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Mellini Mauro - 13 marzo 1983
Lettera a Tony Negri
di Mauro Mellini

SOMMARIO: Il deputato radicale esprime, in una lettera a Tony Negri, le sue profonde riserve sulla proposta di legge che prevede benefici per i "dissociati" dalla lotta armata, presentata da Marco Boato e da altri deputati (testo n. 3823).

Caro Negri

non ho avuto mai occasione di incontrarti né ti ho mai scritto. Questo, naturalmente non significa che non abbia seguito le tue vicende, la vicenda del "7 aprile". le tue e le vostre prese di posizione dal carcere, non abbia recepito i vostri appelli. Del resto, avendo conosciuto Paola e discusso con lei di molte cose che ti riguardano, credo di poter guardare alla tua vicenda con occhio che non è quello di ogni spettatore.

Ho ritenuto di doverti scrivere perché in questi giorni sono stato sollecitato ad aderire ad una proposta di legge, presentata da Marco Boato, Stefano Rodotà, Covatta ed altri contenente "nuove misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale attraverso la dissociazione dal terrorismo. Si tratta del progetto di cui parla anche l'ultimo numero dell'Espresso, ponendo (inesattamente) tra i firmatari anche Emma Bonino ed Adelaide Aglietta. La presentazione di questa proposta di legge, che si trova in questo momento nella fase della "correzione delle bozze" che in realtà consente modifiche ed anche l'aggiunta di altri firmatari, mi sembra sia un fatto grave non soltanto per la sua provenienza, ma anche per il suo contenuto obiettivo che aggrava sotto vari profili le posizioni già assunte dalla maggioranza (e dalle maggioranze) espresse nella attuale normativa.

Quando venne in discussione la "legge sui pentiti" io non mi mostrai affatto entusiasta delle norme sui "dissociati" né della distinzione tra "dissociati" e "pentiti", non perché poco convinto della distinzione (a parte l'uso improprio dei termini) ma perché assai poco convinto della ammissibilità di un trattamento particolare, di una attenuante, fondati su atteggiamenti e manifestazioni di carattere ideologico, mentre non possiamo ammettere reati ideologici.

Si sa che, poi, la norma sui "dissociati" ha finito per assumere caratteri non diversi da quella sui "pentiti" richiedendosi dai "dissociati" atti di collaborazione oltre tutto difficilmente delimitabili in forme e misure sostanzialmente diverse da quelle necessarie per "pentirsi".

Questo mio convincimento, condiviso dai compagni del Gruppo radicale ci portò a non avere dubbi sul voto contrario alla legge, mentre Boato, pur deluso circa il testo cui si pervenne nell'articolo sui "dissociati", ritenne di doversi astenere dal voto finale.

Il giudizio negativo circa la norma sui "dissociati" è, per quel che mi riguarda, tanto più netto, in quanto, se abitualmente si parla di "dissociazione dalla lotta armata" o di "dissociazione dal terrorismo", non bisogna dimenticare che la legge, quella sul terrorismo e quella sui pentiti, parla di "finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico" e così il "dissociato" dovrebbe dimostrare di "ripudiare" non solo il terrorismo, ma anche l'"eversione".

Quando si discusse la legge Cossiga io intervenni a lungo ( e non solo per esigenze ostruzionistiche) sull'assurdità, anche filologica, di questo accoppiamento, come pure il riferimento generico a "reati" (quindi anche contravvenzioni!!!). Credo che oggi, se ne fosse mancata in precedenza l'occasione, possiamo renderci conto della gravità della disinvoltura con cui si accettò quella espressione.

Dunque si vuole richiedere la 3dissociazione" dall'"eversione". E' inutile chiedersi che cosa ancora fare per dimostrare di essere "dissociato".

In pratica, chiunque non accetti posizioni di assoluto legalitarismo, non potrebbe considerarsi tale.

La questione ha potuto apparire di secondaria importanza visto che l'accento è stato spostato, nella norma approvata, dalla dissociazione alla collaborazione ed alla sua entità come vero elemento rilevante.

Debbo dire che, da questo punto di vista politico, nella valutazione del fenomeno terroristico e della sua storia, nell'interrogarmi sulla sorte di quanti sono passati attraverso il terrorismo, non sottovaluto affatto il fenomeno della dissociazione e non sottovaluto affatto la necessità di ricercare soluzioni che abbiano presente la storia di quanti, appunto, dal terrorismo, si sono dissociati. Ma se l'evoluzione delle ideologie ci interessa ed è un dato reale della storia, anche da quella del terrorismo, così come il sorgere e l'evolversi delle eresie è dato rilevante della storia delle religioni e non solo di quella delle religioni, non per questo possiamo introdurre evoluzioni ideologiche nel diritto penale, così come dal diritto penale è stata espulsa l'eresia.

La questione, dicevo ha avuto rilevanza modesta dato l'appiattimento della questione della "dissociazione" rispetto a quella del "pentimento" nella legge vigente.

Ma nel nuovo progetto la questione della "dissociazione" diventa più autenticamente rilevante ed autonoma, (anche se non scompare, come emerge dal testo e dalla relazione una certa rilevanza della collaborazione) e quindi in modo ancor più evidente si richiedono e si impongono l'assunzione di atteggiamenti ideologici, abiure e sconfessioni.

Non è una mia valutazione, frutto di un'ipersensibilità da definire, magari, ottocentesca.

Si legge infatti nella relazione:

"L'accertamento della dissociazione deve fare necessariamente riferimento ad altri comportamenti. La proposta ... prevede tre altri comportamenti che possono essere valutati come presa di distanza dalla ideologia, dalla cultura (!!!), dalla pratica della lotta armata"

e più oltre

"I comportamenti previsti come rilevanti ai fini dei benefici hanno una loro obiettività e richiedono comunque la manifestazione di un atteggiamento di continuità della critica o nell'avversione al terrorismo..."

e più oltre:

"Non è una formale abiura - che può essere meramente strumentale - ma l'effettivo ripudio della lotta armata che fonda la prognosi favorevole al recupero dell'imputato alla vita della società civile e democratica".

Se dunque la "dissociazione" è espressione di un atteggiamento ideologico, se il "beneficio" deve essere condizionato all'espressione di una critica, di una "presa di distanza" dal terrorismo (ma, ad essere più precisi ed aderenti alla normativa vigente anche dall'"eversione"). se si introduce l'esimente ideologica, da un lato il reato, nella concretezza della fattispecie effettivamente punibile, diventa un reato ideologico (o, più esattamente si legittima e si conferma la struttura "ideologica" di certi reati, tali, quanto meno nell'interpretazione corrente). dall'altra parte il fatto del capovolgimento della rilevanza del dato ideologico rispetto alla punibilità (non punibilità per espressione ideologica) aggiunge un ulteriore, inaccettabile e pericolosissimo elemento. L'imputato è posto di fronte alla necessità di confessarsi colpevole per poter evitare di essere punito. E' costretto a "prendere le distanze" da un atteggiamento che gli si attribuisce, a dichiararsi diverso da quello che già ieri non

è mai stato.

Così la logica della dissociazione (come quella del "pentitismo") si salda con quella della tortura, attraverso la "dolce violenza" della prospettiva dell'impunità così difficilmente raggiungibile per il solo fatto dell'innocenza.

E' vero che nella relazione si legge:

"nei congrui casi ... la protesta di innocenza, in quanto implichi una presa di distanza dalla attività criminosa, potrebbe, in concorso con altre circostanze di significato dissociativo, essere addirittura valutata positivamente ai fini della dissociazione".

Ma a parte la dubbia credibilità di tale tesi a fronte della necessità, pur sempre, di una forma di "collaborazione, non essendo altrimenti possibile, dal carcere, incidere sull'attività criminosa dell'associazione se non fornendo agli inquirenti indicazioni utili per prevenirne l'attività" [relazione], è certo che questa possibilità non è data a chi, ad esempio respinge gli addebiti negando che le attività da lui svolte abbiano carattere eversivo, che l'associazione di cui abbia fatto parte fosse una organizzazione "eversiva".

Mi dicono, e si scrive, che tu in qualche modo sostenga una normativa per i "dissociati" e ciò viene inteso come un sostegno a questa legge.

E' evidente che la pretesa di giudicare la situazione di quanti oggettivamente non si riconoscono - non importa se da oggi, da ieri o da sempre - nella lotta armata si può concepire anch'essa come una forma di violenza, si è preteso allora di giudicare gli atteggiamenti di chi è dentro con un metro di mera "obiettività".

Ma se i detenuti, tanto più se dissociati o mai associati, sono in buona sostanza dei buoni ostaggi per una operazione del genere (tanto più che la "dissociazione" è prospettata come unico mezzo per sfuggire non ad una condanna, ma alla pena anticipata della detenzione preventiva) non per questo tutto si rivolta nel piano dell'etica della resa alla violenza e alla tortura o, se vogliamo, della libertà dell'adesione.

Quello che più mi preoccupa in questo caso, nel vostro caso, è il rischio dell'ostaggio che non dipende solo da scelte, ma è in larga misura imponderabile. In questo caso il rischio di "dissociarsi", per essere poi dichiarati non "abbastanza dissociati", ma colpevoli tanto da essersi dissociati.

Spero che voi comprenderete quanto travaglio c'è dietro questa mia valutazione.

Ti saluto affettuosamente,

Mauro Mellini

 
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