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Neppi Modona Guido - 13 gennaio 1981
I radicali cavalcano la tigre terrorista
di Guido Neppi Modona

SOMMARIO: L'editoriale, scritto durante la detenzione del magistrato Giovanni D'Urso, costituisce un violentissimo attacco alle iniziative del partito radicale. Secondo G. Neppi Modona "vi è stato un cumulo d'illegalità che ha aperto la strada a tutte le tappe del ricatto che il paese sta subendo in un clima sempre più torbido e confuso". Dopo la "repressione" della rivolta nel carcere di Trani, "la legge penitenziaria è stata sistematicamente e protervamente violata". I detenuti "non sono stati trasferiti", "hanno potuto continuare a riunirsi" e ad elaborare "messaggi di violenza", sono stati "autorizzati a costituirsi in delegazione", ecc. Nulla che fosse prescritto o concesso dalla legge penitenziaria vigente. In queste iniziative, i detenuti hanno trovato interlocutori nei radicali, "che hanno cavalcato questa terza tappa del ricatto dei terroristi": "qui è stata superata la soglia del pudore". Ai radicali, in definitiva, si chiede di "assumersi di fronte al paese la responsabilità di questa scelta" e a

lle autorità perchè non siano stati ancora incriminati i detenuti che hanno esaltato nei loro messaggi "il partito armato".

(LA REPUBBLICA, 13 gennaio 1981)

In queste ore drammatiche, in cui tutti attendiamo con crescente angoscia di conoscere la sorte del magistrato Giovanni D'Urso, è un preciso dovere degli organi di stampa informare il paese degli errori, dei cedimenti e delle illegalità che hanno consentito ai terroristi di innestare e poi di gestire indisturbati l'ignobile ricatto sulla vita di D'Urso.

Non vi sono solo stati comprensibili ed umani tentativi di salvare la vita del giudice sequestrato; vi è stato un cumulo d'illegalità che ha aperto la strada a tutte le tappe del ricatto che il paese sta subendo in un clima sempre più torbido e confuso. Per limitarci al presente, a partire dalla rivolta di Trani, la legge penitenziaria è stata sistematicamente e protervamente violata mediante un preciso programma che ha sottoposto la stampa ad un ricatta d'inaudita violenza.

Dopo la repressione della rivolta, i detenuti di Trani e di Palmi non solo non sono stati trasferiti, ma hanno potuto continuare a riunirsi come se nulla fosse successo, discutendo ed elaborando i messaggi di violenza e di morte con cui ricattare gli organi d'informazione. E ciò in palese violazione di quelle norme della legge penitenziaria che ammettono lo svolgimento di attività in comune dentro al carcere - e fu questa un conquista di civiltà che costò molto fatica ai parlamentari di sinistra presenti in Parlamento nel 1975 - solo se finalizzate ad iniziative di lavoro, d'istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e sportive; in una parola solo se riconducibili ad un programma di trattamento educativo e di recupero sociale dei detenuti.

Ma questa è stata solo la prima tappa, perché poi alcuni rappresentanti di quei detenuti sono stati in qualche modo autorizzati a costituirsi in delegazione per consegnare il testo dei comunicati e per intessere trattative con persone provenienti dall'esterno.

La legge penitenziaria - ed è stata questa un'altra importante conquista della riforma del 1975 - prevede la formazione di rappresentanze di detenuti solo in tre ipotesi tassative: per controllare l'applicazione delle tabelle e la preparazione del vitto; per partecipare alla gestione del servizio di biblioteca; per occuparsi, all'interno della commissione formata dal direttore, dagli educatori e dagli assistenti sociali, dell'organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive. Nessuno di questi fini rientra minimamente nei contenuti dei colloqui e dei documenti che i rappresentanti dei brigatisti detenuti hanno consegnato ai parlamentari radicali. Del resto per l'istituzione di queste commissioni il regolamento penitenziario del 1976 detta precise norme basate sul sorteggio, al fine di evitare prevaricazioni o la formazione di centri di potere tra i detenuti.

Una volta formatesi le commissioni, ovviamente senza alcun rispetto di queste norme procedurali e con l'acquiescenza del direttore del carcere e del magistrato di sorveglianza - i detenuti hanno trovato pronti gli interlocutori esterni. I parlamentari radicali che hanno cavalcato questa terza tappa del ricatto dei terroristi, si sono affannati a spiegare nei loro confusi comunicati stampa che erano entrati in carcere per esercitare i poteri ispettivi sul rispetto dei diritti dei detenuti e sulle condizioni di vita carceraria che l'articolo 67 della legge penitenziaria riconosce a varie categorie di personalità ufficiali, tra cui appunto i deputati e i senatori, i ministri, i giudici della Corte Costituzionale, i consiglieri regionali, eccetera.

Qui è stata veramente superata la soglia del pudore che sempre dovrebbe sorreggere l'uomo pubblico che in tale sua qualità si rivolge alla gente, perché nessuno riuscirà a farci credere che la permanenza continuativa per tre giorni a Trani e a Palmi rientrava nei normali compiti ispettivi dei parlamentari.

Forse i radicali domani verranno a dirci che sono entrati in carcere a norma dell'articolo 17 della legge penitenziaria, che al fine di favorire il reinserimento sociale dei detenuti prevede che il direttore e il magistrato di sorveglianza possono autorizzare l'ingresso in carcere di "tutti coloro che dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera". Ma allora dovranno pure esibire l'autorizzazione di quel direttore e di quel magistrato di sorveglianza che hanno interpretato la trattativa tra terroristi e parlamentari radicali come "opera di risocializzazione dei detenuti".

Tutto si può dunque dire, ma non che gli incontri nei carceri di Trani e di Palmi siano avvenuti nel rispetto della legalità. Ma allora almeno questo pretendiamo da chi ha deciso di cavalcare la tigre del terrorismo: che abbia il coraggio di assumersi di fronte al paese la responsabilità di questa scelta, senza cercare coperture mistificatorie in norme di legge che non esistono e senza tramare inganni sulla pelle di un'opinione pubblica già così traumatizzata sconcertata nel vedere che ormai i terroristi trattano da pari a pari con alcuni rappresentanti del popolo.

Infine, perché non ci si accusi di omissioni nella ricostruzione delle responsabilità politiche e giuridiche che hanno costellato le tappe del ricatto terrorista bisogna ancora domandarsi perché a tutt'oggi i terroristi detenuti che hanno formulato e poi diffuso mediante canali compiacenti, messaggi di esaltazione dei più recenti attentati del partito armato non siano ancora stati incriminati per i reati di istigazione e di apologia. L'immediato intervento della giustizia penale avrebbe forse funzionato come richiamo alla realtà per quegli organi di stampa che ancora pensano che la vita di D'Urso possa essere salvata dando spazio a chi scrive con le mani che grondano di sangue.

 
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