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Spadaccia Gianfranco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (3) Il Partito della Forca
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

Il Partito della Forca

di Gianfranco Spadaccia

Passato un mese alla liberazione di D'Urso, il ``partito della fermezza'' non si rassegna. Non ha avuto il cadavere che cercava e sul quale tentava di costruire disegni neppure tanto oscuri, ma anzi chiaramente decifrabili. Ma tenta ugualmente di rilancio della sua strategia, anche se è costretto a modificare drasticamente i propri obiettivi: l'obiettivo principale non è più la caduta del governo Forlani e la sua sostituzione con un governo Visentini, ma diventa quello di ricattare il PSI e di criminalizzare il Partito Radicale.

Ad oltre un mese dalla liberazione di D'Urso, il "Corriere della Sera" di Di Bella e del senatore a vita Leo Valiani scatena una nuova campagna di criminalizzazione. L'occasione è fornita dalla comparsa nelle edicole del numero 3 della rivista ``"Metropoli"''. Lunedì 9 febbraio, con ampi titoli di prima pagina, il "Corriere" pubblica la notizia della apertura di una nuova inchiesta giudiziaria sull'Autonomia, sulla rivista "Metropoli" e sui suoi finanziamenti. I ``servizi'' del "Corriere" non contengono nulla di nuovo: sono un "collage" di vecchie dichiarazioni rese da autonomi ``pentiti'', di vecchie notizie giudiziarie, di spezzoni di interrogatori raccolti dalla Commissione Moro. La logica che unifica questo "collage" è la stessa dell'inchiesta giudiziaria 7 aprile: "Metropoli" è solo l'espressione legale di un partito armato che ha il suo braccio militare nelle ``Brigate Rosse'' e nelle altre organizzazioni combattenti comuniste, e che comprende però tutti i settori della Autonomia.

Fin qui nulla di nuovo. Come radicali abbiamo sempre espresso la convenzione che alcuni settori dell'Autonomia abbiano commesso in determinati momenti della loro complessa e variegata storia reati specifici anche gravi, anche di terrorismo. E abbiamo sempre sostenuto che questi reati, come tutti i reati (questi non meno di quelli commessi dai ladri e dai peculatori di regime, o dai brigatisti e dagli autonomi di Stato) dovevano e devono essere perseguiti. Ci siamo sempre opposti invece al tentativo di servirsi di questi reati per costruire una montatura politica e giudiziaria che, non solo rende più difficile l'accertamento e il perseguimento giudiziario di questi reati e di chi ne è responsabile, ma rende più difficile e oscura la comprensione del fenomeno reale del terrorismo, ostacolando l'efficacia della lotta contro di esso.

Tutti i fatti, giudiziari e non, a cominciare dalla rivelazioni di Peci, hanno confermato l'esattezza di questa nostra analisi e valutazione. Chi pensa di prendere i pesci del brigatismo prosciugando le acque dell'Autonomia sbaglia tutto; non solo, ma spinge un bel po' di pesci che nuotavano nelle acque dell'Autonomia a sfuggire al soffocamento rifugiandosi nelle acque contigue ma distinte delle Brigate Rosse. In definitiva alimenta il reclutamento dei terroristi delle BR.

I servizi del "Corriere" sono solo un colpo di coda, dunque dell'inchiesta ``7 aprile'', una inchiesta pericolosa quanto fuorviante. Ma c'è qualcosa in più. Attraverso un centro studi costituito da alcuni autonomi, e attraverso le amicizie personali di questi con il senatore socialista Antonio Landolfi, si tenta di arrivare all'ex segretario del PSI, Giacomo Mancini, per incastrarlo come finanziatore e fiancheggiatore e, perché no?, ispiratore o addirittura ``grande vecchio'' del terrorismo. Due giorni prima il "Corriere della Sera" aveva pubblicato, anche questa volta con grande risalto, una intervista al segretario del PRI Giovanni Spadolini, in cui si parlava di connessioni oggettive fra forze parlamentari e terrorismo; di politica referendaria come anello di congiunzione dei radicali con il terrorismo; e si ipotizzava a parte queste connessioni oggettive, in termini neppure troppo velati, la possibilità di connessioni "anche" soggettive fra forze parlamentari e partito armato.

Lo scopo del partito della fermezza e dell'impero editoriale Rizzoli, con la benedizione e il patrocinio politico di Spadolini e di Leo Valiani, è dunque dichiarato: portare l'attacco a Mancini e a Landolfi, per attaccare indirettamente (e ricattare) il PSI, per attaccare anche se solo indirettamente e per pretese connessioni oggettive il Partito Radicale e la politica referendaria.

Viene ripreso quindi il tentativo, non riuscito durante e dopo il caso D'Urso, quando il partito della fermezza tentò di presentare i radicali (e anche i socialisti) come espressione parlamentare delle BR e del partito della violenza e del terrore e il governo Forlani come un governo debole, espressione di - sono le parole di Leo Valiani - uno ``Stato capitolardo''.

Questo capitolo più recente ci consente di vedere con maggiore distacco i comportamenti e la complessa, eterogenea composizione del partito della ``fermezza'' durante i 35 giorni del ``caso D'Urso''. Quel partito unificava forcaioli di destra, interni alla DC ed espressione di una opinione di destra anche laica, che da sempre è schierata a favore di scelte autoritarie ("Il Tempo" e "Il Giornale" ne sono stati l'espressione fra gli organi di stampa, neo e paleo-stalinisti del PCI, i repubblicani del PRI che in questo periodo storico rappresentano la continuità del partito crispino (la storia italiana è piena di ex repubblicani ed ex garibaldini che diventano monarchici e sabaudi, e di socialisti massimalisti, anarco-sindacalisti ed estremisti di sinistra che diventano fascisti), orfani di Moro che giustamente si sentivano responsabili del fatto di averlo abbandonato e tradito durante i 55 giorni della sua prigionia e che non potevano consentire che si facesse per D'Urso quello che non si era fato per Moro, gl

i ``amici di Senzani'' (mi si scusi la semplificazione solo apparentemente grossolana), cioè coloro che come Scalfari e come il ricattatissimo in quei giorni il direttore dell'"Espresso" dovevano farsi perdonare il fatto di aver sempre pubblicato tutto anche non richiesti e non sollecitati da nessuno e che proprio per questo sceglievano nella maniera più acritica e più agghiacciante il più ipocrita dei "black-out", ed infine il torbido intreccio di interessi che si coagula intorno all'impero editoriale di Rizzoli, e naturalmente i missini e paleo-fascisti di Almirante.

La situazione sotto un certo aspetto, rivista e riletta oggi, presentava anche alcuni aspetti ridicoli e perfino divertenti. Vedevamo sui bachi del Senato o della Camera, dopo essere stati accusati per anni di radical-fascismo, i consensi reciproci di missini e comunisti alle rispettive collimanti tesi; le urla con cui Trombadori in transatlantico riconosceva ai missini, quando parlavano di stato di guerra, il ruolo di ``difensori della Repubblica''; le interruzioni uguali nel tono, nelle espressioni e nei concetti, del missini Marchio e del direttore di "Paese-Sera" Fiori; coloro che ci avevano accusato alla vigilia delle elezioni del '79 di essere montanelliani, sostenere questa volta le stesse opinioni di Montanelli, montanelliani ora anche loro? Comun-fascisti anche loro? Certamente, se ci rassegnassimo - e non ci rassegnamo - ai loro metri di giudizio e ai loro metodi di lotta politica.

Ma chi era in questo vasto ed eterogeneo schieramento della cosiddetta fermezza che aveva un ruolo trainante e dove intendeva portarlo o spingerlo, comunque utilizzarlo?

Certo, il grosso delle truppe di questo esercito era rappresentato, almeno sul piano dei rapporti di forza parlamentari, dal PCI, dai suoi giornali, dai suoi gruppi di deputati e di senatori. Fin dal primo momento il gruppo dirigente del PCI si è gettato sulla ``fermezza'', con assoluta e rigida continuità rispetto all'atteggiamento tenuto sul ``caso Moro''. Ma il gruppo Berlinguer non si è limitato a questo: si è valso del ``caso D'Urso'' per rilanciare la polemica con i socialisti e con Craxi e approfondire così il fossato che divide il PCI dal PSI; per riprendere la politica di criminalizzazione a sinistra del Partito Radicale; per tentare di ridimensionare e dara un propria interpretazione riduttiva (ridurla a una ``prospettiva'' a lungo termine) della cosiddetta ``svolta di Salerno n. 2''; a forzare la situazione politica per una rapida crisi del governo Forlani. Per questi obiettivi, che se raggiunti gli servivano anche a superare e ``forzare'' alcuni dibattiti in corso all'interno del PCI, il gruppo B

erlinguer ha puntato sulla carta repubblicana.

Vi ha puntato, ma non è stata la forza trainante; piuttosto è stata una forza trainata e in qualche misura perfino utilizzata. Esclusa la destra forcaiola che non ne aveva né la forza né l'autorità, esclusi giornali che avevano qualche titolo di coerenza nel sostenere il "black-out" per averlo in qualche misura praticato anche nel passato, escluso lo stesso PRI che da solo non avrebbe altro ruolo che secondario e di comparsa, chi ha assolto questo compito trainante?

Se lo sono assunto da una parte Eugenio Scalfari e dall'altra il trio Rizzoli-Valiani-Di Bella.

Perché Scalfari? E' uno che crede nel potere, e nell'influenza che gli organi di stampa e gli interessi che rappresentano possono esercitare sul potere. Prima con l'"Espresso" poi con "Repubblica" il suo motto è sempre stato quello di fare non un ma "il" ``giornale della classe dirigente''. Le sue frustrazioni dipendono dal fatto che non si è accorto che in Italia non esiste una classe dirigente omogenea come in altri paesi industriali moderni, ma appunto esistono soltanto classi politiche unificate dala gestione e dalla lottizzazione solo del potere e del sottopotere. Guardando a questa inesistente classe dirigente, ha finito per assumerne tutti i difetti: per questo è riuscito ad accumulare fortune professionali, editoriali ed anche finanziarie, ma le sue imprese non hanno mai avuto alcuna fortuna politica; per questo, anche, si trova spesso ad assolvere un ruolo torbido nuotando nelle acque sporche dei poteri e dei sottopoteri, e dei loro rispettivi equilibri, di questo regime. All'inizio degli anni '60,

questo demiurgo, sempre deluso nelle sue ambizioni sbagliate, puntò sul PSI e sul centro-sinistra, tentando di distruggere prima il Partito Radicale. Negli anni '70 ha puntato invece sul PCI e sul compromesso storico, tentando di spazzare via il Partito Radicale e giocando anche la carta dello schiacciamento del PSI. Allora come ora assumeva di rappresentare gli interessi non solo di un giornalismo moderno capace di autofinanziarsi con il mercato delle vendite e la pubblicità (così è stato ed è per l'"Espresso", di cui è uno dei principali azionisti, così non è per "Repubblica"), ma anche di una non meglio precisata ``borghesia produttiva'' contrapposta in maniera abbastanza schematica e improbabile a una ``borghesia parassitaria'' che vivrebbe sulla rendita anziché sul profitto.

Nella vicenda D'Urso a tutto questo si è aggiunto il fatto di doversi fa perdonare gli ``scoop'' dell'"Espresso", le interviste alle BR, gli interrogatori di D'Urso, insomma le ``collaborazioni'' di Senzani, subito sparate in prima pagina da "Repubblica".

Così un giornale che ha sempre pubblicato tutto fino a una settimana prima diventa il più accanito sostenitore del "black-out": uno strano "black-out" che non riguardava tanto le BR quanto chi in quei giorni si adoperava per salvare la vita di D'Urso. Di fronte a queste scelte si spiega la sua rabbia, dopo la nostra decisione di rendere noto alla stampa il comunicato di Trani, e poi quello di Palmi, perché questa decisione chiama in causa la responsabilità diretta della stampa e quindi anche la sua. Una rabbia destinata a crescere dopo la decisione dell'"Avanti", quella del "Messaggero" e del "Secolo XIX". E su questa rabbia in cui si fondono i vecchi odii, anche personali, antiradicali e antisocialisti, si innesta il disegno politico di tentare sul fallimento dell'iniziativa radicale e sul cadavere di D'Urso una operazione rivolta a far cadere il governo Forlani, a far fuori il PSI, a rimettere in gioco il PCI. E anche lui punta tutto sul PRI, e tenta anche un'altra carta: quella di provocare un conflitto a

perto fra Pertini e il governo Forlani. Riesce, attraverso un ben dosato gioco di indiscrezioni, ad accreditare il suo giornale come portavoce delle opinioni, dei pretesi dissensi, perfino degli umori del Presidente della Repubblica. E giunge negli ultimi giorni della prigionia di D'Urso, fino al punto di sollecitare direttamente, e ripetutamente, un intervento diretto, un ``appello'' del Capo dello Stato al Governo, al Parlamento e al Paese.

Ma anche questa volta Scalfari non ha fortuna politica. D'Urso al termine di queste drammatiche vicende rimarrà in vita. Scalfari non avrà il cadavere che aspetta.

Più oscuro, apparentemente meno decifrabile, il ruolo dell'impero Rizzoli. L'ammiraglia di questo impero editoriale - il famoso "Corriere della Sera" che fu di Albertini e che ora è dell'ex capocronista del ``caso Valpreda'' (direttore Spadolini) Di Bella - ha da tempo scelto come portabandiera della politica della ``fermezza'' l'antifascista Leo Valiani. Nei suoi forsennati editoriali, a differenza di Scalfari, Leo Valiani non chiama in causa il Capo dello Stato. Ma è stato Pertini a farlo senatore a vita per meriti resistenziali e per meriti culturali. Non è logico pensare che lo abbia fatto anche per ``meriti di fermezza''? Valiani parla a favore del fermo di polizia, di ``indurimento'' del trattamento dei brigatisti nelle carceri, di durezza dello Stato che deve sostituire comportamenti governativi da ``Stato capitolardo'' (l'antifascista, l'ex comunista, l'ex gielle, l'ex azionista, l'ex fronte popolare, l'ex radicale, ora repubblicano Leo Valiani, torna al linguaggio dannunziano e ``fiumano'' della sua

prima giovinezza). Non è logico pensare che queste posizioni siano anche di Pertini? Non lo è, o almeno non lo è affatto così automaticamente.

Oggi, dopo aver visto Pertini in un lungo colloquio con Adelaide Aglietta e con Francesco Rutelli, avvenuto per chiarire le nostre polemiche con il Quirinale e i sospetti che fummo in quei giorni costretti ad esternare su alcuni collaboratori del Presidente, sono in grado di affermare che molte cose attribuite da "Repubblica" al Capo dello Stato erano ``fantasie'' di Scalfari e che la fermezza di Pertini non include leggi speciali, le misure anticostituzionali e le Corti speciali di giustizia sostenute da Valiani.

Ma intanto in quei giorni tutta la Roma politica riteneva di sapere che Scalfari e Valiani erano gli uomini più ascoltati dal Presidente e che avevano in quei giorni continuo accesso al Quirinale. La tesi che si insinuava era che dietro i discorsi di Valiani e di Scalfari ci fosse l'autorità del Presidente della Repubblica.

Ma chi sia Valiani, chi sia Di Bella lo si sa. Più difficile dire cosa sia, e soprattutto di chi sia realmente, l'impegno editoriale di Rizzoli. Esattamente come quello di Rovelli è un impero edificato sui debiti, cioè sull'esposizione finanziaria delle banche, dell'IMI, dell'ICIPU e del CREDIOP. Per mantenere in piedi questa traballante concentrazione editoriale di giornali quotidiani, la maggiore che si sia mai avuta in Italia, chi lo dirige e lo controlla non ha altra strada che quella di continuare ad aumentare la massa dei debiti, per farla poi diventare un problema politico di dimensioni tali che solo lo Stato possa risolverlo. Questa speranza è stata prima riposta nella legge sull'editoria e, all'interno della legge sull'editoria, nel famoso emendamento ammazza-debiti (i debiti dovevano essere ``ammazzati'', cioè annullati, da graziose elargizioni dello Stato). Per la vigile azione dei radicali in Parlamento questa speranza è però diventata ormai improbabile.

Ma chi controlla l'impero Rizzoli? Certo non Rizzoli. Non è anzi azzardato ritenere che Angelo Rizzoli sia soltanto il paravento di altri interessi e di altre mani che controllano se non le proprietà almeno i debiti, nel senso che si sono assunti l'onere di rispondere di questi debiti o di una parte di questi debiti. Più probabilmente non esiste una sola mano, ma più mani che concorrono a sostenere questo indebitamento. E in questo concorso, in questo difficile e torbido equilibrio, un ruolo importante gioca più di Angelo Rizzoli, il potente amministratore delegato Tassan Din. Le operazioni finanziarie, e i tentativi di operazioni finanziarie, per tenere in piedi questo impero dai piedi di argilla, non si contano più: dalla notizia di ingenti finanziamenti tedeschi che risale a molti anni fa, alla aspettativa delle tangenti dell'affare ENI-Petrophin-Arabia Saudita, che voci attendibili ritenevano destinate da Andreotti al finanziamento di Rizzoli e al pagamento di una parte dei suoi debiti. Per stare ai fatt

i, e non alle ipotesi, il fatto nuovo degli ultimi anni, è stato l'inserimento al vertice dell'impero di Umberto Ortolani, nel passato equivoco personaggio del mondo parapolitico, parafinanziario e paraeditoriale. In nome e in rappresentanza di chi? Si è parlato di Calvi e del Banco Ambrosiano, e con esso di settori del mondo finanziario e bancario lombardo e svizzero di cui nel passato fu ``magna pars'', con le sue banche, Michele Sindona. Ma questi canali bancari sono anch'essi vettori, tramiti di finanziamenti. Nel passato, con Sindona, erano canali di risorse finanziarie insieme vaticane, mafiose e massoniche. Quali interventi passano oggi attraverso questi canali?

E' a questo proposito che si fa il nome di Licio Gelli, il capo della Loggia P2, che con Salvini ha rappresentato una massoneria per anni maggioritaria invischiata in torbidi giochi golpisti e in oscure manovre finanziarie, tenendo le fila e i rapporti con le amicizie e le ``fratellanze'' di De Lorenzo e di Miceli, di finanzieri come Giudice e Lo Prete, di procuratori generali come Spagnuolo. Gelli ha a che fare con l'importazione e l'esportazione di carne, uno scandalo, che a differenza di quello del petrolio, non è ancora, e forse non casualmente, esploso in Italia. Carni argentine. Banche argentine. Interessi che operano in Argentina ma che sono di multinazionali nord-americane.

E' certo che, dall'ingresso di Ortolani, si accresce l'interesse del "Corriere" per l'Argentina e per i rapporti italo-argentini. E a un certo punto, apparentemente sopite le polemiche sulla Loggia P2, il "Corriere della Sera", addirittura provocatoriamente, pubblica nella sua famosa e autorevole terza pagina, una intervista a Gelli, in cui Gelli si esprime, esprime le sue ``opinioni'' sulla situazione politica italiana.

Questa dunque sembra sia una delle ``mani'' che si sono protese sull'impero di Rizzoli. Il trio Rizzoli-Tassan Din-Ortolani ha poi puntato a lungo sul PSI, e personalmente su Martelli: se ne attendeva un rapido varo della legge sull'editoria con l'emendamento ammazza-debiti, e la fortunata soluzione di altre complicate e più oscure operazioni imperniate sull'industria della carta. Palesemente né l'una né l'altra iniziativa sembra andata in porto. Ed è a questo punto che cominciano i rapporti, auspice Valiani che di questo mondo ha sempre fatto parte, con la grande finanza laica, quella delle banche pubbliche italiane. Rapporti non nuovi perché senza queste banche, Rizzoli come del resto Rovelli, Caltagirone e lo stesso Sindona, non avrebbe fatto molta strada. Ma ora i rapporti non riguardano più la richiesta di nuovi finanziamenti, la sottoscrizione di nuovi debiti, l'aumento della già enorme esposizione finanziaria delle banche. Ora è in gioco la stessa sistemazione proprietaria dell'impero editoriale, che

già da tempo ha superato i limiti della bancarotta fraudolenta.

E' la prima volta che si salda il fronte della finanza pubblica e laica, massonica ma che aspira a considerarsi con Carli ineccepibile e ``pulita'', con il fronte della finanza privata e sindoniana, massonica anch'essa ma ``sporca'' e pure mafiosa.

Il punto di riferimento politico di questa saldatura viene offerto, forse in un primo momento inconsapevolmente, dalla proposta del sen. Visentini, presidente del PRI, della costituzione di un governo di tecnici, di uomini anche di diversi partiti ma che abbiano capacità di indipendenza rispetto ai partiti, che rompano la prassi della stretta subordinazione dei ministeri al sistema partitocratico.

La proposta era stata fatta all'indomani del terremoto dell'Irpinia, ed era stata accolta con qualche scetticismo e qualche riserva dallo stesso PRI, non solo per le gelosie di Spadolini nei confronti di Visentini. La proposta aveva avuto qualche eco di stampa perché sembrava dar corpo in maniera più precisa e attuale alla generica e un po' fumosa richiesta berlingueriana di ``un governo degli onesti''. Su di essa si gettò subito però Scalfari, con accenti entusiastici, ossessionato com'è, il direttore di "Repubblica", da sempre, dal ``pericolo'' di una presidenza Craxi, e dalla necessità di trovare un'altra candidatura ``laica'' da contrapporre a quella di Craxi. Gli dette credito, forse per ingenuità, anche il senatore comunista Colajanni in un articolo su "Panorama" che fu da tutti interpretato come una candidatura personale a far parte del futuro governo Visentini.

Durante il ``caso D'Urso'' di questa proposta si parla molto meno, ma essa diventa un punto di riferimento politico, quasi una alternativa attuale e immediatamente praticabile al governo Forlani. Se Gelli aveva ipotizzato un governo Craxi, in cambio di una presidenza della Repubblica subito affidata a Fanfani, Di Bella - concluso felicemente per D'Urso ma non per lui il ``caso'' - in una intervista a "Repubblica" ipotizza invece Pecchioli agli Interni e Pajetta alla Giustizia: la giustificazione? "Sono uomini che hanno le palle". Di Bella ovviamente lascia Pertini al Quirinale, ma nel suo scenario, oltre a ministeri degli Esteri e della difesa affidati a democristiani di provata fede occidentale e americana, apre per la presidenza del Consiglio alle ``colombe'' Craxi e Fanfani purché sposino la politica della ``fermezza'' e dimostrino di avere ``le palle''.

Vivo D'Urso, oggi si può sorridere di queste ``fantasie'', e anche di questo linguaggio. Si sorride un po' meno se si pensa alle pressioni fatte da Scalfari e da Di Bella in quei giorni sul PRI, anche dopo la salvezza di D'Urso, perché facesse cadere ugualmente il governo Forlani. Il governo Forlani è debole, come è debole qualsiasi governo di questo regime. Ma è stato meno debole del previsto durante il caso D'Urso perché non ha ceduto del tutto al partito della ``fermezza''. Proviamo a immaginare cosa avrebbe scatenato in Italia, a cosa avrebbe aperto la strada, invece, un governo come quello ipotizzato da Scalfari e da Di Bella (ma Scalfari ha almeno il buon senso, non il buon gusto, queste cose di farle dire a Di Bella).

Per quanto riguarda Scalfari, questa fretta avventuristica mettiamola nel consto del suo bovarysmo intellettuale. Ma per quanto riguarda Rizzoli, Valiani e Di Bella, la fretta si spiega con il poco tempo che hanno a disposizione. La terra scotta sotto i loro piedi. La prospettiva della bancarotta non è così lontana per loro e per i loro padroni.

Hanno poco tempo. Il terreno scotta sotto i loro piedi e questo spiega anche la nuova campagna del "Corriere della Sera", fatta in stretta armonia con il PRI. Pochi giorni prima di questa nuova campagna terroristica del Corrierone, Marco Pannella, rispondendo alla domanda di un giornalista durante la conferenza stampa della RAI-TV riservata al Partito Radicale, aveva precisato che quando parliamo di ``editore sindoniano'' a proposito di Rizzoli, non ne parliamo come paragone generico, nel senso cioè soltanto di bancarottiere, ma anche nel senso letterale del termine. Aveva aggiunto in quella conferenza stampa che due dei massimi esponenti di vertice dell'impero Rizzoli sono implicati nell'"affare" Sindona, e che i gruppi e il Partito Radicale si riservano di documentarlo nella sede e nel momento che riterranno opportuni. Forse anche questo spiega la fretta forsennata e un po' disperata di Rizzoli. Forse anche questo spiega la nuova campagna, come arma di ritorsione e di ricatto, del "Corriere".

Intanto qualche effetto queste campagne lo hanno avuto. Con la corsa di Martelli in USA all'incoronazione di Reagan, con le firme negate alla incriminazione di Gioia, con il fermo di polizia, con l'avallo dato alla sentenza della Corte Costituzionale, con le iniziative anti-ostruzionistiche prese contro i radicali non soltanto dal capogruppo socialista della Camera, con le spese riarmistiche di Lagorio, il PSI - dopo il caso D'Urso - sembra sceso in campo a fare concorrenza al partito della ``fermezza'', ma questa volta sul suo terreno.

Momentaneamente il partito della forca, della morte e della fermezza è stato sconfitto con la vita di D'Urso. Ma nei prossimi mesi si prepara forse il perodo più difficile che noi e la Repubblica si sia mai dovuto affrontare. L'Italia è tornata a dividersi fra il partito della ``fermezza'', cioè dell'impotenza, e il partito della ``vergogna''.

 
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