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Flores d'Arcais Paolo - 30 gennaio 1980
Dal terrorismo, ripensando un decennio: rivoluzione o riformismo libertario
di Paolo Flores d'Arcais

SOMMARIO: Con questo editoriale l'autore dà il suo contributo alla riflessione sulle vicende di questo decennio. Riconosce le ambiguità del '68 individuando le due anime che in esso convivono senza consapevolezza critica: quella del riformismo libertario e quella del terrorismo. La critica alla sinistra istituzionale sembra unitaria, in realtà è costituita da componenti critiche non solo diverse ma incompatibili. Per gli uni essa è poco credibile perchè ormai strutturalmente incapace di "vera democrazia", per gli altri il vizio della sinistra storica è la sua rinuncia alla tradizionale "durezza".

Parte dei movimenti e dei gruppi che dal '68 hanno tratto origine, continuano a tenere commisti nelle loro analisi elementi che appartengono alle due incompatibili anime, si tratta di vedere se questo possa dar luogo a composti stabili o se invece sia necessaria una scelta decisa.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

"Abbiamo chiesto a Paolo Flores d'Arcais, militante della nuova sinistra dal '68 ed ora socialista direttore del centro "Mondoperaio" di Roma, di essere editorialista ospite di "AR" sulle vicende di questo decennio. Lo ringraziamo di aver voluto contribuire alla generale riflessione in corso a partire dal problema del terrorismo d'oggi".

Dal '68 ha origine il terrorismo. "Anche" il terrorismo, e non fa poca differenza. Dal '68 ha origine, insieme, il riformismo libertario. E qui, a prima vista, l'affermazione sembra gratuita. Avanzata per riabilitare la contestazione studentesca e operaia oggi imputata (da parte dei "nuovi moderati" oltre che dai moderati di sempre) di aver funzionato come laboratorio e grembo del terrorismo successivo.

Ragioniamo le due affermazioni. La prima, che il terrorismo abbia tra i suoi luoghi di origine alchemici anche il '68, è considerata "ovvia" e ormai stabilita. La assumiamo dunque, come punto di partenza poiché la riteniamo vera (purché si sottolinei quell'"anche") malgrado l'uso polemico e strumentale di questa verità da parte della destra e della "sinistra" autoritaria. La seconda, che dal '68 tragga origine anche il riformismo libertario, viene in genere confutata in forza dell'osservazione che tutte le componenti del '68 trovano, allora, l'unità proprio nella critica radicale di ogni riformismo e revisionismo possibili. Proprio questo smarrimento riformista, anzi, tutto il '68 imputa alla sinistra tradizionale, partiti e sindacati. In sostanza, l'adesione di principio e incondizionata alle istituzioni politiche liberaldemocratiche ("borghesi" per definizione).

La confutazione, tuttavia, isolatamente presa è di poco valore. Poiché tutto il '68, allo stesso modo, nulla concede alla logica del terrorismo. Non sospetta nemmeno, anzi, che fra violenza di massa e terrorismo possano intercorrere rapporti. In questo, certo, si sbaglia. Non ha coscienza di quello che coltiva. Ma, allo stesso modo, non ha coscienza di portare dentro di sé anche le istanze del riformismo libertario. Insomma, se giudichiamo il '68 secondo quanto esso presume di sé non possiamo dedurne né il terrorismo né il riformismo libertario. Da questa duplice deduzione impossibile possiamo solo dedurre che il '68 non sa quello che contiene come sue potenzialità eterogenee. Il '68. infatti, è soprattutto ambiguo e vive di antinomie. Esse, sciogliendosi, metteranno capo a due anime che, nella temperie degli avvenimenti di quel periodo, convivono senza consapevolezza critica. Fa velo, alla comprensione di questo fenomeno, la "frase rivoluzionaria" che sembra conferire unità al movimento. Affrontiamo questo

scoglio.

Il Sessantotto

Il '68 ha evitato di riproporre il dilemma, che percorre le vicende di un secolo di storia della sinistra, "riforma o rivoluzione". Lo dà, infatti, per scontato in quanto risolto. L'ipotesi riformatrice (dileggiata come "riformismo") avrebbe dato ampie prove, e ripetute, del suo carattere fallimentare. Meglio: velleitario e utopico. Suonerebbe conferma il mediocre concludersi del centro-sinistra. La sinistra tradizionale ha optato per le riforme. Di qui la sua impotenza. Non avrà, infatti, né le riforme né la rivoluzione, cui ormai ha rinunciato. La sinistra tradizionale, inoltre, è irrimediabilmente burocratizzata. Corpo separato rispetto alle "masse" e al "movimento", la sua sclerosi organizzativa sarebbe insieme causa ed effetto della sua sempre più pronunciata subordinazione al sistema di potere democristiano. Tutti fattori che spiegherebbero, infine, il venir meno della tensione e degli ideali internazionalisti, il generico e dimissionario "pacifismo" proprio mentre "vietcong vince perché spara" e il "C

he" sacrifica la sua vita in Bolivia come ultima testimonianza di un percorso militante irriducibilmente antiburocratico. Questo, il "j'accuse" del '68 alla sinistra tradizionale.

Antiautoritaria, e dunque libertaria, la sinistra "nuova" si vuole al tempo stesso rivoluzionaria e antiburocratica proprio perché legge burocratismo (in quegli anni estremo) e scelta riformista della sinistra storica come due facce dell'unica medaglia: la rinuncia alla rivoluzione. Il '68, perciò, sarà rivoluzionario perché libertario e libertario perché rivoluzionario. La sua critica della sinistra istituzionale sembra una e unitaria. In realtà è costituita da componenti critiche non solo diverse ma incompatibili. E gli anni successivi rivelano questa incompatibilità.

Per gli uni, infatti, il "peccato" della moderna società borghese (e tanto più di quella sua incarnazione rachitica e bigotta che è la società borghese italiana del dopoguerra democristiano) consiste in un difetto di democrazia, in una carenza di libertà e di eguaglianza. Dunque, se vogliamo, in una contraddizione fra i valori che la società borghese proclama e il suo terreno, quotidiano operare. Che di quei valori è tradimento e smentita. Realizzare integralmente l'89 e socializzarne i valori, con riferimento anche alla sfera economica nella quale il tabù della proprietà privata dei mezzi di produzione costituirebbe limite, ostacolo, interna contraddizione da sciogliere in chiave di autogestione dei produttori: questo il compito storico della sinistra che la sinistra tradizionale abbandona e che la nuova sinistra assume. Il comunismo, insomma, come "vera democrazia" secondo la formulazione del giovane Marx.

Per gli altri, invece, il comunismo come "movimento che abolisce il presente stato di cose". La democrazia, di conseguenza, come mero rivestimento formale (e fuorviante) dei rapporti sociali di produzione. Non la rivoluzione quale strumento, ancorché ineludibile, per una più autentica democrazia (e per il suo compimento e consolidamento egualitario), ma la rivoluzione che, "in quanto tale", in quanto rovesciamento, in quanto "sovvertimento" del presente capitalistico sarebbe già democrazia e farebbe scadere a democraticismo ogni ulteriore preoccupazione problematica sul tema. La rivoluzione, insomma, come fine e non come mezzo.

Per gli uni, in sostanza, la sinistra storica è poco credibile perché ormai strutturalmente incapace di "vera democrazia". In questa mancanza starebbe l'origine dei suoi cedimenti. Per gli altri, viceversa, il vizio d'origine, da cui poi l'opportunismo piccolo borghese, nasce dalla rinuncia della sinistra storica alla tradizionale "durezza" che è tratto costitutivo della linea rivoluzionaria. Non a caso i primi riscopriranno Rosa Luxembourg e i secondi Stalin. Ed entrambi si inventeranno un proprio Mao, flagello dei burocrati in un caso, terrore dei revisionisti nell'altro.

L'anima antiburocratica e l'anima rivoluzionaria

Di nuovo: la presenza di queste due anime non si avverte in quegli anni. Per un motivo ideologico: entrambe si presentano come mere interpretazioni, o addirittura sottolineature, di una stessa ipotesi teorica, quella leninista e marxista. Ma, si badi, abbiamo da un lato il Lenin di "Stato e rivoluzione" interpretato in chiave libertaria, il Lenin di Kolakowski in "Marxism and beyond" e di Colletti in "Ideologia e società". Dall'altro il Lenin del "Rinnegato Kautsky", del rivoluzionario come giacobino. Che una delle anime del '68 passi attraverso l'equivoco (e l'errore filologico) di un Lenin iperdemocratico, anticipatore della critica allo stalinismo, non può stupire: si tratta dello stesso percorso dei due autori che abbiamo più sopra citato e che sono, non a caso, i massimi rappresentanti dell'eresia marxista, prima e del superamento del marxismo poi, nell'Europa, rispettivamente, dell'est e dell'ovest. Analogo "lungo viaggio attraverso il marxismo" compirà l'anima riformista libertaria presente nel '68 e

scarsamente consapevole della propria natura.

Di più: l'unanime convinzione c'he comunque (si tratti della rivoluzione come fine o della rivoluzione come mezzo a una finalmente autentica democrazia) "lo Stato borghese si abbatte e non si cambia" costituisce il formidabile fattore di occultamento delle incompatibilità teoriche e pratiche che convivono nel movimento del '68. Le divergenze, perciò, si presentano allora come mere divergenze tattiche. Richiamiamone qualcuna. L'uso della violenza esclusivamente come autodifesa contro l'illegalità sia fascista che degli apparati dello Stato (illegalità che vi furono, e reiterate, e che oggi sembra "á la page" rimuovere dalla propria memoria) o la violenza (delle molotov, non ancora delle P38) come strumento occasionalmente agibile per "allargare il movimento". I consigli di fabbrica come prima approssimazione a una più autentica democrazia operaia e sindacale o come strumento di più sottile e perfida tolleranza repressiva dei burocrati nei confronti delle masse, La denuncia delle prepotenze e degli abusi del p

otere, soprattutto nel campo dei diritti civili, in specie processuali (il "garantismo", già allora!), come elemento fondamentale di una strategia tesa a dimostrare l'incoerenza democratica delle istituzioni oppure la stessa denuncia quale mera componente tattica di una strategia che comunque ritiene le procedure garantiste inevitabilmente inganno e addirittura auspica il tanto peggio tanto meglio", l'illegalità statale dichiarata e palese, E si potrebbe agevolmente continuare.

I rivoluzionisti legittimano ogni forma di violenza

Teniamo dunque fermo questo: nel '68 convivono due anime, anche se esse non si percepiscono come tali. Queste anime su muovono, sul terreno teorico e su quello pratico, ciascuna in modo contraddittorio e inconseguente. Gli anni successivi significheranno, per tutti, il lento e progressivo scioglimento di quelle contraddizioni. Per parte rivoluzionaria: se il comunismo è movimento che abolisce lo stato presente di cose, l'attività di sovversione "deve" considerare non solo legittima ogni forma di violenza ma la stessa scelta del terrorismo come mera questione tecnica e tattica. Chi tiene ferma la necessità dell'insurrezione, "della rivoluzione", può al massimo imputare al terrorista di essere un "compagno che sbaglia". E che sbaglia, s'intende, quanto ai tempi e alle opportunità, non certo in linea di principio. Per parte riformatrice: l'interpretazione libertaria di Lenin non tiene, la scelta della critica del presente borghese in nome di una più autentica democrazia risulta incompatibile con l'idea leninian

a di un partito soggetto e garante della catarsi storica. Anzi, è proprio l'idea della rivoluzione che deve essere rimessa in discussione in quanto frutto di una filosofia della storia che è versione laica del cristiano (o più ancora hegeliano) "disegno provvidenziale".

Il tema teorico del passaggio dal marxismo critico ed eretico alla critica stessa non solo del leninismo ma anche del marxismo (critica che può ricondurre a posizione liberali o addirittura conservatrici così come può dar luogo invece a posizioni di socialismo libertario) viene qui solo accennato, costituendo una delle vicende-chiavi della cultura europea di sinistra in questo dopoguerra. Importa qui, invece, riconoscere in una delle anime presenti nel '68 uno dei fattori che contribuiscono a dare vita all'attuale, variegata, area del riformismo libertario, presente tra i socialisti come tra i radicali, e nei settori democratici e "garantisti" dell'estrema sinistra.

Il fatto che parte dei movimenti e gruppi che dal '68 hanno tratto origine (area PDUP e Democrazia Proletaria, Lotta Continua, Manifesto) continuino a mantenere commisti nelle loro analisi elementi che appartengono alle due incompatibili anime di cui si è sopra schematizzato non è motivo che possa invalidare il tentativo di bilancio del '68 che qui si accenna. Si tratta infatti di vedere se, per l'appunto, queste posizioni, questa mescolanza di ingredienti incompatibili, secondo dosaggi in ogni singolo caso diverso, possa davvero dar luogo a composti stabili, O se, al contrario, lo scioglimento di queste contraddizioni non esiga una scelta secca: "o rivoluzione" senza più possibili condanne (se non tattiche) del terrorismo "o riformismo libertario" come unica strada, obbligata, di una scelta rivoluzionaria autentica, che riconosce il carattere almeno parzialmente aperto delle istituzioni liberal-democratiche. E intende, dunque, non "abbattere lo Stato borghese" ma riconoscere in esso i tratti universali di u

na conquista civile e storica e, semmai, inverarli contro il "tradimento" borghese. Nella consapevolezza che questa strada, una strada inequivocabilmente "occidentale" non è quella del moderatismo e del cedimento alla Democrazia cristiana. Anche se a questo può talvolta condurre e ha anzi condotto.

 
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