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Spadaccia Gianfranco - 1 novembre 1980
NOI E I FASCISTI: (17) Quello starnuto di Plebe
di Gianfranco Spadaccia

("Prova Radicale" marzo 1977)

SOMMARIO: Una raccolta di scritti sull'antifascimo libertario dei radicali: riconoscere il fascismo vuol dire capire quello che è stato e soprattutto quello che può essere. Troppo spesso dietro l'antifascismo di facciata si copre la complicità con chi ha rappresentato la vera continuità con il fascismo, la riproposizione di leggi e di metodi propri di quel regime.

("NOI E I FASCISTI", L'antifascismo libertario dei radicali

a cura di Valter Vecellio, prefazione di Giuseppe Rippa - Edizioni di Quaderni Radicali/1, novembre 1980)

Lo "scandalo" non è nelle dichiarazioni d'intenzione del senatore missino ma è nel nostro statuto libertario che con tanto orgoglio contrapponiamo ad ogni occasione agli statuti centralistici, gerarchici, verticistici, e alle strutture chiuse, burocratiche che quegli statuti creano negli altri partiti. Il nostro statuto non riconosce a nessun organo del partito di rifiutare o di condizionare in alcun modo l'iscrizione di un cittadino che accetti il mandato stabilito dalla mozione congressuale approvata dai 3/4 dei voti e che accetti di versare la modesta quota di quindicimila l'anno. Per lo stesso motivo questo è l'unico partito in cui non esistono probiviri, consigli di disciplina, commissioni di controllo, in cui nessuno può essere espulso per dissenso ideologico o bollato con il marchio dell'indegnità.

Non è, come si vede, un motivo di poco conto, perché investe un patrimonio ideale che io considero forse il più importante contributo che il Partito Radicale ha dato in questi venti anni alla democrazia e alla sinistra italiana, un patrimonio non solo di prassi ma di teoria dell'organizzazione politica libertaria da solo più importante di tutte le nostre lotte, di tutti i nostri successi e di tutti i nostri insuccessi, la vera ragione della nostra diversità. Di colpo invece ci si accorge con preoccupazione e spavento che il partito può essere occupato, inquinato e stravolto. Di colpo assale la paura che possa essere indifeso di fronte a questi pericoli.

Le reazioni possono essere le più diverse. Si può pensare di introdurre nello statuto qualche potere di controllo sulle iscrizioni, ma chiunque lo pensasse e lo facesse non troverebbe vie di mezzo fra le prassi e la dottrina libertaria del Partito Radicale e quelle non libertarie degli altri partiti: ogni norma fatta per il sen. Plebe varrebbe domani per ogni altro iscritto al Partito Radicale e potrebbe essere fatta valere contro di lui. Si può invece accettare acriticamente lo statuto e rinunciare di esprimere un giudizio politico sia sulla dichiarazione d'intenzione del sen. Plebe, sia sul problema che esse rivelano e pongono, ma in questo caso in nome dell'efficentismo e dell'attivismo, dell'urgenza delle lotte e dell'adempimento del mandato congressuale si priverebbe il partito di un importante e necessario momento di dibattito e di riflessione, lo si disarmerebbe proprio nel punto più delicato, cioè nel modo di concepire l'associazione e l'organizzazione libertarie, federative, autogestionarie, la prop

ria democrazia interna. Infine si può accettare formalmente lo statuto utilizzando l'arma legittima e a mio avviso necessaria, del giudizio politico ed ideologico verso il fascista, ma in questo caso il partito del dialogo e della tolleranza verso il diverso andrebbe a farsi fottere.

Anche nell'esprimere un giudizio su Plebe, personalmente non mi sento di rinunciare all'esercizio critico della ragione. L'ho giudicato e lo giudico per quello che di lui so e conosco. Non per la sua attività di studioso di estetica, che ignoro, né per i suoi libri (perché devo confessare che non l'ho mai incontrato nelle mie letture, e questo può essere un mio limite), ma per le sue scelte politiche recenti e meno recenti, e per le sue dichiarazioni. Il giudizio che dò di Plebe è di trasformismo politico e di confusione culturale. Mi ricordo le sue prese di posizione contro il movimento studentesco, che echeggiavano quelli della "Pravda" quando era ancora l'unico intellettuale paracomunista accreditato a Mosca (che era già preclusa agli Strada e agli Spriano). Me lo ricordo alla Casa della cultura, contraddetto da un Terracini indispettito, definire in polemica con noi il divorzio "un diritto borghese". C'erano in quelle posizioni i germi della sua successiva adesione al MSI di Almirante? Se così fosse sare

bbe un'ulteriore conferma di quanto fascismo occulto ci sia, dietro l'antifascismo esteriore, nella cultura e nella prassi di certa sinistra. Il passaggio da un'estrema all'altra ha del resto precedenti illustri e non mediocri nella sinistra non solo italiana, ma europea. Più probabilmente nelle scelte di Plebe di allora c'era invece soltanto il conformismo che ha caratterizzato tanti intellettuali frontisti. Come nel suo tentativo successivo di fondare un movimento culturale della destra europea, richiamandosi alle involuzioni di alcuni esponenti della scuola di Francoforte, c'erano soprattutto molta vanità e forti e forse smodate ambizioni, ma ambizioni sbagliate. Nelle sue recenti dichiarazioni a "Panorama" ora che deciso una nuova inversione di 180 gradi, mi ha sbalordito quell'accento al futurismo, alla "concezione futurista" che il senatore avrebbe dell'azione politica. Ma davvero Plebe pensa che il nostro radicalismo, il nostro socialismo, il nostro libertarismo sia fatto di soli atti, di soli gesti?

Il gesto, ogni gesto, è soltanto un mezzo di espressione, di comunicazione di contenuti, posizioni politiche, idee, programmi. Sono lontani i tempi della "Voce" di Prezzolini in cui, in nome della comune lotta contro il positivismo allora dominante, potevano ritrovarsi insieme persone così diverse come Giovanni Amendola e come Papini, è non è un'esperienza riproponibile oggi perché altre sono le caratteristiche della crisi che stiamo attraversando. Meno che mai è possibile la confusione, fra un rivoluzionarismo soltanto esteriore e la lotta per la riforma radicale della società e dello Stato. Quello che mi sbalordisce, sempre e non soltanto per quello che riguarda Plebe, è l'indifferenza per i valori, per le grandi demarcazioni ideali, per gli obiettivi politici.

Ho invitato il senatore Plebe a meditare su quello che io considero un notevole "stato confusionale" del suo pensiero politico, se così si può definire. Ma, espresso questo giudizio, rifiuto di unirmi al coro dei "vade retro satana", agli appelli alla purezza radicale e antifascista, alle dichiarazioni dure e inequivocabili (che mi ricordano gli esorcismi).

Dal compagno Pezzana è venuto una sorta di aut-aut espresso personalmente a nome di tutto il Fuori, alla segreteria nazionale: respingere l'eventuale richiesta di iscrizione di Plebe. E come? Pezzana non lo dice.

Da altri compagni è venuto il rimprovero di non aver espresso un giudizio di deplorazione, di schifo, di condanna per il "fascista" Plebe.

Ci sono per tutti i momenti della verità. In certe cose o ci si crede fino in fondo o non ci si può credere a metà, per esigenza propagandistica o per furbizia tattica. Non si può credere a metà al nostro statuto libertario e pretendere poi, alla prima prova della verità, di tornare, di fatto o di diritto, ai meccanismi abituali che abbiamo criticato nelle altre organizzazioni politiche.

Ma è poi vero che questo partito può essere "occupato" e "snaturato" tanto facilmente? Che basta un senatore Plebe a metterlo in crisi? Un caso Plebe può metterci in crisi soltanto se non abbiamo le idee chiare, se non abbiamo i nervi a posto, se non abbiamo fiducia in noi stessi e nella nostra organizzazione libertaria. Con questo statuto il Partito Radicale è un partito di cui nessuno si può impossessare e che a sua volta non può spossessare nessun radicale della sua libertà di coscienza di giudizio politico, di iniziativa. Il partito è un minimo comune denominatore "politico" delle posizioni ideologiche che sono di ciascun radicale. Occorrono 3/4 di voti per approvare una mozione vincolante. Basta dunque meno del 30% dei voti per impedire il passaggio di una deliberazione. E il partito non può impedire a nessun radicale le cui proposte politiche siano state respinte dal Congresso di farle valere nel Paese senza impegnare il partito. Abbandoniamo questa impostazione, facciamone cadere anche solo un tassell

o e cadrà tutto l'edificio. Ritorneremo alla concezione del partito-chiesa o del partito-setta o riproporremo, magari sotto forma di autogestione collettiva. I meccanismi propri della tradizione giacobina; quelli delle assemblee che germinano comitati di salute pubblica i quali faranno cadere le teste, prima quelle degli avversari, e poi quelle dei compagni, o che producono non l'unità dei diversi, ma settarismo, frazionismi e scissioni.

L'altra cosa che dobbiamo chiederci è se crediamo fino in fondo a quello che abbiamo detto e scritto in questi anni sulle Stragi di Stato, sull'antifascismo della sinistra, sul fascismo delle istituzioni e dei suoi sicari. Non abbiamo sempre detto che la "caccia alle streghe" contro i sicari fascisti del MSI-DN, di Ordine Nuovo, di Avanguardia Nazionale, serviva benissimo per distrarre l'attenzione del fascismo ben più pericoloso che era ed è all'interno delle istituzioni: quello della DC dei suoi corpi separati, dei suoi servizi segreti? Non vorrei che la caccia alla "strega" Plebe o a qualsiasi altra strega venisse utilizzata, anche da noi, da ciascuno di noi, inconsciamente, per non guardare a quel tanto o poco di fascismo (cioè di intolleranza, di violenza, di prevaricazione) che è in ognuno, che ci portiamo dentro e che prima o poi si manifesta nei rapporti con gli altri.

Ma si può obiettare che una forza politica viene giudicata non solo e non tanto per ciò che dichiara e pretende di essere, ma per ciò che gli altri la fanno apparire. L'ingresso di Plebe, unito all'amplificazione dei mezzi di comunicazione di massa, e alla speculazione degli altri partiti, potrebbe avere un effetto pernicioso sul nostro partito.

Rispondo che per il Partito Radicale è sempre stato così: quando i canali di informazione del regime non potevano più sottrarre ai cittadini e all'opinione pubblica perfino la nozione dell'esistenza di una forza politica radicale, come è avvenuto per anni, si deformava la nostra immagine in modo che apparisse la più grottesca e la più ripugnante possibile. Non arrivavamo alla gente con i nostri colori - non eravamo più quelli della lotta al regime e alle sue baronie, dell'antimilitarismo, dell'obiezione di coscienza, dell'anticlericalismo, della lotta al concordato, del divorzio, dell'aborto, della liberazione della donna, della libera sessualità, della disubbidienza civile, della nonviolenza - ma arrivavamo con i colori deformanti delle luci dei riflettori che il regime ci proiettiva contro. Abbiamo risposto senza "pruderie", senza moralismi e senza perbenismi. Ci siamo impossessati di quella immagine rigettandogliela addosso e facendo anche di quella immagine un elemento di provocazione, dell'unica provoca

zione che conta, quella che nasce dalla coscienza della propria forza morale e politica e dei propri ancoraggi ideali. Non abbiamo avuto alcun timore a presentarci e a comportarci come l'armata Brancaleone dei diversi, come gli "uomini da marciapiede" che altri pretendeva che fossimo: piccolo esercito di imputati e di abortisti, di emarginati e di disertori, di omosessuali e di femministe, di gente comune, di sprovveduti uomini della strada.

E ciò che Pasolini aveva capito, nel suo intervento scritto il giorno prima di essere ammazzato per il nostro congresso di Firenze, ora ripubblicato nelle "Lettere Luterane", quando ci invitava a difendere queste caratteristiche di diversità anche di fronte al rischio che ci poteva derivare dal successo di questa o quella nostra lotta, ed a tornare subito dopo averla vinta ad essere quelli che eravamo il giorno prima di averla cominciata: "non vi siete tirati indietro di fronte a pubblicani e meretrici, e neppure, il che è tutto dire, di fronte ai fascisti".

Ma dietro tutto questo c'è il rigore delle nostre analisi su dati costitutivi "di classe" di questo regime, analisi che hanno retto alla prova di quindici anni di lotta politica. Ci sono i nostri ancoraggi ideali, primi fra tutti l'antimilitarismo (contro tutti gli eserciti) e l'anticlericalismo (contro tutti i clericalismi, anche quelli presenti nelle organizzazioni laiche, ovunque c'è qualcuno che, in nome dell'ideologia, pretende di spossessare gli altri della verità, della cultura, del giudizio politico, perfino del linguaggio che diventa linguaggio di iniziati). C'è la nostra sperimentazione libertaria e autogestionaria (una autogestione fondata non sulla mitizzazione di una democrazia diretta che può partorire come nel passato le peggiori forme di totalitarismo), ma sulle garanzie reali di autogestione libertaria.

Un partito ideologico e chiuso può temere le infiltrazioni e le occupazioni, ma un partito davvero laico non può temerle, perché delle idee radicali non è depositario il partito, ma sono depositari e garanti i radicali. Un partito che teorizza o giustifica la violenza, sia pure in nome della rivoluzione, può essere vittima della violenza del regime, mentre un partito non-violento può disarmarla. Un partito puritano può soltanto essere infangato, ma un partito che ha imparato a trarre la propria forza anche dal fango della strada non può esserlo.

I pericoli ci sono, ma sono altri. C'è il pericolo che anche noi si diventi come gli altri, che non riusciamo a tener fede all'impegno che ci chiedeva Pasolini. E c'è il pericolo che la nostra cultura della (e delle) diversità diventi una paccottiglia di sottoculture consolatorie, piagnone e vittimiste, prive di rigore e di analisi, e prive di rigore ideale. Ma questi pericoli non sono nel nostro statuto, li avverto caso mai proprio dietro e dentro certi allarmismi che all'interno del partito sono stati suscitati dal "caso Plebe".

"Gianfranco Spadaccia"

 
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