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Bandinelli Angiolo - 15 settembre 1979
IL CONFRONTO SI FA IN POLITICA
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Le elezioni del 3 giugno hanno rappresentato per la sinistra nel suo complesso un tornante decisivo, un momento di possibile "svolta", quale fu già il voto del '76.Le elezioni hano segnato la morte del vecchio partito, e per vivere oltre la sopravvivenza il partito radicale ha bisogno di gettare se stesso in avanti, nella prospettiva di cercare fuori di se stesso il proprio baricentro.

Bandinelli esamina gli intrecci, le convivenze,le confluenze tra atteggiamenti e tradizioni comuniste, socialiste e radicali nella storia delle sinistre in Italia, per arrivare al problema del modello di partito e delle ipotesi di fondo dell'opposizione.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)

"Può darsi, come dicono, che l'occasione prossima al saggio di mezz'agosto di Enrico Berlinguer sia stata la necessità di offrire un appiglio congressuale all'ala zaccagniniana. Può darsi anche, come sussurrano, che tutta l'operazione serva per fornire una "copertura" ad una ripresa di grosse lotte sindacali finalizzate ad ottenere, sulla testa dell'ariete operaio lanciato allo sfondamento, quell'ingresso nel governo troppo a lungo rifiutato dal doroteismo nazionale. Può darsi. Non mi pare si possa negare, però, che l'ampiezza e la diversificazione delle motivazioni addotte, degli obiettivi indicati - motivazioni e obiettivi che tengono puntigliosamente conto, per respingerle, delle critiche e delle opposizioni, articolano e approfondiscono alcuni temi e passaggi essenziali (e valga per tutti il tema dell'austerità), accentuano il giudizio di" ineluttabilità "del processo politico e storico delineato - danno una ulteriore patente di stabilità e di continuità a un discorso che ha l'orgoglio di proporsi quale

strategico. Con il suo intervento, che guarda all'interno del partito forse più che ad eventuali interlocutori, alla stessa DC, Berlinguer ha insomma voluto imporre un limite, un alt perentorio alle discussioni, ai dubbi, ai tentativi revisionisti e "aperturisti" apparsi, dopo il 3 giugno, tra gli stessi comunisti. Lo ha fatto con molta sicurezza; quella che viene dalla certezza che, nell'ambito interno del partito, tra i politici come tra gli intellettuali, non c'è nessuna indicazione che possa contrapporsi con dignità di alternativa, alla sua.

Con l'intervento di agosto, dunque, Berlinguer ha segnato un punto importante a proprio favore: ha riconsegnato il dibattito postelettorale - che era sembrato sfuggire alle dirigenze per tracimare da mille falle in disordinati e incontrollati rivoli - ai partiti in prima persona, alle loro segreterie.

E' a questo punto che, da radicali, mi pare dobbiamo porci la domanda se l'impostazione del questionario di "Argomenti Radicali" sia giusta e utile; se cioè sia utile e giusto aprire un dialogo tra il partito radicale e il partito comunista, o quanto meno sottoporne a vaglio la possibilità e le condizioni: quasi che le elezioni di giugno abbiamo aperto la via ad auspicabili trattative tra due "potentati", il radicale e il comunista, ciascuno con i suoi plenipotenziari sagacemente attenti alle rispettive sfere di forza e di influenza, scaltramente intenti a condizionare, tra una discussione e un inchino, l'interlocutore. Questa sarebbe una situazione forse gradita al PCI, ma rischiosa per il partito radicale. Essa sancirebbe la tesi che il partito radicale ha (finalmente) un suo corpo organico destinato a crescere d'ora in avanti per proliferazione, per aggiunte, accorpamenti, in grado di selezionare ed inviare, appunto, i suoi plenipotenziari con, nel bagaglio, deleghe a trattare.

Invece, parecchio è mutato, grazie al 3 giugno. Queste elezioni hanno rappresentato, per la sinistra nel suo complesso, un tornante decisivo, un momento di possibile "svolta", quale fu già il voto del '76. Quella occasione non fu colta in tutte le sue possibili implicazioni: dobbiamo oggi ripetere quell'errore? Quasi per una salutare sfebbratura, tutti i temi politici e storici fino a ieri aggrovigliati e contorti si spiegano ai nostri occhi come schiariti e fatti più leggibili, evidenti nella loro continuità e spessore, persino maturi per una soluzione positiva. Castelli, costruzioni faraoniche e deliranti, intorno ai quali fino a ieri si è battagliato aspramente, giacciono nella polvere tra la noncuranza dei più; ipotesi strategiche affascinanti, possibilità di lavoro fruttifero vengono avanti con naturalezza e semplicità; parole fino a ieri colpite da ostracismo tornano a circolare, fruibili senza scandalo. C'è una nuova leggerezza nell'aria: mai sconfitta fu forse più benefica, a spazzare via vecchi erro

ri e nuove arroganze.

Dobbiamo secondare questo corso. Non possiamo desiderare che i due decenni trascorsi, fatti di battaglie, di "rivoluzioni" ideali e sociali, vadano posti tra parentesi, quasi accantonati, per dare luogo ad una messinscena nella quale tornino al proscenio, spolverati e riverniciati, i vecchi protagonisti. Non sembra infatti che i partiti, i grandi sconfitti del 3 giugno, cerchino già di rappattumare i cocci e gli stracci, per riprendere come prima i loro discorsi? Già sono in vista incontri tra PCI e PSI, per il rientro autunnale.

In questo caso, sarebbe pericoloso che tra gli invitati vi fosse il partito radicale. Le elezioni scorse hanno segnato - mi sia consentita l'audacia - la morte del vecchio partito. Non è la prima volta che ciò accade. Ancora una volta, per vivere oltre la sopravvivenza, il partito radicale ha bisogno di gettare se stesso in avanti, nella prospettiva di cercare fuori di se stesso il proprio baricentro; di affidarsi, liberamente, alla politica. Insomma, a costo di apparire ripetitivi, pensiamo che ciò che è primamente necessari oggi, sul piano morale e civile, è fare politica, ciascuno dalla propria posizione. Per confrontarsi non su temi parziali, minimali e settoriali, ma su quelli grandi e fondamentali, gli unici che giustificano e rendono vera la politica, in specie oggi, per non svilire il 3 giugno e le sue attese: lo Stato, la sua "cultura" e i suoi confini e poteri, l'ordine pubblico in quanto riforma della giustizia, i rapporti tra cittadino e istituzioni, i referendum e l'esercizio della democrazia, l

a conversione delle spese militari in civili, il disarmo unilaterale, l'avvio ad una diversa politica dell'energia, o meglio a una politica della diversa energia. Ce n'è abbastanza, come si vede, per discutere e confrontarsi.

Prima domanda: Intreccio, convivenze, confluenze, contrasti fra atteggiamenti e tradizioni comuniste, socialiste e radicali nella storia delle sinistre in Italia.

Il dibattito tra radicali e comunisti si trova ad uno stallo: sia con i comunisti ufficiali, il partito, che con parecchi, se non la totalità, degli eretici, oggi vivi e pullulanti come non mai, e come non mai ferrati e aggressivi. Questi ultimi, in particolare, hanno avuto il merito di cogliere le difficoltà nelle quali si dibatte non solo il marxismo in quanto tale, con la sua economia e la sua filosofia, ma anche la prassi e le prospettive immediate dei partiti comunisti occidentali; e soprattutto del PCI, il quale deve organizzare il proprio ingresso al potere utilizzando (accettando, potenziando?) istituzioni assai particolari, quali non ve ne sono in tutto l'occidente: quelle lasciate in eredità dalla recente storia d'Italia con le sue inconfondibili - anche se, spesso, inesplorate - peculiarità (fuor di eufemismo, lasciate in eredità dal fascismo). Ma, nel cogliere problemi e contraddizioni, questi comunisti eretici non perdono di vista neanche per un minuto il tema che appare loro essenziale, e attra

verso il quale essi in realtà non vogliono perdere contatto, nemmeno per un minuto, con il partito. Quale tema? Quello della governabilità della forma-Stato, unanimemente - o quasi - ritenuta il luogo indispensabile entro il quale avvengono tutti i processi relativi alla gestione e alla trasformazione, soprattutto dell'economia in quella versione", mai "discussa a fondo, che è l'economia del "capitalismo di Stato", o comunque la si voglia chiamare.

Non vi è invece dubbio: occorreranno altre ricerche oltre a quelle avviate da studiosi coraggiosi come Marramao, Tronti, Villari, ecc. (e si veda in proposito il loro bellissimo "Stato e capitalismo negli anni trenta" - Ed. Riuniti, 1979 - che finalmente garantisce a sinistra della "tragica grandezza" del fascismo, scoperta non più solo pannelliana); occorreranno altre svolte e lotte politiche per riportare compiutamente alla luce i nessi fascismo-razionalizzazione capitalistica-IRI e industria di Stato-deprivatizzazione del credito e dell'accumulazione-nascita e sviluppo dello Stato assistenziale e dei suoi valori-supremazia del "politico" sull'"economia", ecc., vale a dire sui veri fondamenti sui quali si è venuto creando, dopo un breve e modesto periodo postbellico di riassestamenti formali sull'asse liberale e liberista, il potere, l'occupazione dello Stato da parte della DC. Può darsi che la medicina "garantista" sia solo un'illusione volontaristica. Resta però intatto - anche se dovessimo parlare tutti

di "modernità" del fascismo e perfino della DC, sua erede, soprattutto (guarda caso!) nella componente etica, quella che va da Dossetti e La Pira a Moro - resta intatto, dicevamo, il problema di sapere se la via di uscita dell'attuale crisi passa per la strettoia di quelle soluzioni politiche e teoriche, o se invece altre ipotesi possano essere poste sul banco di collaudo.

Con univocità di accenti (che ha un suo serio significato, di cui non è lecito menare scandalo) su un punto hanno confluito finora, concordi, populismo cattolico, marxismo ortodosso ed eretico, oltreché il fascismo (magari quello di "sinistra", corporativo, bottaiano e gentiliano): il "superamento" del liberalismo "borghese" a vantaggio del primato - ripetiamo - del "politico", il quale arroga a sé la pretesa di" produrre "dal suo stesso seno, attraverso mediazioni di cui esso solo può essere responsabile e garante, i propri comportamenti, la propria normativa e regolamentazione, hobbesianamente assoluta.

Questa logica ha trovato i radicali irriducibilmente all'opposizione; una "opposizione" che inventava dal nulla le regole stesse dell'"opposizione": con, alle spalle, infatti, una tradizione precaria e inutilizzabile, quella moderata e garantista, o cocciutamente perdente, come l'eresia libertaria di un Rossi, o l'altra, quella azionista. La politica dei diritti civili non è affare di cronaca, ha uno spessore diverso, e nasce molto prima del "radicalismo degli anni '70". E' stato detto che ci troviamo di fronte a nulla più che al vecchio garantismo. Stiamo attenti, anche se è indubbio che tra il vecchio e il nuovo ci sono cerniere visibili. Il garantismo è essenzialmente difensivo, passivo. Pretende siano elevate barriere, al negativo, tra lo Stato e l'individuo, con la sua libera e "privata" iniziativa. La politica di diritti civili è" attiva "riconquista - o conquista, per chi pensa che questo processo sia storicamente una novità - del complesso dei diritti che lo Stato "sociale", il "governo della sociali

zzazione", ha usurpato alle grandi masse, alla società, ai lavoratori; non giunti ancora allo" status "di "cittadini ", un po' perché rifiutato loro dai vecchi ceti dominanti, un po' perché respinto e condannato da loro stessi, nella convinzione che i rapporti primari, veri, essenziali, passino sotto il diritto, e mettano la classe operaia a confronto direttamente con il capitale (ma dove? fuori della storia?).

Il fascismo abolì i sindacati, ma nello stesso momento in cui stravolse il diritto borghese e liberale (visto come tutt'uno: il corporativismo ad es. abolì i confini tra il pubblico e il privato, nel momento in cui previde l'inserimento di ciascun uomo, dalla culla alla bara, nelle sue strutture). Nel dopoguerra, le sinistre hanno puntato sui sindacati, per riaprire margini di conflittualità con il capitale. Così credettero di aver ripristinato spazi sufficienti di libertà, di aver liquidato il fascismo. Non era vero: in tutto e per tutto, in questi anni, ha sempre agito, a livello di istituzioni e di Stato, quella logica del "superamento" che ha acciecato tutto e tutti. Il "politico" non ha cessato di rivendicare la sua supremazia sulle istituzioni, sia pure tra gaffes e incomprensioni tra comunisti e cattolici, gli uni e gli altri gelosi della propria primogenitura in questo smantellamento del "liberale".

La politica dei diritti civili cerca di colmare questa spaventosa lacuna. Essa è perciò, piaccia o non piaccia, una linea di confronto e di scontro con il capitalismo, e soprattutto con il nuovo capitalismo di Stato: una linea di confronto che fa parte della tradizione liberale, certo, quando di essa non si pretenda di fare, come si è preteso, una mera espressione ideologica dell'accumulazione del capitale.

Seconda domanda: Rapporto società-Stato; modello di partito.

Umanesimo il radicalismo? Ma via. Piuttosto, il PCI si è presentato, con consapevolezza e dignità storica, come l'erede della morale umanistica. Nella pratica spicciola un po' piccolo-borghese, diciamolo pure. Il PCI non tollera, nel" continuum "del Reale, disordine e fratture, la sua visione del mondo è armonica, antropocentrica nella migliore accezione del termine. Il PCI avverte come sua responsabilità quella di reintegrare l'Uomo nella sua completezza, in un processo di mediazioni successive che lo collochino al suo giusto posto nella scala dei valori assicurata dallo Stato e quindi dal partito, o dal "regime" dei partiti. Il giustificazionismo non è nemmeno ipocrisia, ma schema ermeneutico del Reale stesso. Il PCI non capisce, non accetta i grossi scontri ideali, li assimila alle microconflittualità - ovvie in una società così complessa, ed anche impossibili a garantirsi tutte assieme - tra i ceti, i settori, i sottosettori, le culture e le sottoculture azzuffantesi per trarre ciascuna a sé il massimo d

i vantaggi da questa gestione corporativa della società. Così il PCI oggi chiede di nuovo l'ingresso al governo, perché si presenta quale garante, in toto, del mondo operaio in quanto tale, e su questa delega non ha dubbi.

Per contrapposto, la "parola" liberale, nella accezione e nella prassi libertaria del partito radicale, si è dimostrata eccellente interprete e veicolo di quella filosofia del "sabotaggio" che, in anni e mesi più recenti, a livelli e su modelli inadeguati e rozzi, ha proposto la cosiddetta "rivolta individuale". Se questa è una confessione, ebbene sì, ecco a nudo il disegno irresponsabile dei radicali, degli autonomi e dei loro affini "non produttori", rispetto alle urgenze della crisi dello Stato, su cui si affaticano le sinistre storiche, con il problema della "governabilità"...

Ma è proprio così? E' provato che spetti allo Stato la gestione assoluta (absoluta) del sistema? O non occorre cominciare a prendere in considerazione l'ipotesi di una crisi del "modello" Stato, di fronte a fenomeni di esaurimento e di esautoramento che non sono solo e sempre di corrosione e di spontaneismo corporativo? Di fronte alla mobilità del capitalismo internazionale, è davvero utile continuare ad ancorare le risposte al quadro di riferimento nazionale, quando non si riesce nemmeno ad evocare una risposta sindacale unitaria almeno a livello europeo, né a dare una risposta ai temi dell'energia che tenga conto della dimensione continentale dei problemi del consumo e del risparmio energetico? E davvero è indispensabile ripercorrere la via ottocentesca della moltiplicazione dei modelli culturali nazionali, in un'impossibile concorrenzialità fautrice solo di duplicazioni inutili e di sprechi, quando sarebbe assai più semplice e conveniente riconoscere la libera circolazione delle idee, della cultura, della

progettualità e soprattutto - in una società che è di fatto aperta e lo sarà sempre di più, all'immigrazione dei popoli del terzo mondo - della mano d'opera? L'internazionalismo, il cosmopolitismo sono fenomeni che seguono a quella caduta delle barriere dell'informazione che la tecnologia rende ormai" inevitabile. "Davvero si può pensare che vi sia qualcuno disposto a morire per lo Stato, o non piuttosto hanno ragione quanti con Sciascia oggi, con Piovene ieri in una memorabile polemica con De Caprariis, vi si rifiutano?

Affiancando il PCI, teorici aggressivi ed apodittici hanno invece ancora una volta sancito e avallato la pretesa dello Stato. "Senza partire oggi da una politica di governo della crisi capitalistica - scrive Mario Tronti nel volume citato (ib. pag. 83) - non sta in piedi nessun progetto pratico di fuoriuscita dal sistema". E "governare" è arte e responsabilità dei partiti, ai quali spetta di arrogarsi la priorità del Potere e della sua gestione.

Terza domanda: quale opposizione, in vista di che cosa e per quali ipotesi di fondo.

Il politico è spazio eminentemente maschile, si coniuga infatti con Potere. Finora, i radicali hanno in vece preferito la" politica, "al femminile, come non transeunte omaggio alla liberazione della donna. La politica, di fatto, ha quale suo strumento privilegiato la" parola. "Per necessità, per povertà di mezzi, per scaltrezza guittesca, ma soprattutto per intelligenza storica, la parola ha fatto aggio, nelle iniziative radicali, su ogni altra forma di intervento e di presenza. E' stata non solo veicolo, ma oggetto della politica radicale. Suo bersaglio preferito, il potere": far deperire il potere, "disegno non transeunte, si spera.

Certamente, i rischi sono moltissimi. La parola è anche ambigua. Se da una parte essa gestisce il potere nel senso che lo mette a disposizione, lo divide e lo partecipa, è vero anche che a volte può farlo in termini pericolosi e inquietanti. Il fascismo scoprì la forza della parola in opposizione ad una politica gretta e intraducibile, ma con la stessa parola ricostituì la monolitica compattezza del Politico.

E vi è, d'altra parte, la necessità delle mediazioni. Le mediazioni sono necessarie; ce lo ricorda Cacciari: l'hegeliano Pöbel - la plebe - è l'irrelativo negativo. Ma perché considerare impraticabile l'ipotesi della riappropriazione diretta da parte della società, delle masse, della capacità - del "diritto civile" - ad esprimere valori attraverso altre mediazioni che non siano i partiti, questi partiti? In un primo luogo attraverso il rischio del linguaggio, della parola, che storicizza e media i meri, grezzi" bisogni? "E perché non potrebbe essere necessario persino liberare i partiti della responsabilità di" dover "rappresentare l'elemento utopico, totalizzante, ideale/ideologizzante che è sale e fermento delle società moderne, le sommuove, le" accultura "e ne fa dati" comunque "antagonistici alle istituzioni, perfino alla datità della forma-Stato? Occorre rendere mobilità a certe categorie. Occorre rifiutare l'interpretazione di un Baget Bozzo, quando attribuisce al partito radicale il ruolo di "negatore

della storia" - appunto, i partiti, lo Stato, ecc. - e di esaltatore della cruda "natura" dell'immediato, della pura e semplice - magari - corporeità.

La" politica, "non vi è dubbio, agisce in superficie, a livello di linguaggio, di rapporti, di comportamenti, di bisogni: essa ha come assioma che l'alienazione non è un irriducibile (come è secondo i francofortesi), ma un processo che può essere combattuto anche nel qui e nell'oggi attraverso il comportamento, l'ironia, la scelta anche volontaristica degli obiettivi e dei fini, e non solo attraverso una regolazione globale", intellettuale, "della società. La politica - o non sarebbe nemmeno possibile - è ottimismo dell'azione. Così, penso che, coerentemente a questo "modello", almeno fino ad oggi si debba parlare soprattutto di politica radicale, prima ancora che di partito radicale; nello stesso senso in cui si parla - mi scuso degli accostamenti - di cavourrismo e di giolittismo. Questa politica ha avuto e ha i suoi soggetti, che però non sempre si identificano e coincidono con il partito. I referendum sono stati un modo di esprimersi di questa politica; un altro lo si è visto venir fuori durante questa r

ecente campagna elettorale, vinta a livello della parola, nell'assenza di presenza strutturale del partito. Il partito radicale non ha nemmeno determinato, in realtà, la formazione dei suoi gruppi parlamentari.

Insomma, a questo punto, l'oggetto misterioso torna ad essere il partito radicale e il questionario da sottoporre urgentemente in giro, per cortese risposta, è un altro. Si capisce quale. Va bene: intanto però Berlinguer, con il suo saggio, rimette in squadra il suo partito per le battaglie d'autunno, dietro l'ariete sindacale e operaio. Lungo questa strada, che è insieme ampia e impervia, può darsi che parecchie domande, fino a ieri importanti, appaiano un po' oziose e leziose, insieme alle risposte che si è cercato di dare loro: comprese queste mie, naturalmente.

 
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