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Sciascia Leonardo - 29 settembre 1980
LA "QUESTIONE IMMORALE"
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: Ironicamente, a proposito di un lapsus del ministro Rognoni, Sciascia denuncia che i danni più gravi al paese sono causati non dal "sisma", ma dal "sistema". Quale sistema? quello della corruzione "che si è insinuata in ogni fibra della vita italiana" provocando una vera e propria "questione immorale"... "Notizie radicali" ripropone quindi, con il commento di V. Vecellio ("a tredici anni di distanza viviamo la stessa, identica, drammatica situazione". Bene ha fatto dunque Pertini a rivolgersi direttamente al paese in TV..."), un testo di Sciascia del 1968, subito dopo il terremoto del Belice, nel quale si denunciano le carenze dello Stato e l'incomprensione di "certi giornali del nord (notoriamente antimeridionalisti") incapaci di rappresentare correttamente la realtà di una regione "stanca, che muore giorno dopo giorno..."

(NOTIZIE RADICALI, 29 settembre 1980)

E' il 25 novembre. Un lapsus del ministro Rognoni alla Camera: "Nelle zone colpite dal sistema". Immediata correzione: "dal sisma". Ma andava meglio, in ordine alla verità, il lapsus. Possiamo con tranquilla coscienza - metaforicamente non solo, ma praticamente, ma statisticamente - affermare: ne uccide più il sistema che il sisma.

Ma quale sistema?

Credo che lo si possa definire con brevità e precisione: il sistema della corruzione. Il sistema dell'inefficienza, dell'imprevidenza, del campare (e scampare) alla giornata non si spiega che col sistema di corruzione che le sta dietro. Una corruzione che si è insinuata in ogni fibra della vita italiana, che disgrega sentimento e ragione, che per troppo cinismo si rovescia nella stupidità. E' un sistema che appare in tutta la sua crudezza nei momenti come questo tragici, in cui si sa che allo sciacallismo dei piccoli - la bottiglia di acqua venduta a settemila lire e la coperta a centomila - inevitabilmente corrisponderà lo sciacallismo dei potenti, come macroscopicamente nella valle del Belice. Non ripetiamo quello che è accaduto nella valle del Belice, invocano i giornali. Ma davvero crediamo si possa non ripetere se nulla da allora è mutato? Viene, sì, agitata una "questione morale": ma non è un chiedere l'impossibile, se coloro che dovrebbero porsi, di battersi e risolversi nella "questione morale" sono

quegli stessi che di questo passo hanno fatto una quasi totale e totalitaria "questione immorale"? Si aprirà la serie degli "immorali pentiti" come si è aperta quella dei "terroristi pentiti", e con uguale attendibilità?

Intanto, il vertice sulla "questione morale" è stato rimandato: in forma dei tragici avvenimenti. O in grazia. C'è da credere in una specie di Provvidenza nera, che rovescia una sventura così immane a favorire l'allontanamento della "questione morale" non solo, ma ad incrementare la "questione morale".

Le zone colpite dal sistema, dunque. Ancora una volta.

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LA QUESTIONE MORALE: NON E' CAMBIATO NULLA: QUELLO CHE SCIASCIA SCRISSE IL 16 GENNAIO 1968

Non è cambiato nulla. Per rendersene conto, basta rileggere l'articolo di fondo che Leonardo Sciascia scrisse su "L'Ora" il 16 gennaio 1968 trentasei ore dopo il terremoto del Belice. A tredici anni di distanza, viviamo la stessa, identica, drammatica situazione. Bene ha fatto, dunque, il presidente Pertini a rivolgere il suo accorato appello in televisione. Un appello che ha sdegnato; ma sono coloro che mostrano di stracciarsi le vesti, che, in realtà, procurano sdegno.

"Le ultime notizie che abbiamo avuto ieri sera dalla televisione e dalla radio, tristissime, accorate e accompagnate da immagini e descrizioni del disastro veramente apocalittiche (e c'era a Palermo, negli slarghi delle piazze e nella campagna di periferia, dal primo pomeriggio alla notte, un'aria da anno mille che si tentava di rovesciare in "kermesse" intorno ai fuochi di sterpi e a deschi improvvisati sulle panchine) fra tanta pena insinuavano e anzi assicuravano la rapidità ed efficienza dei soccorsi e dei provvedimenti: per cui, chi come noi nel giro degli ultimi anni ha visto l'inefficienza e lentezza con cui lo Stato si è manifestato nell'alluvione che ha colpito Agrigento, ha avuto l'impressione che veramente qualcosa fosse cambiato in Italia.

Ma la prima notizia che stamattina abbiamo letto su un giornale dice, invece della lentezza con cui la macchina dei soccorsi si muove, e che alle quattro del pomeriggio di ieri, cioè dodici ore dopo la sciagura, a Santa Margherita Belice non era ancora arrivata "né una tenda, né una pagnotta, né una coperta".

Niente dunque è cambiato e in nessun caso dobbiamo farci illusione che cambi.

Quello che invece scatta con puntuale efficienza è il triste rituale demagogico e il richiamo alla unità e alla solidarietà sentimentale di un paese effettualmente disunito, pieno di contrasti e contraddizioni, a livelli diversi e di fatto inunificabili. E di fronte alle immagini di Gibellina distrutta ci pareva di sentire i commenti di certa gente sul cui cuore fanno appello certi giornali del nord (notoriamente antimeridionalisti) quando aprono sottoscrizioni: "Vivono in case fatte di pietre e gesso, quelli lì", e così via.

La stessa voce, lo stesso accento, da cui abbiamo sentito che in Sardegna ci vorrebbero le bombe che gli americani impiegano contro i vietcong e che in Sicilia, salve (non si sa come) le brave persone che forse ci saranno, ci vorrebbe addirittura l'atomica; quella stessa voce da cui qualche volta ci tocca ricevere il complimento che non sembriamo siciliani.

"Quelli lì"; lì a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono; quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli; pulviscolo umano, disperso al vento dell'emigrazione e che lo Stato soltanto pesa nella bilancia dei pagamenti internazionali; quelli che ancora faticano con l'aratro a chiodo e con muli; quelli che non hanno, né scuola, né ospedali, né ospizi, né strade.

E al presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo il dovere di dire che egli rappresenta un paese tremendo, dilacerato da contrasti e ingiustizie che sotto quiete apparenze non sono meno gravi di quelli che in altri paesi del mondo sanguinosamente dispiegano. E' che la Sicilia è stanca, che muore giorno dopo giorno, anche senza l'aiuto delle calamità naturali".

 
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