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Paggi Leonardo - 8 giugno 1979
Pr: crescita lungo le linee di tensione
di Leonardo Paggi

SOMMARIO: La forte uniformità "su tutto il territorio nazionale" dell'avanzata radicale "è una tendenza eminentemente politica". E questa avanzata "attinge" "in misura prevalente" "dall'elettorato comunista del 1976", bloccando l'afflusso di nuovi giovani verso il PCI. La flessione comunista sembra evidenziare "uno stato di confusione e di incertezza della sinistra". Per questo il rifiuto netto di "artificiosa drammatizzazione" non può andare disgiunto da uno "sforzo di chiarificazione". Non si attaglia al fenomeno radicale il richiamo al "diciannovismo": anche Gramsci, nel primo dopoguerra, non parlò forse di "una infallibilità molto a buon mercato" presente nel movimento operaio? E' meglio, dunque, portare l'attenzione sul fatto che "su tutta l'area della democrazia dell'occidente" c'è una "tendenza nuova all'aggregazione politica": si veda il caso del partito democratico americano. La protesta radicale coinvolge un certo "ceto intellettuale" frustrato ma anche "frange di strati popolari e di piccolissima

borghesia", ecc.

(»Rinascita 8 giugno 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Il dato numerico, nudo e crudo, credo consenta di fissare due primi punti di riferimento non secondari. In primo luogo la forte uniformità, su tutto il territorio nazionale, dell'avanzata radicale. Se è vero che le grandi città sono il luogo di massima lievitazione (dalle punte del 7 per cento di Roma, Torino, Milano, attraverso il 6,6 per cento, e il 6,0 per cento rispettivamente di Venezia e Napoli, si toccano i valori più bassi con il 4,4 per cento di Palermo e Firenze, - è altrettanto indubbio che il dato aggregato per regioni indica una tendenza fortemente omogenea. Ad un incremento (sempre ristretto al voto per la Camera del 1976) del 3,0 per cento e del 2,6, rispettivamente, della Campania, della Sicilia e della Sardegna. Gli incrementi percentuali dell'Emilia (+ 1,73) e della Toscana (+ 1,65) non differiscono di molto da quelli dell'Abruzzo (+ 1,69) e del Molise (+ 1,44). Si tratta dunque di una tendenza eminentemente politica che attraversa e unifica contesti geografici, culturali e sociali assai di

versificati tra loro, e che in quanto tale appare difficilmente leggibile solo sulla scorta di connotazioni sociologiche.

In secondo luogo, l'avanzata radicale attinge certo non esclusivamente, ma in misura prevalente - anche se probabilmente con una rotazione assai complessa del voto - dall'elettorato comunista del 1976; e comunque, con un rapporto tra Camera e Senato simmetricamente opposto a quello realizzato dal Pci, blocca la strada all'afflusso nelle nostre file del voto giovanile, delineatasi con eccezionale trasparenza nella consultazione di tre anni or sono.

Anche assumendo questo particolare spaccato, se ne può trarre una prima materia di riflessione. La flessione comunista, più che essere il risvolto di una diretta ripresa egemonica del blocco sociale e politico che ha diretto il paese in questo dopoguerra (la proclamata convergenza verso il centro appare, anche dal punto di vista numerico, assai esigua), sembra piuttosto configurarsi come il risultato di uno stato di confusione e di incertezza della sinistra.

Per questo il rifiuto netto di ogni artificiosa drammatizzazione dell'insieme di questo risultato elettorale non può andare disgiunto, credo, da uno sforzo di chiarificazione nuovo. Così, sarebbe probabilmente errato continuare oggi a dedurre la caratterizzazione del fenomeno società italiano solo dalle logomachie confuse, talvolta anche un po' farneticanti, di Marco Pannella. Siamo ora dinanzi a un insieme di consensi determinati che la dinamica del voto consente, almeno in primissima approssimazione, di decifrare circa la provenienza e le finalità. Proprio a questa luce non credo che si attagli al fenomeno radicale quel richiamo al diciannovismo che è stato talora adottato per definire altri fenomeni di estremismo sociale e politico. Esso rimanda anzitutto, inevitabilmente, a una coppia (ed una contrapposizione) fascismo-democrazia del tutto incapace di cogliere la motivazione di questo voto, la qualità del dissenso che esso esprime, la stessa natura, infine, dell'insidia che esso costituisce per il movime

nto operaio.

Del resto proprio Gramsci, in riferimento ai movimenti tumultuosi del primo dopoguerra, in cui prese corpo il processo di distacco da quel sistema politico, non parlò forse di una »infallibilità molto a buon mercato presente nelle chiusure aprioristiche del movimento operaio verso ciò che si muoveva oltre le sue tradizionali basi organizzate? Se si vuole trovare ipotesi più feconde, è forse utile uscire dal passato nazionale e fare magari più attenzione alle linee di tendenza del nostro presente. E' indiscutibile che su tutta l'area della democrazia dell'Occidente capitalistico è venuta delineandosi, proprio in questi anni di crisi, una tendenza nuova all'aggregazione politica su alcune scelte di valore, che si differenzia nettamente, talvolta si contrappone al tradizionale negoziato politico. Solo per fare un esempio, la storia e le vicissitudini più recenti del partito democratico americano sono ora interamente analizzate nei termini di una sempre più difficile conciliazione tra la difesa di un'area di in

teressi materiali consolidatisi nel tempo e nuove spinte di aggregazione su temi di rinnovamento culturale e civile. Forse non è peregrino domandarsi se non ci si trovi dinanzi ad un tentativo plebeo e un po' becero di forzare analoghe linee di tensione affiorate nella società italiana.

Per queste stesse ragioni credo finirebbe per risultare fuorviante una caratterizzazione del voto radicale in termini di un non meglio definito »ceto medio urbano che, dopo aver incontrato tangenzialmente, nel 1976, le posizioni del movimento operaio, ora quasi inevitabilmente se ne ritrarrebbe, come spaventato dalle asperità della sua prospettiva politica. Dietro la facciata di una considerazione verbalmente realistica c'è, in questo caso, il rischio di una posizione sostanzialmente settaria, disposta a confinare la prospettiva nostra di rinnovamento entro nuovi, ma sempre vecchi ghetti operaistici. Non solo la nozione di ceto medio risulta ormai, com'è noto, del tutto inadeguata a cogliere, anche approssimativamente la reale stratificazione sociale del paese; ma per quello che è possibile capire per ora dalla distribuzione del voto radicale nei diversi quartieri delle grandi città, essa sembra tutt'altro che univocamente determinabile dal punto di vista della provenienza sociale. Se ai radicali sono indub

biamente andati in parte i consensi di un ceto intellettuale garantito (sia dal punto di vista economico che da quello dello "status" sociale) il quale ha visto disattesi, a torto o a ragione, i propri interessi sulle questioni più dibattute della vita civile e del paese, è altrettanto indubbio che la protesta radicale coinvolge contemporaneamente frange di strati popolari e di piccolissima borghesia, che nell'attitudine sindacale e politica del movimento operaio hanno scorto i motivi di una insufficiente tutela dei propri interessi immediati.

Non è certo questa la sede per anticipare frettolosamente temi di riflessione che dovranno avvalersi di ben più solide basi analitiche. Ma il successo radicale mette ancora una volta in guardia il movimento operaio dalle tentazioni di una ritornante utopia giacobina, che pensa al governo dello Stato come a qualcosa di facilmente distinguibile dal governo della società.

 
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