia oggi una serie di obiezioni e perplessità non tutte sostenute dalla stessa linea di ragionamento, anzi talvolta tra loro contraddittorie. Vale la pena di esaminare in dettaglio le principali.

"Il referendum non è maturo"

E' l'obiezione di coloro che ritengono che in politica, e in particolare nel rapporto tra scelte politiche e orientamenti collettivi, vi siano dei tempi "naturali" di maturazione. Non contrari in linea di principio al referendum, l'obiezione che il referendum non sarebbe maturo parte dal presupposto della scarsa coscienza e quindi maturazione del problema nella pubblica opinione e della necessità quindi che esso venga sottoposto al responso popolare solo dopo che il processo di informazione si sia compiuto.

Tale osservazione prescinde innanzitutto dal fatto che nei suoi tempi di realizzazione, anche se saranno raccolte le firme nella primavera del 1979 l'eventuale votazione referendaria non si potrebbe tenere prima della primavera-estate 1980, e cioè ad una relativamente grande distanza dai tempi politici d'oggi. Ma questa giusta preoccupazione sullo stato di informazione popolare, condizione essenziale per uno scontro nel paese basato su dati di fatto e sull'allargamento della coscienza dei pericoli nucleari come premessa necessaria ad una vittoria degli abrogazionisti, non tiene conto che la stessa informazione e maturazione sui problemi sono strettamente connesse con il meccanismo lungo e complesso dell'azione referendaria, sia con la campagna per la raccolta delle firme, sia con la pressione che dovrà essere esercitata sui grandi mezzi di comunicazione di massa (pubblici e non) affinché facciano conoscere i dati del problema, sia infine con la sollecitazione a dibattere, prendere posizioni e intervenire che

da un fatto così stringente come il referendum deriverà a tutte le grandi forze organizzate, politiche e sindacali.

Ci pare che sia più che mai vero in Italia, quello che Ralph Nader sosteneva per gli Stati Uniti, che cioè il referendum comunque è portatore di una informazione e di una conoscenza del problema in questione che vale di per sé somme ingenti di campagne informative, ed è quindi agente di sorprendenti processi di accelerazione dei dati informativi.

"Un referendum `radicale' restringe le possibilità di successo"

E' l'obiezione di coloro che avrebbero preferito un referendum promosso con l'accordo preventivo sia della miriade di gruppi e comitati anti-nucleari presenti nel paese, sia delle associazioni ambientaliste (in primo luogo Italia Nostra e WWF), sia, sopratutto, delle forze politiche e sindacali. Come sa ognuno che ha un minimo di esperienza di azione al tempo stesso popolare e istituzionale, una tale condizione sarebbe stata impossibile. Infatti, se è possibile provocare una convergenza tra forze organizzate, e non solo tra cittadini, nell'uso della battaglia referendaria per dirimere la questione nucleare o risolverne un aspetto, questo può avvenire solo nel momento in cui il meccanismo si mette in moto e taglia netto con tutti i negoziati e le mediazioni che caratterizzano il comportamento abituale delle forze e di gruppi organizzati in Italia. E, sopratutto, di fronte ad una questione che sicuramente divide le diverse forze per linee interne e non tanto tra loro - si vedano i sindacati, si veda il PSI, pe

r fare i due casi più evidenti - l'unico modo per accelerare i processi di chiarificazione con scelte di campo è quello di proporre un fronte di lotta puntuale come sbocco operativo del dibattito in corso che comunque deve procedere.

Saranno le scelte, le convergenze e la capacità di effettiva mobilitazione a dire nei prossimi mesi se l'unico strumento agibile in termini unificanti nazionali per rimettere la scelta nucleare in discussione per volontà popolare, rimarrà prevalentemente o esclusivamente nelle mani dei radicali che lo hanno proposto (a ragione o a torto più tempestivamente di altri), o se, al contrario, su un fronte già delineato si attesteranno anche nella fase propositiva, organizzativa e mobilizzatrice altre forze, altri gruppi, altre energie.

Il segno sotto cui lo scontro referendario prenderà forma allargandosi, così come è già avvenuto nel 1974 e nel 1978, potrà essere quello della "rosa nel pugno" da sola, o della "rosa nel pugno" insieme con il "garofano", con la "falce e martello" e con "il pugno chiuso", con il "panda" e con il "sole rosso che ride", o potrà superare e incorporare tutti questi simboli per unificarsi all'insegna di altri simboli nuovi ed inventati. Il verificarsi di una di queste alternative dipenderà solo da chi scenderà concretamente in campo facendo la propria parte senza lasciare all'evolversi "naturale" delle cose la battaglia politica, civile e le scelte cosiddette tecniche ad essa connesse.

Ridefinire il programma di lavoro

Di fronte a discussioni che oggi rischiano di impaludarsi in inutili recriminazioni di metodo, a noi sembra perciò che i problemi cruciali siano altri. Innanzitutto per gli stessi radicali del Partito Radicale la sfida è di rimettere in moto una struttura politica militante in grado di portare in ogni angolo del paese il dibattito nucleare in tutte le sue molteplici e complesse implicazioni e su di esso mettere a punto quella macchina così difficile che consiste nella raccolta delle firme. Ci siamo già più volte soffermati nel segnalare come avesse avuto del prodigioso - ma del prodigioso possibile - raccogliere con il lavoro volontario di qualche decina di migliaia di militanti le firme per gli otto referendum del 1977, e come quella indicazione di azione fosse stata in realtà, insieme ai contenuti, una delle più preziose indicazioni date dai radicali alla democrazia italiana in alternativa alla disperazione della P38 e alla dolce rassegnazione nell'impossibilità di "fare qualcosa" per partecipare alla dete

rminazione del proprio destino collettivo.

I radicali devono, essi stessi per primi, riorientare i propri programmi di lavoro politico assegnando un posto centrale alla nuova sfida referendaria. E dovranno combinare questo impegno con eventuali altre proposte referendarie omogenee (vedi l'anti-caccia) nonché con gli impegni già presi e che saranno presi nelle diverse regioni per attivare sul nucleare e su altre questioni gli strumenti di democrazia diretta.

Gli altri gruppi e forze antinucleari devono compiere una scelta preventiva - quella cioè di accettare o rifiutare la via referendaria. E, se accettata, devono entrare subito in campo, ognuna con la propria caratteristica, la propria fisionomia, le proprie forze. E, se rifiutata, devono assumere la responsabilità di indicare altri strumenti di azione politica, chiarendone gli scopi e il grado di efficacia.

Da qualsiasi punto di vista si affronti l'argomento, non si può oggi stare a guardare. Lo diciamo innanzitutto ai socialisti del PSI, divisi da una controversia interna ancora non chiara che rischia una volta di più di dilaniare un partito in cui probabilmente la sensibilità antinucleare, come su tanti temi analoghi, è assai diffusa.

Il PSI non può stare a guardare

Non è solo per tradurre la "nuova immagine" socialista in "nuova realtà" che il PSI deve scegliere una strada da percorrere con risolutezza, ma è inerente alla qualità stessa della scelta nucleare l'impossibilità che su di essa si tenga una posizione ambigua, magari risolta accordando libertà di coscienza per i militanti. Il nucleare non è un problema di diritti civili, non riguarda la coscienza del singolo: pur se coinvolge anche questa dimensione, è certo che con l'accettazione o il rifiuto dell'energia nucleare si condizionano natura e finalità della crescita, si determinano fondamentali questioni economiche e si ipoteca il cosiddetto "modello di sviluppo" di cui tanto si è discusso; con le centrali nucleari si scelgono inevitabilmente determinate conseguenze politiche e sociali ; si mettono in moto processi con inimmaginabili effetti biologici, ambientali ed ecologici. Ed è perciò che il tema nucleare è oggi - più di ogni altro - un "tema progettuale", che comporta radicali opzioni economiche, sociali, p

olitiche, esistenziali: e di fronte ad esso una forza che vuole essere attenta a ridefinire una moderna prospettiva socialista e democratica non può tirarsi indietro rifugiandosi in proposizioni ideologiche ben altrimenti astratte.

Così come non può stare a guardare la miriade di gruppi che fanno capo in qualche maniera alla corrente "operaistica" della sinistra che ama definirsi "di classe" (leggi Democrazia Proletaria). Se certamente il movimentismo mostra la sua legittima forza nel momento della contestazione sociale, locale e regionale, oggi di fronte ai meccanismi operativi che si sono messi in piedi, di fronte alle lobby che dal piano internazionale scendendo a quello nazionale penetrando nelle istituzioni governative, nei partiti, nei comitati e negli enti, (su questo aspetto "Argomenti Radicali" preannuncia una grande inchiesta per il prossimo numero) la pur essenziale e fondamentale contestazione di Montalto o del Molise non è più sufficiente a fermare la macchina operativa. In Germania un primo successo nazionale del movimento anti-nucleare è venuto dall'azione giudiziaria di fronte alla Corte suprema, in Austria dal referendum, in Italia occorre battersi con il voto insieme che con sit-ins. La necessaria preoccupazione di co

involgimento del movimento nella sua dimensione galattica, non deve annullare la ancora più importante preoccupazione dell'efficacia dell'azione generale.

Una grande occasione per il movimento operaio e sindacale

Al movimento sindacale infine si presenta una grande occasione per intervenire con proposte alternative nel cuore dei processi produttivi. Sappiamo quanto difficile sia, sopratutto in un momento come questo, rispondere alle argomentazioni che fanno centro sul ricatto occupazionale, e quanto facile sia diffondere posizioni demagogiche che fanno leva sulla "crisi energetica" e sulle sue conseguenze sul lavoro. Ma sappiamo anche che di già un intero sindacato come l'UIL propone ufficialmente un riesame politico dell'intera materia energetica, e che i più avvertiti e qualificati suoi dirigenti, così come notevoli e significativi settori dell'FLM sono pronti ad esplorare la scelta antinucleare per imboccarla con tutto ciò che essa comporta. A questi compagni responsabili del movimento operaio e sindacale non possiamo non dire che la loro giusta prudenza deve costituire un elemento di forza e non di ambiguità al momento opportuno in cui inevitabilmente si concreteranno i fronti contrapposti: perché allora più faci

lmente le stesse masse operaie comprenderanno le rinunzie da fare se presentate con nettezza, come lo possono essere, congiuntamente all'esplorazione di nuovi sbocchi occupazionali; e se saranno messi in evidenza con la chiarezza dei dati di fatto tanti ingannevoli discorsi che puntano sulla paura dell'oggi invece che sulle speranze del domani.

 
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