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De Felice Franco - 20 luglio 1979
Autonomia ed egemonia della classe operaia
di Franco De Felice

SOMMARIO: Uno degli aspetti dell'"originalità italiana" è il periodico riproporsi di "orientamenti culturali e movimenti politici democratici che tendono a rompere con gli equilibri esistenti" e a dar vita a "fenomeni per molti versi nuovi". Essi tendono a convergere o a confrontarsi col movimento operaio sul tema del "rapporto tra 'classe' e 'popolo', tra democrazia e socialismo", ecc. Il "mancato incontro" tra queste componenti può avere "conseguenze drammatiche". Tipico l'esempio di Salvemini e Gobetti. Per ciò che riguarda Salvemini non si può distinguere tra il suo periodo socialista e il successivo, quello de "l'Unità". Gobetti poneva il tema della "assenza di modernità" degli assetti capitalistici italiani, anticipando così alcuni problemi di oggi ("bipartitismo imperfetto", assenza di "alternanza", ecc.) Salvemini e Gobetti, mentre caricavano il movimento operaio di "obiettivi propri di altri soggetti sociali", ne postulavano la "autonomia", la capacità cioè di essere "soggetto" della "trasformazione

": il movimento operaio deve sempre "costruire o avviare lo sviluppo di un quadro intellettuale nuovo"..."

(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Uno degli aspetti dell'originalità italiana è il periodico riproporsi, nel corso dell'esperienza unitaria, di orientamenti culturali a movimenti politici democratici tendenti a sviluppare una critica radicale degli equilibri esistenti nel paese e carichi di sollecitazioni intense nei confronti del movimento operaio. Sta qui un nodo importante sia per l'analisi storica, sia per una più penetrante comprensione dei processi politici caratterizzanti questo paese.

Il filone democratico e radicale tende volta a volta a definire situazioni problematiche nuove, non separabili dal contesto complessivo - nazionale ed internazionale - in cui esse si pongono, con incidenza anche sull'apparato culturale complessivo (categorie d'analisi, valori, ipotesi di rapporti sociali e di ridefinizione tra società civile e Stato) su cui questa tradizione poggia, fino a dar vita a fenomeni per molti versi nuovi, che segnano un più stretto collegamento con le vicende ed i problemi delle società capitalistiche europee e non, come è per il »radicalismo emerso con forza in questi ultimi anni.

Tali tendenze democratiche e radicali, portatrici di un patrimonio di valori, di un ventaglio di temi culturali carichi di implicazioni critiche dell'assetto esistente - anche se di segno non univoco - convergono sul movimento operaio organizzato con un complesso molto differenziato di posizioni: dal riconoscimento della necessità di un rapporto e di un confronto intenso alla sua critica complessiva in quanto elemento di stabilizzazione dell'assetto esistente. Convergenza che interviene su di un nodo che è proprio a tutto il movimento operaio così come si è storicamente sviluppato in Europa nel periodo della II e III Internazionale, ma che in un paese come l'Italia è assolutamente decisivo: il nodo del rapporto tra »classe e »popolo , tra democrazia e socialismo. Elemento, non secondario, per un'ulteriore precisazione del problema, è ricordare che il riproporsi vigoroso ed insistente di orientamenti democratici e radicali è sempre in rapporto a processi profondi di modificazione nell'assetto sociale del pae

se e quando è in discussione l'equilibrio dato tra le classi e la definizione della loro funzione produttiva. Questa precisazione contribuisce a rendere più netta la centralità del rapporto movimento operaio/orientamenti democratico-radicali nel senso che il mancato incontro o la contrapposizione frontale ha conseguenze drammatiche per gli esiti delle forze interessate e per l'equilibrio complessivo del paese, sia politico che culturale.

Non è mia intenzione sviluppare un discorso che tenda ad evidenziare gli elementi tipizzanti di questo rapporto: andrebbe perduta la specificità della forma in cui esso di volta in volta si pone. Mi limiterò perciò a sviluppare delle osservazioni sulle questioni poste dalla riflessione di due figure molto significative della tradizione democratica e radicale del '900 - Gobetti e Salvemini - che hanno inciso in maniera durevole sulla cultura italiana e che esprimono bene la varietà di posizioni registrabile in questo filone culturale e offrono un terreno privilegiato di confronto e di arricchimento dell'esperienza del movimento operaio di quegli anni.

Sul contributo e sul ruolo svolto da Salvemini e Gobetti nella cultura italiana del '900 si è ampiamente discusso in questo secondo dopoguerra: non è mia intenzione né riproporre tale discussione né fornire un bilancio di questi studi, quanto invece sollevare la questione del rapporto fra la loro riflessione e il movimento operaio.

Concordo con quell'operazione di revisione storiografica che, intorno alla metà degli anni '60, ha contestato una valutazione di quel rapporto che evidenziava più i punti di analogia e di confluenza che quelli di differenza.

Per uscire dal generico ed entrare più nel merito della questione, mi sembra giusto, nel caso di Salvemini, rifiutare la distinzione tra il periodo di milizia socialista e quello successivo (dell'"Unità", del movimento combattentistico, dell'antifascismo e dell'esilio), riservando un giudizio complessivamente positivo al primo ed uno ricco di riserve critiche al secondo. Tale rifiuto non può nascere dalla mancata fondatezza della distinzione, che esiste e corrisponde a due fasi della vicenda culturale e politica del pugliese in sintonia con un mutamento di dislocazione di strati consistenti di settori intellettuali, quanto dalla sottolineatura di un'ambivalenza che è presente nel modo stesso in cui Salvemini impostava, sin dall'inizio, il rapporto meridionalismo-socialismo. Nel tema dell'alleanza tra operai del Nord con i contadini meridionali che Salvemini propone per primo con grande forza alla definizione di una strategia del socialismo italiano, era interna una contraddizione, mancando l'individuazione d

el fondamento oggettivo su cui era possibile fondare quella alleanza, in quanto la comprensione del meccanismo economico generale (capitalismo) rimane sempre profondamente estranea a Salvemini. Il collegamento tra socialismo e meridionalismo passava attraverso l'attribuzione al partito socialista di una serie di obiettivi propri dei contadini meridionali (antiprotezionismo, antifiscalismo, antiaccentramento), caricando il movimento operaio di un compito di tutela di interessi sociali minacciati dallo sviluppo del capitalismo e, più concretamente, dalla forma specifica che tale sviluppo assumeva in Italia.

Più complessa, più profondamente operante nella cultura italiana e più emblematica di un rapporto tra intellettuali e classe operaia è l'elaborazione di Piero Gobetti, che non è separabile - al di là delle innegabili e documentate influenze meridionalistiche (da Salvemini a Fortunato) - dal suo essere espressione dei problemi posti dai punti alti di sviluppo del paese. Non a caso alcuni temi gobettiani, che implicano un giudizio sulla storia e sul capitalismo italiano tendono periodicamente a riprodursi. Con grande efficacia (Pogliano) si è definita quella gobettiana come »ideologia dell'assenza , sostanzialmente cioè un giudizio sul capitalismo italiano come privo di quello »spirito capitalistico , di quella capacità imprenditoriale che altrove aveva edificato la civiltà liberale. Era assente cioè in Italia quella »modernità che caratterizzava i grandi Stati industriali dell'Occidente e ciò era ricondotto, tra l'altro, sulla base di una suggestione weberiana, alla mancanza di una riforma protestate. L'atip

icità italiana diventa deviazione da uno schema ipostatizzato di capitalismo e di rapporto tra le classi, assunto come modello classico. Il notissimo giudizio gobettiano sul fascismo come »autobiografia della nazione - variante del fortunatiano fascismo come »rivelazione - è una conferma del giudizio di fondo sul carattere premoderno della realtà italiana. Questo impianto analitico porta Gobetti, dopo l'incontro con Gramsci e l'osservazione attenta e appassionata del movimento consiliare, ad assegnare alla classe operaia un ruolo liberale, nel senso di "liberante": non già quello di distruggere l'apparato produttivo capitalistico - che non esisteva in Italia - per passare a rapporti di produzione superiori, ma di sviluppare le potenzialità progressive del capitalismo con una consapevolezza nazionale e sociale, superiore a quella espressa dagli imprenditori, immersi nel particolarismo corporativo e cresciuti all'ombra della tutela statale. Come è noto, alcuni (De Caro) hanno visto in questo progetto gobetti

ano »una geniale anticipazione della tematica neocapitalistica , irrealizzabile in quanto troppo prematura rispetto alle possibilità del tempo. Pur senza voler entrare nel merito della discussione che questa tesi ha sollevato, mi sembra difficile contestare la capacità diffusiva e la periodica riproposizione, in forme diverse, del nucleo centrale della tematica gobettiana - l'assenza di »modernità - sia come critica dell'assetto dato (basta appena richiamare, nel dibattito più recente, i temi del bipartitismo imperfetto, dell'alternanza come segno distintivo di una democrazia moderna ed europea, dei caratteri del capitalismo di Stato in Italia), sia come piattaforma per una modificazione profonda dei rapporti esistenti tra lavoro produttivo ed improduttivo (blocco dei settori e delle forze produttive moderne come condizioni di un processo di razionalizzazione).

Per ritornare alla questione sollevata all'inizio di queste osservazioni, mi sembra importante recuperare i risultati di questa revisione critica, ribadendo che sia la problematica di Salvemini che, in misura più profonda quella di Gobetti tendono ad »espropriare la classe operaia dai propri obiettivi specifici, facendole carico di un'ipotesi di riorganizzazione della società e della produzione che ha come centrali altri soggetti o stabilendo un rapporto unilineare di sviluppo tra classe operaia e forze produttive. Tuttavia un'operazione critica che si limitasse ad evidenziare gli elementi di differenza e di contraddizione tra il progetto salveminiano e gobettiano ed una prospettiva socialista sarebbe limitativa ed angusta, soprattutto perché tenderebbe a ridurre la »prospettiva socialista all'interno di un quadro già tutto definito, con la conseguenza di eludere il problema vero che la problematica gobettiana e la salveminiana ponevano alla classe operaia, e di giungere a conclusioni paradossali rispetto

alle premesse. Così, per esempio, De Caro, giunge ad un improbabile recupero di Turati, la cui forza non era certo nella fiducia, smentita dai fatti, nell'egemonia temporanea della parte avanzata del paese su quella arretrata, ma nell'esprimere la contraddizione nei punti alti dello sviluppo.

La questione che le elaborazioni di Salvemini e Gobetti ponevano al movimento operaio del tempo è certo quella della sua autonomia, cioè della sua capacità di soggetto sociale capace di riorganizzare l'intero apparato produttivo e di ridefinire la funzione produttiva delle classi sociali. Ma autonomia non è sinonimo di autosufficienza né può identificare una situazione definita una volta per tutte: è invece un processo continuo ed aperto e non può che essere il risultato di un confronto permanente con le forme varie, mutevoli ed estremamente ricche attraverso cui si esprime e procede la contraddizione fondamentale. Per cui se è vero che Gobetti e Salvemini tendevano a caricare sulle spalle del movimento operaio obiettivi propri di altri soggetti sociali (l'emancipazione dei contadini meridionali o lo sviluppo di una moderna società industriale) ciò non toglie che ponessero problemi reali su cui si misurava la capacità del movimento operaio di essere soggetto di trasformazione cioè di andare oltre la dimensio

ne economico-corporativa. Dovrebbe essere un dato ormai acquisito, sulla scorta della lezione gramsciana ed ancora più sulla base di un'esperienza ricca e complessa ormai quasi centenaria, che l'affrancamento dell'economia è un processo complesso e difficile, dove continua è la tentazione di accontentarsi dei risultati acquisiti o di ritirarsi di fronte all'immensa indeterminatezza dei compiti da assolvere; dovrebbe essere un dato non meno acquisito che il punto cruciale attraverso cui passa questo affrancamento è la capacità del movimento operaio di saper costruire o avviare lo sviluppo di un quadro intellettuale nuovo in cui sia rovesciato il rapporto scienza-dominio. Il senso più profondo, a mio avviso, della proposta di Salvemini e Gobetti, al di là del merito dei progetti avanzati, è che la guida del processo di trasformazione spetta alla classe dei colti: non è un caso che tale proposta venisse ribadita con grande forza nel momento in cui le forme storiche dello Stato liberale risultavano inadeguate a

contenere il passaggio dell'Italia ad una società di massa.

 
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