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Bandinelli Angiolo - 1 aprile 1983
(1) ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE? Democrazia e persona
di Angiolo Bandinelli

Analisi di un clamoroso caso giudiziario

Centro di iniziativa Giuridica Piero Calamandrei

Introduzione di Angiolo Bandinelli

Arringa di Luca Boneschi

Pareri pro-veritate di Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco, Pietro Nuvolone

SOMMARIO: Il volume edito dal "Centro Calamandrei" raccoglie gli atti di un processo per diffamazione relativo al "caso D'Urso". Nel corso del rapimento da parte delle Brigate Rosse del magistrato Giovanni D'Urso, due quotidiani accusarono il leader radicale Marco Pannella di aver portato in televisione la figlia del rapito Lorena e di averla costretta a leggere un comunicato delle BR in cui si definiva il giudice "boia".

Le querele che ne seguirono e l'intero processo, al termine del quale i due giornali furono assolti, illuminano come viene considerato oggi il reato di diffamazione ed offrono lo spunto per una riflessione aggiornata sul rapporto fra cittadini e mezzi di comunicazione di massa.

Nel volume, oltre alle querele, agli interrogatori di Marco Pannella e Lorena D'Urso, all'arringa dell'avv. Luca Boneschi e alla sentenza, sono riportati quattro pareri "pro-veritate" che il Centro Calamandrei ha chiesto ad altrettanti insigni studiosi della materia: Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco e Pietro Nuvolone.

La loro aspra critica della sentenza e dei suoi principi ispiratori fanno sperare che sia ancora possibile, in una società dominata dai mass-media, tutelare l'onore e la reputazione dei singoli e degli enti in cui si esplica la loro personalità.

("ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?" - Analisi di un clamoroso caso giudiziario - Centro di iniziativa Giuridica Piero Calamandrei - Edizioni di Informazione e Diritto, Roma)

Indice

Angiolo Bandinelli: Democrazia e persona (testo n. 3941)

Premessa (testo n.3942)

IL PROCESSO

L'articolo di Paese Sera del 13 gennaio 1981 (testo n. 3943)

L'articolo de L'Unità del 13 gennaio 1981 (testo n. 3944)

Le querele (testo n. 3945)

L'interrogatorio di Marco Pannella (testo n. 3946)

La testimonianza di Lorena D'Urso (testo n. 3947)

L'arringa di Luca Boneschi (testo n. 3948)

La sentenza (testo n. 3949)

I PARERI PRO VERITATE

Giorgio Gregori (testo n. 3950)

Ferrando Mantovani (testo n. 3951)

Enzo Musco (testo n. 3952)

Pietro Nuvolone (testo n. 3953)

APPENDICE (testo n. 3954)

Articolo da l'Unità dell'11 gennaio 1981

Articolo da l'Unità del 14 gennaio 1981

Articolo da l'Unità del 16 gennaio 1981

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Democrazia e persona

di Angiolo Bandinelli

Il tema della tutela dell'onore dovrebbe essere centrale, in ogni

riflessione sullo sviluppo della democrazia in una società di comunicazioni di massa. La diffusione di una informazione gestita da grandi e complesse tecnostrutture mai prima viste pone problemi diversi, nuovi e sconosciuti rispetto a quanto collaudato da ogni altro precedente modello culturale e sociale: lo sviluppo dei mass-media non è solo accrescimento quantitativo, un »più che si aggiunge a perfezionare o completare, lungo un percorso lineare ininterrotto, il sedimento storico; esso segna una frattura col passato che comporta conseguenze culturali-sociali e istituzionali forse ancora non ben chiare, e certo non acquisite e fatte proprie dalla coscienza comune.

Sicuramente un ritardo di questo genere grava particolarmente su

un paese - il nostro - il quale non ha ancora smaltito il retaggio di una cultura »oggettivistico-trascendentalista che presupponeva l'esistere, da qualche parte, di un »deposito di verità necessario a garantire riscontro e rassicurazione. La procedura »verificazione/falsificazione non è, per una cultura di questo tipo, una "procedura", appunto, che nelle sue regole, e solo nelle sue regole, contiene la garanzia non solo della correttezza formale ma anche del risultato di verità; essa è piuttosto passiva operazione di controllo, portatrice di verità solo in quanto possa fare i suoi riscontri fiscali e notarili su quel »deposito esterno nel quale la verità è riposta e gelosamente custodita. La verità preesiste, per questa cultura, all'operazione di accertamento, che anzi in qualche modo la relativizza. In questo ambito, si capisce come dispute senza fine possano aver avuto luogo per stabilire se l'informazione possa essere davvero »oggettiva , o se invece essa sia destinata ad una fatalmente incontrollabi

le »soggettività .

Il passaggio da una cultura, da una società dell'assoluto e dell'»oggettivo ad una del relativo e del »convenzionale non è facile. Si tende a sfuggire al »relativo come da malattia appestante e mortale: l'uomo è inaffidabile, la regola è o truffaldina o labile compromesso; comunque, sempre, punto di equilibrio instabile e mobile nel quale reciprocamente si annullano le forze che formano il "vero" tessuto del conflitto sociale, la sua realtà, rispetto alla quale tutto il resto è sovrastruttura che non conta. Non è un caso che l'interesse maggiore della politologia corrente è rivolto alla analisi minuziosa delle »strutture del potere e al loro reciproco rapporto strutturale/contrattualistico, un interesse nel quale traspare, nemmeno velata, l'ammirazione per la forza e per chi comunque vince, mentre è quasi inesistente la capacità (e la volontà) di distacco etico e di giudizio critico. La cultura politica si esaurisce quasi completamente in questo ambito, in un percorso tutto interno alla »autonomia del p

olitico. »Il popolo, la democrazia - dice il vecchio e saggio mafioso del romanzo di Sciascia - sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all'altra e tutte le parole nel culo dell'umanità... Il mafioso siciliano diffida della parola, che della sua mobilità può fare solo commercio, per essere venduta e comprata. La parola, il parlare, non è »dialogo ; è tradimento, che deve essere punito col sasso in bocca. Davvero, anche qui, la Sicilia è metafora del paese intero; la legge mafiosa è paradigma della condizione di una società che del dialogo fa uso o strumentale o corrivo, privo di dignità e senza rispetto di regole e procedure: perché il dialogo è, appunto, il »relativo .

Altre sono, invece, le condizioni (o i presupposti) su cui solo può fondarsi una moderna società democratica, società del »relativo e quindi del dialogo.

Il dialogo è tale quando avviene tra pari: tra persone rese pari, cioè, dalla certezza delle procedure, e solo da questo. Lo stesso esistere delle persone è condizionato da questa certezza »formale .

Nella società contemporanea, la società dell'informazione di massa, la persona viene infatti a trovarsi nel punto focale di intersezione di una molteplicità di messaggi e di valutazioni. Abbiamo detto »viene a trovarsi , ma anche questa espressione è forse residuo di una cultura dell'oggettività: avremmo dovuto dire, con maggiore proprietà, »viene a costituirsi . La persona è, oggi come non mai, "ciò che di essa si dice" (non dimentichiamo che »persona in latino significa »maschera , maschera teatrale). L'individuo è immerso nell'universo della comunicazione, nel quale si frantuma la certezza aprioristica del suo esistere indipendente e autosufficiente rispetto al contesto sociale e alla sua dinamicità. Secondo un filosofo (1) che oggi va per la maggiore, »l'essere, che può venir compreso, è il linguaggio . E ovviamente, quanto più l'individuo appartiene alla sfera pubblica, tanto più si accentua la sua dipendenza. L'informazione è affamata morbosamente di »persone , ne »crea e ne distrugge in quantità cre

scenti, con una enorme potenza costitutiva, ma anche con una labilità impressionante e preoccupante. L'esserci è l'essere sociale, il »residuo tende progressivamente verso lo zero, come viene rivelato anche dallo spostamento semantico subito dal termine »personalità ; il tema fisso e morboso nell'emulazione sociale è infatti quello dell'»essere , non dell'»avere una personalità. E non solo in politica, un agire che si assimila sempre più allo spettacolo (il politico è per definizione »uomo pubblico ), ma nell'intero costituirsi dei valori e delle strutture normative della società, che si svolge anche esso al livello del rappresentare/essere rappresentati.

La persona, in definitiva, viene a collocarsi come punto »medio di passaggio del percorso »fama-diffamazione , poli di un discorso continuo, rifratto da quella infinità di specchi nei quali si costituisce l'informazione dei mass-media. Tutto questo può piacere o meno, e sicuramente solleva questioni filosofiche di alto livello. Sul piano metodologico, tuttavia, la questione è abbastanza semplice. Se questa è la struttura del rapporto tra persona e informazione, la responsabilità dell'operatore dell'informazione diventa estremamente importante e delicata, ed è compito primario e urgente della società porre in essere adeguate forme di controllo del suo operare. Non si può, nel confronto sociale e politico, lasciare priva di regole note di funzionamento quella che è l'arma (e insieme la posta) centrale dello scontro, a ogni livello. Occorre fare in modo che a ciascuno dei partecipanti al »gioco venga garantito il massimo di rapporto con la propria identità; che è null'altro che il crescere su se stessa e svil

upparsi dell'esperienza storica nella quale e con la quale l'individuo si è formato e si è (o è stato) definito e »riconosciuto (»riconoscere è »conoscere di nuovo ). Non si può lasciare all'arbitrio delle forze a confronto il limite discriminante tra »fama e »diffamazione .

Ma sarebbe persino sbagliato insistere prioritariamente sul »diritto del singolo, della persona, all'»identità , alla informazione e alla correttezza del circuito »fama/diffamazione . Il vero destinatario della questione e della sua corretta soluzione è la società, lo Stato. Una informazione gestita al di fuori di regole certe, capace per ciò stesso di determinare in modi distorti o incerti i processi di identificazione e di costituzione dell'identità e quindi gli stessi rapporti interpersonali, diventa un elemento pericoloso, portatore di eversione e di crisi, strumento di sopraffazione alla mercé della prima banda di corsa che se ne impossessi.

Se un tema vi è sul quale è riscontrabile la modernità - e la continuità - della battaglia politica radicale nella sua componente liberale è proprio questo. Quella che a molti è apparsa ossessiva, maniacale preoccupazione motivata da narcisismi individuali e collettivi, è stata in realtà faticosa marcia attraverso il tema dell'informazione, individuato come la grande ed essenziale novità strutturale delle società contemporanee tenendo come centrale la questione del diritto all'identità e della tutela dell'onore. Mentre gli altri partiti si attardavano a definire i parametri della cosiddetta »forma-partito , per inchiodarla alla sua staticità sociologica di stampo ottocentesco, i radicali avvertivano che la vera sfida alla politica sarebbe venuta dal diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa e dall'avvento inarrestabile della società dell'informazione. Le parti sociali e politiche sarebbero state ridefinite e ridimensionate a partire dall'informazione. L'immagine-linguaggio avrebbe preso il sopravvento

sull'immagine-cosa. E attorno a questi problemi sarebbe stato giocato anche il tema dei diritti di libertà, intaccati ed erosi da nuovi autoritarismi, resi possibili dalla »relativizzazione dei rapporti interpersonali e sociali prodotta dalla nuova informazione. I radicali hanno più volte messo in guardia che il nuovo fascismo non avrebbe avuto bisogno del manganello per imporre il »consenso ; ma si sarebbe annidato nei meandri dei mass-media e della loro gestione della parola e dell'immagine.

Sedi del confronto aperto dai radicali sono state le più diverse: da quella, primaria, della paziente ricerca e comprensione dei termini esatti del problema, alla denuncia a livello istituzionale, fino a quella che è apparsa come la più tipica e originale: la cosiddetta »via giudiziaria alla democrazia. La lunga serie di processi intentati e subiti in tema di diffamazione e di diritto all'identità costituisce un susseguirsi di tappe, di momenti di verifica.

Perché la via giudiziaria è particolarmente importante? Perché in una società il giudice è il primo (ed ultimo) garante dell'accertamento della verità, ed anzi della sua fondazione, proprio grazie al meccanismo che egli si trova a fare operare, il "contraddittorio". Se la »verità è procedura, nel giudizio viene a stabilirsi, a fondarsi la regola prima del gioco. In una società del »relativo , il rischio più grande è quello di abbandonare la definizione del rapporto »verificazione/falsificazione al flusso degli eventi, allo scontro delle forze in campo e agli equilibri di volta in volta da queste raggiunti.

E' il rischio in cui cade e si inviluppa, troppo spesso, una teoria giuridica che si fondi su schemi di tipo sociologico. Senza richiami teorici, che in questa sede sarebbero almeno sproporzionati, è certo che non solo tale rischio è stato abbondantemente corso in Italia dalla cultura giuridica, ma che di teorie di questo tipo ci si è fatti anche alibi, quando non se ne è abusato come di un paravento per scorrerie di potere, da parte di bande di ogni genere, di destra come di sinistra. Il »relativismo è divenuto mero sofisma dietro il quale nascondersi e sghignazzare alla faccia del povero popolo, la povera democrazia di cui parla Sciascia.

Anche la verità del diritto è un »procedimento che si svolge nel convenzionale, nell'artificio, nell'ambito di quella »scommessa che è il processo. Ma la funzione del giudice è sempre quella di rendere giustizia e di accertare verità. Nel riconoscimento del massimo di »artificiosità e convenzionalità del contratto e del linguaggio che lo gestisce, il processo giudiziario deve raggiungere »oggettività e »valore . Le leggi mutano, certo, e rispondono a rapporti di forza, anche; ma mentre vigono, esse si pongono come »storicamente assolute (2); anche (e forse, a badarci bene, proprio allora) nel momento in cui vengono sottoposte a critica e a revisione. Vale a dire, dunque, sempre. All'insostituibile compito e dovere di affermare la »verità e la »giustizia il giudice non può sottrarsi. E, in una società del relativo, dove è riposta la »verità della giustizia? Evidentemente, ancora una volta, nella procedura, nel rispetto delle regole del gioco.

Perché queste precisazioni, forse troppo lunghe? Ma perché la documentazione che il Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei offre qui appresso ai lettori testimonia invece di una occasione in cui un giudice, investito della responsabilità della tutela dell'onore di un uomo pubblico e di un partito, viene meno al mandato, e si fa alibi della »relativizzazione della giustizia e del linguaggio, per rendere ingiustizia e per fare strame delle certezze del dialogo stesso e del linguaggio. Si tratta della documentazione relativa ad un processo per diffamazione aggravata a mezzo stampa dal quale Marco Pannella e il partito radicale escono, caso abbastanza unico, a tutti.

I fatti che hanno dato origine al processo sono fin troppo noti, basterà qui ricordarli rapidamente. Il 12 dicembre del 1980, a Roma, veniva rapito dalle B.R. il magistrato Giovanni D'Urso, funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia. Come già per il caso Moro, si avvertì subito che attorno alla vicenda si stava sviluppando una partita ben più grossa di quanto non fosse giustificato dalla figura del rapito. Un braccio di ferro dalla posta altissima si aprì allora, tra le B.R., il sedicente partito della fermezza - nel quale confluivano oltre a forze politiche (il PCI in primo luogo) anche interessi e logiche di nuova formazione (si pensi all'ipotesi Visentini di governo »diverso , sottratto alla logica dei partiti, affiorata in quei giorni) e soprattutto quei gruppi occulti di potere e di sovversione che si coagulavano attorno alla Loggia P2 e a Licio Gelli - e, dall'altra parte, la sparuta pattuglia di quanti chiedevano che lo Stato non si facesse fomentatore di strage e fortemente temevano che l'assass

inio di D'Urso potesse fornire l'esca per un incontrollabile processo involutivo delle istituzioni politiche: alla testa di questo drappello c'era il partito radicale e, in prima persona, Marco Pannella (3). Il 12 gennaio 1981, allo scadere ormai del tempo concesso dalle B.R. per l'accettazione delle loro richieste, pregiudiziali ad una eventuale riconsiderazione della sentenza di morte già pronunciata nei confronti del magistrato, il partito radicale offriva alla famiglia D'Urso una »Tribuna flash in TV che era in quel momento a sua disposizione, affinché essa lo utilizzasse come meglio credeva al fine di esperire un estremo tentativo per la salvezza del magistrato. Chi non ricorda l'apparizione, quella sera, di Lorena D'Urso, nei quattro minuti tra i più intensi e drammatici della storia dell'Ente televisivo?

Il giorno dopo, sulla stampa, si scatenava un selvaggio attacco contro i radicali e la loro iniziativa. In questo linciaggio si distinguevano l'»Unità e il »Paese Sera , con articoli e titoli di prima pagina di una violenza inaudita. Immediata la reazione radicale e la denuncia dei due giornali.

Il processo è stato celebrato a Roma il 5 febbraio di quest'anno, presso la terza Sezione del Tribunale di Roma (presidente Giancarlo Millo, giudici Alberto dell'Orco e Ernesto Mineo), ed ha avuto come conclusione l'assoluzione degli imputati »per aver essi agito nell'esercizio dei diritti di cronaca e di critica . Nella documentazione qui raccolta a cura del Centro Calamandrei si troveranno peraltro, oltre agli atti processuali, anche i quattro »pareri pro veritate richiesti a giuristi di chiara fama, i proff. Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco, Pietro Nuvolone. Ciò che è importante, in questi »pareri , non è tanto la inequivocabile e univoca censura nei confronti della sentenza del tribunale romano, quanto il percorso dei ragionamenti assai simili nella flessibilità delle quattro diverse esposizioni e tutti convergenti nell'identificazione di un rapporto di responsabilità tra l'atteggiamento tenuto dalla stampa e il comportamento del tribunale, l'uno come l'altro inadeguato e viziato di equiv

oci, se non di peggio.

Nel presentare questa documentazione, il Centro Calamandrei ha perseguito, con evidenza, due obiettivi; da una parte documentare un episodio in sé scandaloso, dall'altra offrire materiale ad una ricerca più ampia, che investa l'intera questione, nella sua generalità, di nuova luce e apra ulteriori prospettive. Il problema dell'informazione è, come dicevamo all'inizio, in larga misura inesplorato; ma è urgente che su di esso si appunti l'attenzione, l'interesse e l'iniziativa di una classe politica democratica. E probabilmente attorno a questi problemi che dovrà coagularsi il nucleo centrale di una forza rinnovatrice moderna e in sintonia con il nostro tempo. Solo se saprà indagare questi temi con occhio lucido e profondo la politica potrà tornare a confrontarsi con i nodi centrali della crisi epocale che investe le nostre società; una crisi che non tocca più solo l'»avere ma, appunto, l'»essere , i parametri di fondo, costitutivi della persona nel suo rapporto con le istituzioni. Se non lo saprà fare rester

à, quale che possa essere il suo nome, il suo collocarsi a »destra o a »sinistra , mera tecnica di potere, mera gestione dell'esistente, sempre più fatalmente destinata al distacco dai nuovi interessi della gente.

Ritorna così, come si vede, ancora una volta, la politica dei »diritti civili , quale politica non dell'immediato né del recupero: ma politica che sola definisce, nel confronto con lo Stato delle masse, un possibile percorso verso modelli e progetti libertari e quindi liberali.

NOTE

(1) - Hans George Gadamer - »La ragione nell'età della scienza , Il melangolo ed., 1982

(2) - Cfr. »Preambolo allo Statuto del Partito Radicale , Roma 9 marzo 1980

(3) - Per una cronaca puntuale di questa vicenda, cfr. »La pelle del D'Urso , marzo 1981

 
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