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Galli Giorgio - 15 maggio 1979
A che serve votare radicale
di Giorgo Galli

SOMMARIO: Nel 1975 il Partito repubblicano e nel 1979 il Partito radicale "contendono" ai grandi partiti "l'attenzione" dell'elettorato. C'è forse la "convinzione" nell'elettorato "progressista" che alla sinistra "storica" manchi qualcosa per essere "convincente alternativa di governo alla DC", qualcosa che appartiene alla "tradizione liberale e non marxista"; come anche un "maggior realismo" e "maggior tenacia". Perché oggi tutto questo sembra sia rappresentato sopratutto dai radicali? Forse perché questo partito esprime quella sinistra che non si è sentita "sconfitta il 20 giugno" e non si è rassegnata alla "maggioranza relativa" della DC. Ciò spiega le "convergenze" di tanti su questo partito, che sembra dare "garanzie" di non "capitolare" alla DC. Ai radicali basterebbe raggiungere la consistenza attuale del PRI, cioè circa il 3%, per svolgere un ruolo importante, quello di impedire "cedimenti di tutta la sinistra alla DC".

(»Panorama 15 maggio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Può sembrare una rivincita dei partiti della sinistra risorgimentale nei confronti dei grandi partiti di massa del XX secolo: infatti il partito repubblicano nelle elezioni del '75 e il partito radicale nelle elezioni del '79 contendono alla Dc, al Pci e al Psi l'attenzione e forse anche la curiosità dell'elettorato. Vale la pena, mi pare, di soffermarsi sul fenomeno, al di là della conversazione avuta con gli amici di "Panorama" sul sondaggio della Demoskopea.

L'attenzione ieri sul partito guidato da La Malfa e oggi su quello ispirato da Pannella mi sembra abbia una comune matrice: la convinzione, cioè, dell'elettorato progressista che alla sinistra storica (Pci e Psi) manchi qualcosa per essere una convincente alternativa di governo alla Dc. »Qualcosa che si richiami senza ombra di dubbio alle componenti di tradizione liberale e non marxista (o meglio: non della »vulgata marxista) della sinistra occidentale. Intendendo per »vulgata marxista una semplificazione ideologica (appunto dell'ideologia come falsa coscienza: direbbero Marx e Lukács). Una tendenza per la quale all'entusiasmo per le rivoluzioni segue o l'approvazione della fase burocratica del nuovo potere oppure la delusione per i ricorrenti »tradimenti .

Vi è un settore di opinione pubblica progressista che richiede alla sinistra dei partiti storici da un lato maggiore realismo e dall'altro maggiore tenacia nel perseguire i propri obiettivi: magari limitati, ma concreti e verificabili. Nel clima del '76, sembrò che questo tenace realismo potesse essere interpretato dal Pri, soprattutto sul piano di una politica economica di modello occidentale. Oggi sembra possa essere rappresentato dai radicali. Perché?

A mio avviso, perché essi esprimono quella sinistra che non si è sentita sconfitta il 20 giugno, che non si è rassegnata alla riconfermata maggioranza relativa della Dc, che non ha considerato l'accettazione delle imposizioni della Dc un prezzo (duro) da pagare per un obiettivo poco gradito alla sinistra nel suo insieme (il compromesso storico versione '77).

La convergenza su posizioni radicali verificatasi all'apertura di questa campagna elettorale, mi pare il risultato dell'applicazione di questa linea e non una eterogenea convergenza opportunistica (anche se un partito in espansione attira sempre, ovviamente, anche gli opportunisti). Leonardo Sciascia ha ricordato il suo voto radicale sin da quando, negli anni Cinquanta, il partito presentava candidato il grande scrittore Elio Vittorini. Alfredo Todisco collaborava al "Mondo" di Pannunzio, matrice del partito radicale in quegli stessi anni. La componente libertaria e »umanistica di "Lotta continua" ha lavorato coi radicali già nella promozione dei referendum del '77. Una convergenza di militanti di sinistra con esperienze diverse si era delineata già nelle elezioni nel Trentino-Alto Adige dell'anno scorso.

Il partito radicale è riuscito a fare delle sue liste una sintesi di queste tendenze, meglio di quanto il Pri sia riuscito nel '76 a fare dei suoi candidati l'espressione di una borghesia produttiva disposta a collaborare con la sinistra storica. Evidentemente perché è più facile far impegnare gli intellettuali che non gli imprenditori: sono bastati a Pannella dieci minuti per convincere Sciascia, non sono bastati a La Malfa alcuni mesi per persuadere Gianni Agnelli. Ma si tratta anche di un fenomeno sociale diverso: la sinistra nel '76 era all'attacco e l'opinione pubblica progressista chiedeva garanzie di capacità di governo; oggi la sinistra è sulla difensiva e l'opinione pubblica progressista chiede la garanzia che non si capitoli alla Dc. Sembra che un settore crescente di elettorato di sinistra ritenga i radicali in grado di dare questa garanzia: non capitolare alla Dc oggi per preparare l'alternativa domani.

Perché questo è il punto: oggi la sinistra è sulla difensiva ed è la Dc che punta a un'ampia conferma del suo mandato come partito di governo. Al di là dell'aspetto tecnico di un sondaggio che per quanto accurato precede le elezioni di circa un mese e mezzo, per la sinistra è quasi sicuro un risultato al di sotto di quello del '76, mentre la Dc può raggiungere livelli oltre il 40%. E' nell'ipotesi di un esito di questo genere che settori di elettorato progressista sembrano arrestarsi sulla linea di resistenza offerta dai radicali.

Ho già ricordato che i sondaggi procurarono nel '76 una delusione al Pri, al quale pure attribuivano il 5% dei voti (mentre rimase fermo). Se anche questa volta i radicali non progredissero, occorrerebbe dare definitivamente ragione a Luca Pavolini, che non crede ai sondaggi. Basterebbe comunque ai radicali raggiungere le dimensioni attuali del Pri (3%) per portare alla Camera un gruppo parlamentare di una quindicina di deputati, il cui ruolo sarebbe importante.

In che senso? Probabilmente in quello di impedire che eventuali accordi da raggiungere con la Dc non si riducano a semplici cedimenti di tutta la sinistra alla Dc. Personalmente ritengo che tali accordi possano anche assumere l'ampiezza e la forma organica di un governo di temporanea unità nazionale con programma limitato e scadenze prefissate (magari altre elezioni anticipate fra un triennio). Su questo la posizione del Pr appare diversa, perché ritiene che l'unità nazionale non sia tanto una soluzione d'emergenza quanto l'anticamera del compromesso storico.

Ma in ogni caso mi pare che un gruppo radicale consistente possa significare questo: la possibilità di far controllare i lavori parlamentari non solo dai partiti, bensì anche dagli elettori. Perché i partiti danno giustamente espressione alla rappresentanza, che senza di essi sarebbe amorfa. Ma in Italia si è andati troppo oltre, per cui si ha sovente espropriazione della volontà popolare a opere di segreterie onnipotenti. Al di là dei risultati del 3 giugno, l'interesse per i radicali esprime la contrapposizione a questa tendenza di settori di elettorato progressista.

 
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