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Cederna Camilla - 1 aprile 1979
Una strage di verità
Camilla Cederna

SOMMARIO: Il 12 maggio 1977 la polizia carica migliaia di manifestanti che partecipano a Roma ad una manifestazione nonviolenta del Partito radicale per la raccolta delle firme sugli "8 referendum contro il regime" (abrogazione del Concordato, dei tribunali militari, dei reati d'opinione contenuti nel Codice penale, di parti della legge manicomiale, della legge che attribuisce alla polizia poteri speciali in materia di arresto, perquisizione e intercettazioni telefoniche, della legge che attribuisce ai partiti un consistente finanziamento pubblico, della "Commissione inquirente" - lo speciale "tribunale" composto da parlamentari per il giudizio preventivo sui reati compiuti dai ministri). Una giovane, Giorgiana Masi, è colpita a morte da colpi di pistola e molti altri manifestanti vengono feriti. Il Ministro degli interni nega che la polizia abbia mai fatto uso d'armi da fuoco. Il Pr dimostra invece, attraverso un filmato che riprende un agente di polizia mentre spara ripetutamente contro la folla e centinai

a di fotografie che riprendono agenti armati, travestiti da "autonomi" che il Ministro dell'interno Francesco Cossiga aveva mentito.

Attraverso la pubblicazione di un "Libro Bianco" che raccoglie le testimonianze di tutti coloro che avevano assistito alle brutali aggressioni della polizia, il Partito radicale dimostra che c'era stato un tentativo di strage e presenta una denuncia.

Il 15 gennaio 1979, il Pubblico ministero Giorgio Santacroce chiede la chiusura del processo e l'archiviazione del procedimento per l'uccisione di Giorgiana Masi "per essere rimasti ignoti gli autori dei fatti".

Nella prefazione al "Libro bianco", Camilla Cederna ripercorre tutte le fasi dell'"Affaire", dal tentativo di strage dei 12 maggio a quella, altrettanto grave, compiuta nei confronti della verità da parte delle forze politiche, della stampa e soprattutto dalla magistratura.

(Libro Bianco del partito radicale sull'uccisione di Giorgiana Masi e sui fatti del 12 maggio 1977: "Cronaca di una strage" - a cura del Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei - aprile 1979)

Una morte scomoda e del massimo imbarazzo politico per il nostro governo è stata quella di Giorgiana Masi, diciannove anni, di cui si è ben presto conosciuto il patetico visetto dali occhi intenti in una fotografia formato tessera. Una morte avvenuta in un giorno che doveva essere soltanto pieno di letizia, di suoni e di canti, ma che rimaneva pur sempre un giorno ingombrante e scomodo anch'esso per i potenti (si raccoglievano le firme per i referendum, di ora in ora andava crescendo il numero delle firme), e che oltretutto ricordava una data spinosa per gli alti democristiani: era il 12 maggio, l'anniversario della vittoria per il divorzio. Una data che nella nostra storia recente ha contato forse più di ogni altra.

Che l'uccisione di Giorgiana Masi si sia trasformata in un peso intollerabile per chi comanda, lo dimostra il fatto che a 20 mesi di distanza dalla caduta a terra della giovinetta trafitta da un proiettile, a 20 mesi dalle sue ultime parole appena mormorate "Oddio che male!", nessuna indagine è stata condotta fino in fondo, nessuna comunicazione giudiziaria è stata inviata ai responsabili: ancora oggi ufficialmente non si sa quanto è avvenuto quel giorno: chi ha sparato, chi ha dato gli ordini a carabinieri e poliziotti di agire in modo così iniquo senza provocazione da parte dei cittadini e con deliberata tracotanza, "spintonando" e "strattonando" (sono i nuovi versi della violenza minore), quindi sparando candelotti e poi picchiando a sangue il caduto già ferito, infine sparando e uccidendo: il trionfo dell'efferato sopruso in una giornata di sole.

Purtroppo ne abbiamo visti tanti, di ragazzi morti per le strade dal 70 a oggi, in quelle pose di disperato abbandono, e tutt'intorno la gran chiazza di sangue: abbiamo udito dichiarazioni di ministri che il giorno dopo capovolgevano la verità e caroselli di bugie di funzionari di polizia e semplici agenti: abbiamo assistito tanto a complicati giochi di bossoli che sparivano e ricomparivano per poi sparire un'altra volta, come alla manipolazione delle pistole, mentre i testimoni oculari costantemente inascoltati, si sgolavano a raccontare quanto avevano visto. E in qualche caso, bisogna ammetterlo, la verità è venuta a galla (ma molto faticosamente e dopo anni di lavoro di giovani accaniti avvocati); così qualche poliziotto, agente o capitano, sia pure con grande mitezza, è stato condannato per aver sparato o ucciso, o per aver dato ordine di sparare e uccidere.

Nel caso di Giorgiana Masi, da parte del governo e delle autorità poliziesche, nonostante la quantità di testimonianze tutte concordi, è stata tessuta una trama di menzogne estremamente spessa, e delle testimonianze scomode, discordanti cioè con la verità ufficiale buona per il governo, non si è voluto tener conto. Tanto più pesava questa giovane vita stroncata, e tanto più si voleva far finta di niente: banchi semivuoti nell'aula del Parlamento durante tutti i dibattiti sui fatti del 12 maggio, ministro e sottosegretario degli Interni che invece di dir qualcosa che si avvicinasse alla verità, andavano avanti per giorni e giorni a leggere il loro piccolo bollettino di polizia, mostrando freddezza e insofferenza (forse paura), nell'ascoltare le repliche di chi era stato coinvolto direttamente nella mischia.

Al punto di arrivare a quello che può essere paragonato a un dialogo fra sordi: da una parte i protagonisti più importanti (per esempio parlamentari, che, oltre ad essere testimoni, erano stati anche duramente picchiati), e il filmato che dava dei fatti una versione inequivocabile mentre dalla parte di quelli seduti più in alto, sempre il solito ritornello: nessuno ha sparato, nessuno ha dato ordini di sparare ecc.

I potenti saranno poi sbugiardati, e perfino dal questore? Sì, ma come in tanti altri casi, la maggioranza unita dalla cattiva coscienza è andata oltre la semplice bugia, ha chiuso la partita, ha dato il suo bel colpo di spugna, della morte della ragazza ha incolpato i radicali e il loro comizio (i radicali avevano dichiarato che di comizi non ne avrebbero tenuti e avevano mantenuto la parola).

Neppure un Dario Fo in gran forma potrebbe darci una rappresentazione del comportamento dei poliziotti in quel giorno: ne uscirebbe una farsa del tutto incredibile in cui la stupidità si unisce alla più dissennata violenza ed ecco gli agenti "travestiti da giovani", ma con la pistola, o da teppisti da borgata, come li descrivevano quasi tutti i giornali e i più responsabili dei cronisti, capelli lunghi, jeans stinti e trasandati, e fazzoletti al collo; se no camuffati da autonomi, maglietta, tascapane e pistola in cintura. Ci sarà anche un vero campione del travestimento, che in poche ore si cambia vari più o meno vistosi giubbotti. E sono così sciocchi, che, benché si fingano dimostranti, a un certo punto se ne dimenticano e si avvicinano a una jeep della polizia per prelevare il manganello di dotazione; se no con una spranga in mano e il fazzoletto sul viso, immemori della mascherata e della parte che devono recitare, si mettono a cianciare e a sfumacchiare come niente, insieme agli agenti in divisa.

C'è chi prende per compagni quelli col fazzoletto rosso, ma: "Vai a casa a far la calza!", gridano inopinatamente questi qui alla ragazza che chiede un'informazione, mentre altri, i funzionari veri, ma che sembrano soltanto caricature, tanto son paonazzi urlanti ed eccitati, dicono all'on. Domenico Pinto, picchiato e fatto rimbalzare più volte sul marciapiedi: "Se lei è un deputato non ce ne frega niente!" e anche "E' lei l'onorevole? Be', mi fa schifo" e "Lei fa politica? Se ne vada via in fretta, stronzo!" Finché, in un crescendo di finezza poliziesca, dopo aver mollato un pugno sul petto di un fotografo: "Mò, ti si strizzano le chiappe, finalmente!" E sequestrano macchine fotografiche, calpestano occhiali, strappano antenne alle radioline: "Capaci che questi qui si comunicano fra loro!"

"Serrate le fila!" grida un tale ai carabinieri intorno a dei dimostranti pacifici e del tutto inoffensivi che stanno seduti per terra, o ad altri ritti con le spalle al muro e le braccia in alto, come nel ghetto di Varsavia. "Guardie a me!" urla un cianotico commissario con proterva insolenza, e una ventina di celerini si slanciano contro un gruppo di giovani manganellandoli, e giù calci (di fucile) sulle teste, altrimenti calci (con lo scarpone) negli stinchi. Una raffica di mitra parte da un'autoambulanza: dietro un'auto in sosta, un finto dimostrante spara a braccio teso contro uno di quelli veri, per fortuna sbagliando il bersaglio, e si moltiplicano le cariche senza motivo, pulmini blindati in testa, agenti in borghese, con pistole in mano che avanzano a ginocchia piegate al riparo del pulmino. (C'è un medico disposto a testimoniare d'aver medicati alcuni giovani saliti da lui durante gli scontri: via un proiettile da un braccio o da una spalla, fasciate ferite da candelotto o da calcio di fucile).

Sono già cinquemila gli agenti che circondano piazza Navona, e già da parte dei più scalmanati si sta facendo circolare la voce che i manifestanti sparano e feriscono gli agenti: si cerca il ministro degli Interni Cossiga che alle undici non riceve nemmeno le telefonate di persone particolarmente qualificate a dare un giudizio sugli avvenimenti. Per esempio Luciano Lama, segretario della Cgil, e poco dopo il ministro rifiuta di parlare col presidente del gruppo socialista della Camera, on.Vincenzo Balzamo, indignato per il divieto del sit-in e per l'iniquo contegno della polizia. Dopo mezz'ora Cossiga farà sapere che "piazza Navona non gode di nessuna forma di extra-territorialità che impedisca la presenza delle Forze dell'ordine"; passa ancora poco tempo ed è di nuovo latitante. Invano cerca di parlargli una delegazione del PSI, DP e PR che ritengono inaccettabile il divieto di manifestare. Alle quattro meno un quarto cominciano le sue bugie assortite. Sono i dimostranti che attaccano i tutori dell'ordine c

ostretti dunque a far uso di "artifizi lacrimogeni". I dimostranti lanciano bombe molotov, accendono benzina, rendono difficile l'intervento della Forza pubblica, e Cossiga parla di "accresciuta tensione, di aberrante bravata". Né attribuisce tensione e bravata alle Forze dell'Ordine, così all'indomani sarà smentito da tutti i giornalisti che erano presenti. Una ragazza muore colpita da un proiettile all'addome, egli aggiunge, si arrestano undici persone per tentato omicidio, lesioni personali e porto d'armi abusivo.

Più tardi altra comunicazione. Il ministro parla delle zone di piazza S.Pantaleo e largo Argentina, di barricate, di barriere di fuoco. La verità è che verso le cinque, a causa delle cariche di ingiustificata violenza della polizia, il traffico è come impazzito, il centro storico è paralizzato; in mezzo al denso fumo dei candelotti si continuano a sentire i secchi schiocchi degli spari: l'impressione dei dimostranti è che si voglia cercare un morto a tutti i costi.

Il giorno dopo Cossiga comincia a spiegare meglio i fatti ripetendo di continuo il suo concertino. I radicali non saranno violenti, ma oltre alle violenze dirette (molotov, spranghe, "travisamenti" e P.38) c'è anche un'incontrollabile violenza di non meditate parole che aprono la porta alla violenza. I radicali dunque si sono dimostrati assolutamente privi di senno, mentre la polizia ha dimostrato d'aver grande senso di prudenza e di moderazione... Gravi atti di violenza sono stati compiuti da estremisti facinorosi con la partecipazione di chi ha voluto con imprudente ostinazione una manifestazione che si sapeva avrebbe radunato bande e gruppi dediti alla provocazione e alla violenza... E' ridicolo e grottesco voler far apparire il ministro degli Interni come il "ministro della repressione".

Ben nutrito il catalogo delle menzogne che poi avanzano in un supercauto crescendo di supercaute ammissioni dopo quello che a malincuore deve aver letto sui giornali. Il 13 maggio il ministro dice che la polizia è stata aggredita da guerriglieri che sparavano, affermando che non c'erano agenti in borghese; il 15 dichiara che gli agenti in borghese c'erano ma non erano armati; passa un giorno soltanto e gli agenti in borghese erano sì armati ma non hanno sparato; il 17 afferma che nessun poliziotto ha sparato, nemmeno fra quelli non in borghese; il 18 chiude la bocca spiegando che la Magistratura ha appena aperto un'inchiesta.

E gli altri? Il demoproletario Massimo Gorla, anche lui maltrattato e picchiato dalle forze dell'ordine più o meno travestite ("troppo poco" è il commento del fascista Pino Rauti), è indignato per quanto dice il ministro, "La responsabilità non cade tanto sul singolo poliziotto quanto sul governo che ha concepito e imposto questa operazione di polizia". E' una delle pochissime voci di dissenso insieme a quelle di Pinto, Corvisieri, Cicchitto e Pannella ("il ministro di polizia ha qui oltraggiato la verità e il Parlamento"), perché il liberale Bozzi approva il divieto di manifestazione e così moraleggia: "disobbedire alla legge è un atto di violenza". Manco, di Democrazia nazionale, applaude il ministro, e trae anche lui le sue originali conclusioni: nelle manifestazioni anche non violente si inseriscono sempre i manovratori della guerriglia. Il democristiano Bernardi se la prende con Pinto: "Non si può essere nel Parlamento e extraparlamentari insieme", poi cita la Bibbia: "l'abuso invoca l'abuso e il male i

nvoca il male". Quindi, per finire in gloria: "Se volete il fuoco della rivoluzione, prendetevi anche le ficozze che ne derivano" (allusione ai bernoccoli cresciuti sulla testa di Pinto e Gorla in seguito alle manganellate). Per bocca di Ugo Spagnoli, i comunisti cominciano bene deplorando il divieto e la decisione di Cossiga, ma se ne pentono subito, e addossano la colpa di tutto ai radicali, emettendo un proverbio anche loro, analogo a quello degli altri, di estrema destra e di centro: "quando si lancia una sfida, la provocazione si infiltra e si trova a suo agio". Idem il repubblicano Mammì che vede gli avvenimenti del 12 maggio come frutto di irresponsabilità e assurda sfida: non c'erano forse gli autonomi con la pistola? Come il liberale Costa che fa ricadere tutte le responsabilità sugli organizzatori "che hanno voluto violare la legge e forse hanno voluto il disordine".

Infine il "Messaggero" dai giornali della DC sarà accusato di essere "un vero e proprio portavoce dell'eversione", solo perché i suoi redattori hanno smentito Cossiga, riportando quello che hanno visto, e tanto per fare soltanto un esempio, l'agente in borghese appostato tra le auto con la pistola in pugno. Ecco la sua fotografia, ecco l'identificazione dell'agente. A questo punto il coro di altri quotidiani tra cui il "Corriere della sera", "La Repubblica", "Paese sera", "Il Manifesto" si affianca alla voce e alle testimonianze del "Messaggero".

Per tutto il pomeriggio, è il senso degli scritti evidentemente diventati tutti "portavoce dell'eversione", in corso Vittorio tra Piazza della Cancelleria, piazza San Pantaleo e via dei Baullari, hanno agito in sincronia con i reparti degli agenti in divisa uomini in borghese e armati, i quali, essendo alle dirette dipendenze dei funzionari di polizia che dirigevano le operazioni, hanno a più riprese aperto il fuoco in direzione di Campo dei Fiori. La polizia ha agito con brutalità sproporzionata, quando fronteggiava cittadini inermi. Solo la polizia ha usato le armi, anche quando sono entrate in campo squadre di studenti. Quando, dalle diciannove in su, i disordini si sono spostati verso Trastevere (dove un carabiniere è stato ferito a un polso, e Giorgiana è stata trafitta a morte), l'atmosfera si era ormai surriscaldata e avvenivano episodi di vera e propria guerriglia urbana. Insomma, dall'attacco a chiunque si avvicinasse a piazza Navona, è derivata una situazione oppressiva verso cittadini inermi, non

organizzati e nonviolenti, una situazione che a sua volta ha innescato un meccanismo estremamente pericoloso, di grande gravità. Inutile nella prefazione elencare tutte le violenze diligentemente documentate e illustrate in questo Libro bianco completo delle ormai celebri fotografie, il commissario Giovanni Carnevale, cravatta a pois e P 38 in mano, l'agente Giovanni Santone, che striscia e spara e i loro complici sempre vestiti come dimostranti, ma con i manganelli alzati e i revolver spianati. Un drammatico strumento d'indignata chiarezza.

Ed ecco le tappe della rabbiosa reazione a bugie, indifferenza, affossamento. Il 6 giugno il gruppo radicale denuncia Cossiga per attentato ai diritti dei cittadini. Il 29 luglio sempre lo stesso gruppo presenta il Libro bianco al procuratore della repubblica di Roma; operazione indolore, com'era prevedibile, che non lascia nessun segno. Dialogo inimmaginabile tra Pannella e il sottosegretario agli Interni Lettieri che Cossiga aveva preferito delegare al suo posto, a quattro mesi di distanza dai fatti, cioè il 24 ottobre '77 in un'aula, come al solito in queste occasioni, sonnacchiosa e semivuota. Ci sono le prove, fà Pannella, sono spiegate finalmente le troppe violenze con le immagini a fianco, nulla è inventato, giornalisti e fotografi non hanno fatto altro che il loro dovere.

Lettieri dapprima si offende per gli aggettivi "assassini e vili" attribuiti dal leader radicale ai poliziotti, quindi in tono monotono legge un documento burocratico il cui sugo è questo: è più che legittimo disporre l'impiego di personale in abiti civili nei servizi di polizia giudiziaria; comunque questo personale non ha sparato pur avendo in mano la pistola. Necessario d'ora innanzi proibire le manifestazioni nel centro di Roma; necessario l'impiego di speciali squadre antiterroriste.

5 novembre '77. Conferenza stampa durante la quale si presenta il filmato: si vede agire il solito Santone ed altri pressappoco vestiti come lui, che prendono la mira e sparano.

28 novembre. Altra seduta alla Camera in cui il governo conferma la sua complicità con la questura di Roma. ("E' Cossiga invece che ha diretto minuto per minuto, lui in persona, questa operazione di strage" dice Pannella). I parlamentari sbadigliano.

23 dicembre. Rimosso il questore di Roma Domenico Migliorini. Subito dopo, com'era immaginabile, scaricherà su Cossiga la responsabilità dei fatti sanguinosi del 12 maggio 77, dato che non ha fatto che attenersi in ogni momento alle precise indicazioni e disposizioni del suo ministro.

Più che stimolante è la lettura attenta del Libro bianco che racconta in tutta la sua drammaticità questa storia contemporanea esemplare. Un delitto di cui è responsabile uno dei bracci violenti dello stato. Il solito sipario di bugie che cala dall'alto, guai ad ammettere che i tutori dell'ordine ancora prevaricano, si comportano come pazzi, sparano e nascondono la mano, uccidono e incolpano chi sta dall'altra parte. Non bastano le prove, non servono le documentazioni fotografiche che inchiodano agenti e superiori alle loro pesanti responsabilità. Le menzogne dall'alto sono di basso livello, sono volgari scappatoie, non si contano le contraddizioni, si fà di tutto per sfuggire agli interrogatori diretti, la difesa da parte dei potenti è come un disco incrinato, scalfito e rotto, sempre la solita solfa maledettamente stonata, e come sempre in casi come questi, i morti si dimenticano, a furia di bugie è come se fossero uccisi un'altra volta, le responsabilità non si cercano, a volare per aria a un certo punto

son soltanto gli stracci (v. il questore).

Nel processo, contro ignoti naturalmente, Angelo e Vittoria Masi, padre e sorella di Giorgiana, e la madre Aurora Mallozzi si sono costituiti parte civile. All'inizio del 1978 cambiano difensori nominando Luca Boneschi e Franco De Cataldo. Una prima memoria viene presentata dai due avvocati il 16 marzo.

Essi propongono un'attenta lettura delle cronache dei quotidiani sugli avvenimenti del 12 maggio e del Libro bianco, un accurato esame dei documenti fotografici e delle perizie medico-legali (insufficienti, come si vedrà) per ricostruire in che modo si è arrivati il 12 maggio all'assassinio di Giorgiana, al tentato omicidio di Elena Ascione ecc. Danno per certa la carica di inaudita violenza delle forze di polizia, con univoca provenienza degli spari, ritenendo incredibile che alla distanza di diciannove mesi, la responsabilità penale di chi ha sparato non si è ufficialmente ancora individuata.

Descrivono l'abnorme comportamento della polizia che provoca reazioni nelle persone accerchiate, caricate, a cui non si permette di disperdersi; di quella polizia che con la sua improvvisa e micidiale carica, colpirà nella schiena la povera Giorgiana, che per salvarsi si mette a correre disperatamente, e invece cadrà di schianto, le braccia in avanti, la testa verso Trastevere, i piedi verso il ponte. Poco più in là viene ferita Elena Ascione. Si chiede l'escussione di tutti i testimoni che hanno seguito l'andamento dei fatti, e se già sentiti, che vengano interrogati di nuovo; si chiede l'interrogatorio di commissari, capipattuglia, agenti in divisa, agenti in borghese, ufficiali che hanno operato nella zona di via Arenula-ponte Garibaldi per sapere se hanno sparato, quali disposizioni hanno dato o ricevuto, dove hanno messo i bossoli raccolti, di quali armi in dotazione o personali disponevano. Inoltre l'individuazione di tutti gli agenti in divisa e in borghese che nelle foto del 12 maggio appaiono muniti

di pistola, per chiedere loro e accertare con una perizia che tipo di arma impugnavano, infine si dimostra che il ministro Cossiga ha ripetutamente dichiarato il falso, direttamente o attraverso il sottosegretario Lettieri, smantellando la tesi di comodo del governo sull'assassinio di Giorgiana.

E perché non chiedere il sequestro dei rapporti forniti al ministro degli Interni dalla questura e dalla prefettura di Roma e dal comando territoriale dei carabinieri, per rispondere alle interrogazioni ed interpellanze relative ai fatti in causa, risposte fornite alla Camera dei deputati nelle sedute del 13 maggio, 24 ottobre, 26 novembre '77 e 10 gennaio '78? Si chieda anche questo.

Una seconda memoria viene presentata dai due difensori il 6 novembre insieme a una consulenza tecnica che critica pesantemente le due perizie, quella medico legale e anche l'altra, la balistica, disposte dall'autorità giudiziaria: secondo quella balistica Giorgiana è stata uccisa da un colpo d'arma da fuoco, sparatole alle spalle. Troppo poco: il resto delle perizie appare sommario, impreciso, lacunoso, tecnicamente carente, in certe parti decisamente sbagliato.

I periti del tribunale non hanno fatto quello che avrebbero dovuto e potuto, hanno sbagliato i calcoli, son rimasti nel vago. Hanno detto che il proiettile omicida era a piombo nudo, cosa tecnicamente impossibile: insomma una storia già vissuta, negli anni della strategia della tensione e delle stragi di stato. Il consulente dei familiari ha provato a sparare con il proiettile indicato dai periti, su una vertebra come quella di Giorgiana, trapassata con la massima violenza: la pallottola, sparata a cinquanta centimetri, non è neppure riuscita a passare da parte a parte. Si possono allora fare dei calcoli balistici che portano a conclusioni irrimediabilmente accusatorie contro le forze di polizia. Giorgiana è stata uccisa da un proiettile blindato (e non a piombo nudo), dotato di grande energia, sparato da un calibro 22 a canna lunga o da una carabina. Data la traiettoria, chi ha sparato e ucciso stava sul ponte Garibaldi e in largo Arenula. Dove cioè c'erano soltanto poliziotti e carabinieri.

Così i due legali chiedono l'incriminazione dei comandanti dei reparti che si trovavano sul ponte e in via Arenula dalle 19 alle 21 del 12 maggio, del questore Migliorini e del ministro Cossiga.

E i giudici? Per adesso tacciono. Polizia e governo sono tabù perché l'assassinio di Giorgiana Masi scotta ancora. Senza le parti civili e gli esperimenti del loro consulente, con le vacue e sommarie perizie disposte dal tribunale, sarebbe tutto finito in un cassetto. E anche per lo smisurato numero di altri reati commessi quel giorno da poliziotti, i travestimenti, l'uso delle armi, le sparatorie, le percosse, le ingiurie, i tentativi di uccidere, la strage: scoraggianti perché inesistenti le iniziative della magistratura al riguardo. Quali le speranze di avere giustizia, di far sentire ai colpevoli il peso delle tremende verità accertate da questo Libro bianco?

Si farà di tutto e si otterrà ben poco, perché una cosa è certa: cambiano i governi, cambiano le maggioranze, si tessono nuovi giochi di potere e il PCI ne fa parte: ma eccoli i partiti di quest'Italia democratica e repubblicana pronti subito, ancora una volta, a difendere lo stato che uccide. Proprio niente è cambiato dai tempi dei governi di Scelba, di Rumor, di Colombo, dai tempi delle stragi di Stato.

 
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