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Pizzorusso Alessandro - 21 marzo 1980
I profili costituzionali di un nuovo diritto della persona.
di Alessandro Pizzorusso

"IL DIRITTO ALLA IDENTITA' PERSONALE", seminario promosso dal "Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei", Genova, Palazzo Doria, 21, 22 marzo 1980

SOMMARIO: Impostando nella prospettiva costituzionalista i problemi posti dal seminario, si chiede se esistano i presupposti perché questi possano essere presi in considerazione come problemi di diritto positivo e più in generale se l'elenco dei diritti fondamentali di libertà contenuto nella Costituzione possa essere in qualche modo rielaborato in via interpretativa. Risponde innanzitutto positivamente a questa seconda domanda ricordando le opinioni prevalenti dei costituzionaliti che considerano l'articolo 2 della Costituzione »come norma "aperta" dalla quale è possibile desumere tutta una serie di diritti che non si identificano necessariamente soltanto in quelli esplicitamente menzionati negli art. 13 ss . Meno ottimista si mostra nei confronti delle prospettive concrete di utilizzazione di questo diritto alla identità personale.

(IL DIRITTO ALLA IDENTITA' PERSONALE, CEDAM, PADOVA 1981)

Per impostare, con riferimento alla prospettiva costituzionalistica, il problema che ci è stato proposto da Alpa e Bessone, mi pare che occorra svolgere due analisi relativamente separate. Da un primo punto di vista, che si può in un certo senso indicare come punto di vista teorico, occorre vedere se sussistano i presupposti perchè questo problema possa venir preso in considerazione come problema di diritto positivo e, in caso affermativo, quali ne siano i termini essenziali. Da un secondo punto di vista, si tratta di vedere, una volta stabilito che teoricamente il problema può essere esaminato, quali risultati ci possiamo aspettare dal tentativo di applicare l'impostazione di esso che ci à stata proposta a fattispecie concrete.

Il problema generale consiste nel valutare se l'elenco dei diritti fondamentali di libertà che è contenuto nella Costituzione possa essere in qualche modo rielaborato in via di interpretazione. E' questo un problema che si è già posto con riferimento ad altri "principi costituzionali non scritti" e, come è noto, c'è stato tutto un travaglio dottrinale e giurisprudenziale nell'ambito del quale si possono trovare non pochi precedenti favorevoli.

Riassumendo la vicenda per sommi capi si può ricordare come fino a circa venti anni fa gli studi relativi a questa parte della Costituzione italiana fossero assai arretrati, tanto che chi voleva analizzare i diritti di libertà doveva ricorrere a strumenti oltre modo antiquati come il volume sulla polizia di sicurezza del trattato di diritto amministrativo dell'Orlando, scritto da Oreste Ranelletti, o da altri lavori di analoga impostazione, caratterizzati dalla tendenza ad individuare non tanto le libertà, quanto le limitazioni delle libertà. e rivolti non tanto a tutelare i cittadini, quanto a difendere lo Stato contro i malintenzionati veri o supposti; si doveva ricorrere, quindi, a trattazioni svolte in base ad un'impostazione totalmente rovesciata rispetto a quella che dovrebbe esser propria di uno studio dei diritti di libertà.

In occasione del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione che si svolse a Firenze nel 1965 e nell'ambito del quale si dovevano analizzare, tra l'altro, le vicende del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, Paolo Barile, che coordinava questo settore dei lavori, ebbe la buona idea di compiere una sorta di rivoluzione copernicana di questa impostazione e decise di prendere spunto dal malfamato testo unico delle leggi di p.s. per assumere ad oggetto principale di studio i diritti di libertà. Questo fu un passo importante ma non fu, secondo me, decisivo perchè anche nell'ambito dei lavori del convegno e nel libro di Barile che li riassunse e rielaborò, le libertà venivano pur sempre considerate come un elenco di situazioni giuridiche soggettive staccate l'una dell'altra.

Rispetto a questo modo di considerare i diritti di libertà, che è quello tutt'ora praticato dalla maggior parte dei costituzionalisti, un ulteriore passo avanti è stato compiuto in epoca più recente ed a mio parere i contributi più importanti in questa direzione sono stati recati da alcune analisi di singole libertà, le quali hanno offerto modelli dotati di valore relativamente generale, e soprattutto della riscoperta dell'art.2 della Costituzione che è stata compiuta nel commento ad esso dedicato da Augusto Barbera nel Commentario diretto da G. Branca, quando egli ha parlato di tale disposizione come di una norma "aperta", dalla quale è possibile desumere tutta una serie di diritti che non si identificano necessariamente soltanto in quelli esplicitamente menzionati negli art. 13 ss.

Questa impostazione è stata contraddetta in modo assai semplicistico nella sentenza della Corte costituzionale n.98 del 1979 (Foro it., 1979, I, 1929), relativa al problema dei transessuali, dove in tre righe è stato detto che l'elenco dei diritti di libertà contenuto nella Costituzione non può essere ampliato in via di interpretazione. L'affermazione è espressa in termini così generali da poter essere riferita non soltanto al preteso diritto al cambiamento di sesso che era stato in quel caso rivendicato, ma anche a qualunque altro diritto non scritto, compreso ad esempio il diritto alla riservatezza. Poiché tuttavia mi sembra che la Corte costituzionale non possa cancellare con tre righe di motivazione un'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ormai cospicua, penso che a questo precedente non si possa dare gran peso e che invece l'indicazione che risulta dall'indagine di Barbera e da quelle degli altri studiosi che hanno lavorato nella stessa direzione debba essere difesa e ulteriormente sviluppata.

In particolare mi pare che un esempio assai importante di applicazione di questo orientamento metodologico sia rappresentato dall'utilizzazione che del concetto di "costituzione economica" è stata fatta in questi ultimi tempi da vari studiosi ed in particolare da quelli che hanno collaborato al primo volume del trattato dei diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia diretto da Francesco Galgano, dove questo concetto è stato impiegato per individuare un complesso di principi in base ai quali unificare e coordinare, ma anche completare, le disposizioni costituzionali concernenti i diritti economici.

A me pare che questo metodo possa essere utilmente impiegato anche in relazione ad altri settori e che esso consenta di individuare, ad esempio, un concetto di "costituzione culturale" da affiancare a quello di costituzione economica ed al quale ricondurre tutto il complesso dei diritti di libertà che attengono alla tutela della persona e dell'ambiente, Mi pare, cioè, che si possa sostenere che dietro le singole disposizioni costituzionali in materia di libertà della persona e di tutela dell'ambiente, le quali regolano esplicitamente soltanto qualche aspetto di una problematica ben più vasta (la cui disciplina completa richiederebbe sviluppi più ampi di quelli che possono essere contenuti nelle poche frasi scritte nella Costituzione), esistano una serie di indicazioni capaci di indirizzare la disciplina dell'intero settore e che esse siano identificabili dagli interpreti e da essi utilizzabili per dedurne tutta una serie di corollari anche relativi a temi che la Costituzione non affronta esplicitamente.

Mi pare che questo metodo sia in sostanza quello che ha consentito di estrarre dalla Costituzione quei tali diritti di libertà dei quali ci ha parlato abbastanza dettagliatamente Alpa, per cui è inutile tornare ad esaminarli qui in modo analitico. Mi sembra però opportuno aggiungere che questo metodo consente di risolvere altresì il problema che si è spesso presentato alla dottrina ed alla giurisprudenza e che consiste nel valutare quali possibilità esistano di utilizzare a questo fine i vari cataloghi dei diritti fondamentali che sono contenuti in testi normativi diversi dalla Costituzione, alcuni dei quali tuttavia fanno parte dell'ordinamento positivo anche se con rango subcostituzionale (come la Convenzione europea o i patti del 1966), mentre altri hanno una portata meno definitiva (come la dichiarazione dell'ONU del 1948).

Nei casi in cui si è cercato di far valere in giudizio queste dichiarazioni dei diritti, si sono avute spesso decisioni che ne hanno negato l'utilizzabilità come vere e proprie norme, mentre in altri casi ci si è preoccupati di spiegare che la convenzione europea, ad esempio, essendo stata resa esecutiva in Italia con una semplice legge ordinaria non ha rango costituzionale e quindi non può essere utilizzata come termine di riferimento ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi. Ora mi pare chiaro che in questi casi la determinazione del rango che questi testi assumono o non assumono nel sistema delle fonti del diritto non possa esaurire il problema e che invece tutto questo genere di testi, che nel loro complesso rappresentano esplicazioni di una ideologia sostanzialmente unitaria, possano essere utilizzati per ricostituire questa ideologia e quindi applicati riferendoli alle disposizioni scritte nella costituzione formale o alle norme implicite ad essa e proprie della costituzione materiale.

In questo ordine di idee, mi pare che in teoria nulla impedisca di impostare il problema del diritto all'identità personale nei termini in cui lo hanno impostato Alpa e Bessone, seguendo la via che già è stata seguita con un certo successo con riferimento al diritto alla riservatezza, oppure anche con riferimento al "principio di affidamento" così come è stato ricostruito, in modo veramente esemplare, nel libro di Fabio Merusi.

Venendo al secondo punto, cioè a valutare quali siano le prospettive concrete di utilizzazione di questo diritto alla identità personale, costruito in base al metodo sopra descritto, mi pare però che si possa essere assai meno ottimisti. In proposito non mi diffonderò molto, sia per ragioni di tempo, sia perché molte cose sono già state dette molto bene da Mantovani, da Pardolesi e da altri.

Il primo luogo mi pare che si debba osservare che di diritto all'identità personale si potrebbe sicuramente parlare con riferimento ai problemi che sono stati concretamente dibattuti in molti paesi (in Italia meno che altrove, ma in certa misura anche in Italia) e che riguardano l'identità etnica e linguistica dei cittadini e dei gruppi sociali cui essi appartengono in base a questo genere di connotazioni. In proposito esiste una dottrina, una giurisprudenza ed una legislazione ormai ben definite, alle quali non vi è che da rinviare.

Ciò posto, mi pare tuttavia che vi siano grosse difficoltà a passare dal riconoscimento del diritto all'identità etnica o linguistica al diritto all'identità politica. A questo proposito devo dire che nel libro sulle minoranze linguistiche del 1967, io stesso aveva cercato di sostenere la possibilità di assimilare, almeno entro certi limiti, i due tipi di problemi, ma quanto allora sostenni fu oggetto di critiche che mi sembrano non prive di peso. In realtà, per poter estendere i principi riferibili all'identità etnica e linguistica alla identità politica bisognerebbe riferirsi a comportamenti o manifestazioni di opinione i quali non costituiscano semplice espressione occasionale di un pensiero o di un orientamento politico, ma costituiscano una connotazione tendenzialmente permanente dell'individuo o del gruppo, così come avviene per le connotazioni connesse all'identità etnica o all'identità linguistica. Ora voi capite come sia difficile poter stabilire una connotazione di questo genere in positivo (cioè a

ttraverso rivendicazioni dell'identità politica provenienti dall'individuo o dal gruppo in questione), come risulta proprio dal fatto che l'attribuzione, in negativo, di siffatte connotazioni è proprio ciò che si fa da parte di chi vuole esercitare un'azione discriminatoria o repressiva nei confronti di un gruppo politico e degli individui che professano determinate opinioni.

Se prendiamo in esame le esperienze compiute negli Stati Uniti all'epoca del maccartismo, ad esempio, vediamo come la giurisprudenza che ne costituì espressione tendesse a fare della qualifica di "comunista" o di altre analoghe una connotazione di identità politica allo scopo di applicare sanzioni e di reprimere altrimenti la libertà di opinione di un certo tipo di oppositori.

In tale situazione, cioè, si aveva realmente una qualificazione tendenzialmente permanente degli individui, dei gruppi, ecc., per certi versi analoga a quella degli appartenenti alle minoranze di colore o ad altri gruppi sociali qualificati in base a fattori di differenziazione di altro genere. Però, mentre quando si tratta di analizzare una politica o una legislazione di tipo discriminatorio (naturalmente, per respingerla o censurarla), l'assimilazione del gruppo politico al gruppo etnico può avere una relativa validità, mi pare molto più difficile realizzare tale assimilazione nell'ipotesi inversa, cioè in quella in cui sia il gruppo a reclamare il diritto ad una certa connotazione o l'individuo a chiedere che sia riconosciuta la sua identità politica.

In base alla concezione dei rapporti politici generalmente accolta, infatti, nessun gruppo politico aspira a costituirsi in una comunità relativamente chiusa; al contrario, ciascun gruppo aspira ad espandersi fino potenzialmente ad identificarsi con l'intera comunità o almeno con la maggioranza dei componenti di essa e ciascun soggetto politico non vuole certamente rendere fissa o permanente la differenza di opinioni che lo separa dagli altri individui, ma al contrario vuole convincerli e possibilmente assimilarli alle proprie convinzioni.

Mi pare dunque che l'impostazione che è stata qui proposta incontri grosse difficoltà e del resto queste difficoltà emergono chiaramente se analizziamo la sentenza resa dal pretore Burbatti sul ricorso proposto dall'onorevole Pannella contro il segretario della Federazione del P.C.I. di Torino. Tale sentenza mi lascia notevolmente perplesso giacché, mentre non c'è dubbio che dovesse essere corretta la notizia non vera circa l'avvenuta candidatura del ricorrente nelle liste di "Nuova Repubblica", come del resto anche la parte convenuta aveva riconosciuto, contiene una discutibile indagine circa la legittimità della qualificazione dell'on. Pannella come affetto da "anticomunismo viscerale" che gli era stata attribuita dal convenuto. A me pare che dire che una persona è comunista o anticomunista, che è radicale o antiradicale, ecc., sia un giudizio fondamentalmente politico che può essere giusto o sbagliato, ma che rientra nell'ambito dell'opinabilità, e non un fatto che può essere vero o falso (come l'avvenuta

candidatura di una persona determinata nelle liste di un movimento determinato). Di conseguenza mi pare che la giustezza o meno del giudizio politico espresso nei confronti dell'attività svolta dall'on. Pannella costituisse esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e non potesse perciò essere sottoposta al sindacato del giudice.

Del resto, se l'amico Boneschi qui presente dicesse che io sono antiradicale, la cosa magari mi potrebbe non far piacere, ma certo non mi sentirei di trascinarlo davanti ad un giudice per sentirlo smentire (né tanto meno mi verrebbe in mente di chiedere una perizia da parte di uno storico delle dottrine politiche).

 
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