SOMMARIO: Il volume edito dal "Centro Calamandrei" raccoglie gli atti di un processo per diffamazione relativo al "caso D'Urso". Nel corso del rapimento da parte delle Brigate Rosse del magistrato Giovanni D'Urso, due quotidiani accusarono il leader radicale Marco Pannella di aver portato in televisione la figlia del rapito Lorena e di averla costretta a leggere un comunicato delle BR in cui si definiva il giudice "boia".
Le querele che ne seguirono e l'intero processo, al termine del quale i due giornali furono assolti, illuminano come viene considerato oggi il reato di diffamazione ed offrono lo spunto per una riflessione aggiornata sul rapporto fra cittadini e mezzi di comunicazione di massa.
Nel volume, oltre alle querele, agli interrogatori di Marco Pannella e Lorena D'Urso, all'arringa dell'avv. Luca Boneschi e alla sentenza, sono riportati quattro pareri "pro-veritate" che il Centro Calamandrei ha chiesto ad altrettanti insigni studiosi della materia: Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco e Pietro Nuvolone.
La loro aspra critica della sentenza e dei suoi principi ispiratori fanno sperare che sia ancora possibile, in una società dominata dai mass-media, tutelare l'onore e la reputazione dei singoli e degli enti in cui si esplica la loro personalità.
("ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?" - Analisi di un clamoroso caso giudiziario - Centro di iniziativa Giuridica Piero Calamandrei - Edizioni di Informazione e Diritto, Roma)
Indice
Angiolo Bandinelli: Democrazia e persona (testo n. 3941)
Premessa (testo n.3942)
IL PROCESSO
L'articolo di Paese Sera del 13 gennaio 1981 (testo n. 3943)
L'articolo de L'Unità del 13 gennaio 1981 (testo n. 3944)
Le querele (testo n. 3945)
L'interrogatorio di Marco Pannella (testo n. 3946)
La testimonianza di Lorena D'Urso (testo n. 3947)
L'arringa di Luca Boneschi (testo n. 3948)
La sentenza (testo n. 3949)
I PARERI PRO VERITATE
Giorgio Gregori (testo n. 3950)
Ferrando Mantovani (testo n. 3951)
Enzo Musco (testo n. 3952)
Pietro Nuvolone (testo n. 3953)
APPENDICE (testo n. 3954)
Articolo da l'Unità dell'11 gennaio 1981
Articolo da l'Unità del 14 gennaio 1981
Articolo da l'Unità del 16 gennaio 1981
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I pareri Pro-Veritate
Giorgio Gregori
Rispondo ai quesiti propostimi con le osservazioni che seguono:
1. »"Se il Tribunale abbia correttamente motivato nel ritenere che la descrizione dei fatti così come risultante dai titoli e dal testo dei due articoli non potesse risultare credibile nella sua letteralità, nemmeno al »al più sprovveduto dei lettori e se, per ciò stesso, non poteva riconoscersi in esso alcuna efficacia diffamatoria" .
La mia opinione è negativa. Lo scolpire un concetto, soprattutto nell'agone politico, può portare ad un uso improprio - e tuttavia incisivo - della lingua italiana. La deformazione attuata, per essere lecita, però, non può stravolgere il senso comune della parola e del discorso che esse compongono. Se ciò avviene, l'interpretazione di una frase viene ad essere forzata in maniera innaturale.
Mi spiego. Il linguaggio è un mezzo per esprimere una realtà (Wittgenstein, "Philosophical Investigations", trad. ingl., Oxford, 1953, 151, m. 569 ss.). Esso non sempre è univoco, anzi sovente presenta margini di ambiguità e di indeterminatezza. Ciò accade perché talvolta una parola ha più sensi logici e perché tra più parole si possono creare connessioni logiche diverse. I significati concreti di una parola o di un intreccio di parole - di un discorso, cioè - possono essere più d'uno, a secondo delle possibilità logiche dei vocaboli usati e delle loro connessioni. Da un punto di vista generale, l'uomo dà alle parole e al discorso quel significato che, tra i possibili sensi logici, è quello »comune . Da un punto di vista specifico - trattandosi di affermazioni contenute in giornali di informazione - il lettore si rafforza in questa convinzione. Ogni altro significato che non sia d'esperienza »comune sfugge all'uomo medio, e più ancora al lettore medio, non solo al »più sprovveduto .
Ciò è coerente, del resto, con gli intenti del legislatore democratico che, nel regolamentare la libertà di stampa, ebbe presente la necessità che l'informazione fosse, anzitutto, chiara e non ingannevole. Notava Mortati ("La libertà di stampa in regime democratico", in Cronache sociali, 1947) che »la democrazia di massa esige che la informazione sulle idee, sui fatti, sugli uomini, si diffonda in ogni più remota località, penetri negli strati più umili e lontani, invada ogni cerchia della vita associata, dalla più vasta alle minori, alla fabbrica, alla famiglia. Ma questa estensione moltiplica i pericoli dell'infiltrazione dell'errore là dove meno penetrante è il senso critico, meno facile il controllo dell'esattezza dell'informazione o della bontà del giudizio, ed invece più agevole l'irrompere della passione, l'impulso alla reazione incontrollata . Più ancora che nell'uomo medio, quindi, nel lettore medio latita il senso critico, per la tendenza naturale a dare statuto di verità al senso immediato e comun
e delle parole che gli vengono rivolte.
La motivazione del Tribunale di Roma è, quindi, apodittica. Ritenere che »costringere o »indurre possono essere pianamente intesi come »rendere possibile o »promuovere significa far violenza al senso »comune di queste espressioni linguistiche. Ma v'è di più: che l'interpretazione data dal Tribunale non rientra neppure nei sensi logici »possibili dei termini usati dai due quotidiani. »Costringere e »indurre delineano, comunque, un'azione di violenza o di inganno, che è il contrario esatto dell'azione di libertà ipotizzata dal »promuovere o »rendere possibile . Ora, anche in circostanze particolari - come là dove si voglia scolpire un concetto o nella bagarre linguistica che contrassegna il discorso politico - quello del senso logico possibile è un limite di struttura insuperabile sul piano ermeneutico.
L'interpretazione in oggetto, in quanto deforma il fatto così come è pacificamente provato, integra un »travisamento del fatto per vizio di logicità del ragionamento addotto, censurabile - come è noto in Cassazione (già Cass. I, 7 febbraio 1952, in Giur. compl. Cass. pen. 1952, I, n. 1122 e Bellavista, "Contributo allo studio della patologia della motivazione della sentenza penale", in Il Tommaso Natale, 1975, spec. 31 ss.).
2. »"Se non erano da ritenersi i due titoli, di per sé stessi e per la loro collocazione in prima pagina, diffamatori" .
I due titoli considerati - quello de L'Unità: »Ignobile: Pannella induce la figlia di D'Urso a chiamare ``boia'' il padre e quello di Paese Sera: »Pannella costringe Lorena D'Urso e definire boia suo padre in TV - sono certamente diffamatori, in quanto addebitano al Segretario del Partito Radicale un comportamento disdicevole di inganno e di sfruttamento, ai fini propagandistici, d'una dolorosa situazione umana e politica.
Nel caso in discorso, peraltro, non v'è difformità tra titoli e contenuto dell'articolo. La deformazione della verità è costante. Ciò consente, da un lato, di ritenere non mendata - come vuole una certa giurisprudenza (Trib. Roma, 5 marzo 1964, in Riv. pen. 1964, II, 852; App. Roma, 11 febbraio 1949, in Giust. pen. 1950, II, c. 443 ss.) - la portata diffamatoria del titolo dall'esame del contenuto non diffamatorio dell'articolo; perché quest'ultimo ripropone, in entrambi i casi, notizie false e offensive che sviluppano coerentemente l'annuncio dato nel primo. D'altro canto, anche a prescindere dall'autonoma incriminabilità della diffamazione contenuta nel solo titolo - autorevolmente e ripetutamente affermata (Cass. 8 ottobre 1962, in Riv. pen. 1963, II, 216; Trib. Roma 24 ottobre 1966, in Arch. pen. 1967 II, 326; Trib. La Spezia, 3 gennaio 1961, in Temi genov. 1961, 311; e, in dottrina, Nuvolone, "Il diritto penale della stampa", Padova, 1971, 247) - in casi simili il carattere diffamatorio del titolo in un
a con la sua collocazione in prima pagina varrà ad accentuare la gravità del reato, con conseguenti influssi sul quantum della pena, della riparazione pecuniaria ex art. 12 legge sulla stampa, del risarcimento del danno. Ciò deriva da ragioni evidenti: che il titolo, per la sua naturale incisività e per la forza estetica (nel senso etimologico del termine = presa sui sentimenti) di cui dispone, è idoneo a colpire immediatamente il lettore (così Nuvolone, op. cit., 247) e ha effetto diffusivo più efficace del testo, perché il lettore è attratto dalla sua vistosità - clamorosa nel caso in esame - e spesso legge soltanto quello (così Trib. Roma, 24 ottobre 1966 cit.).
3. »"Se la versione fornita dai due giornali può considerarsi esercizio del diritto di cronaca, così come sostenuto dal Tribunale, pur risultando dalle concordanti deposizioni di Marco Pannella e di Lorena D'Urso - per altro del tutto ignorate in motivazione - che i fatti oggetto di quella cronaca si erano svolti in tutt'altro modo, ed anzi contrario, e non essendo stato provato il doveroso accertamento delle fonti notiziali" .
Un rilievo, anzitutto: la motivazione della sentenza in oggetto, per giustificare l'assoluzione degli imputati, perché »non punibili per aver agito nell'esercizio dei diritti di cronaca e di critica , non è un capolavoro di chiarezza e di coerenza argomentativa. Il diritto di cronaca, nel caso in questione, non viene riconosciuto attraverso l'acclaramento dei requisiti della »verità e dell'»interesse sociale o della »continenza della notizia, ma attraverso un esame della sua inidoneità ad offendere la reputazione del querelante. La notizia è falsa, così come è espressa, ma non ha alcuna potenzialità ingannatoria e quindi lesiva. Stante queste premesse, l'assoluzione avrebbe dovuto essere »perché si tratta di reato impossibile ex art. 49, secondo comma, c.p., per inidoneità del mezzo e non per l'esercizio del diritto di cronaca a sensi degli artt. 51 c.p. e 21 Cost.
Quest'ambiguità non fa differenza sostanziale, visto che non cambierebbe l'esito del processo; ma è, già di per sé, indice della intrinseca debolezza delle argomentazioni addotte in motivazione. La sua giustificazione sta proprio in questo: nel desiderio di ignorare le prove che sono emerse nel processo, che si ritengono irrilevanti, stante la mancanza di lesività delle affermazioni contestate. Ciò consente, infatti, al Tribunale di asserire che il fatto, così come anche »il lettore più sprovveduto lo ha inteso, è »vero e degno di »interesse sociale , elementi che integrano il corretto esercizio del diritto di cronaca.
Ma è proprio a questo proposito che rilevano le critiche esposte sub 1. La notizia che Pannella ha »costretto o »indotto Lorena D'Urso a chiamare boia il padre non può ritenersi appresa dai lettori come un'agevolazione chiesta da quest'ultima nell'estremo, disperato tentativo di salvare la vita al padre.
Se si scioglie questo equivoco, è di palmare evidenza che, nel caso in oggetto, non è integrato nessun estremo dell'esercizio legittimo del diritto di cronaca. Non la »verità dei fatti narrati. Dagli atti del processo - deposizioni Pannella e D'Urso - si ricava che le cose sono andate in maniera diversa: che Pannella mise a disposizione della famiglia del rapito uno spazio televisivo da utilizzare in piena autonomia, consigliò un appello alle B.R., tentò di dissuadere Lorena D'Urso dall'accedere alle richieste aberranti di queste ultime. Né v'è stata possibilità di equivoco in ordine allo svolgimento dei fatti, se è vero che i giornalisti incriminati non si presero neppure la briga di accertarli, posto che Lorena D'Urso ha deposto che, »dopo la messa in onda della trasmissione non ci vennero richieste dai giornalisti notizie circa il modo in cui si era giunti alla trasmissione ; né di correggere l'impostazione deformante scelta, dopo il comunicato dell'agenzia A.N.S.A. nel quale Lorena D'Urso precisava di a
ver letto il comunicato B.R. di sua spontanea volontà. Viene meno, quindi, oltre alla verità obiettiva del fatto, anche la possibilità di parlare della sussistenza di una soggettiva convinzione di verità del giornalista o di una verità oggettiva quale appare al giornalista, cui la dottrina più sensibile alle istanze dell'informazione riconnette l'ultima Tuhle dell'impunità (cfr., rispettivamente Delitala, "Diritto penale. Raccolta degli scritti", Milano, II, 961 e Vassalli, "Libertà di stampa e tutela penale dell'onore", in Arch. pen. 1967, I, 11).
Né si può parlare di »continenza dei fatti narrati. Questo concetto, che articola meglio quello generico di »interesse sociale cui si richiama la giurisprudenza prevalente (cfr. Jannuzzi - Ferrante, "I reati nella legislazione sulla stampa. Rassegna di giurisprudenza", Milano, 1978, 110 ss.), illustra la necessità inderogabile che la cronaca si attenga, anche là dove è frammista a critica, al buon costume polemico e alla correttezza e proprietà del linguaggio (Nuvolone, op. cit., 56 ss.): principi, questi, che nel caso in esame sono stati ampiamente disattesi.
Sotto questo profilo, il convincimento espresso dal Tribunale trova precisa smentita negli atti del procedimento e dà vita ad un »travisamento del fatto per non corrispondenza della decisione con le prove risultanti dagli atti processuali, censurabile in Cassazione (Cass. I, 13 maggio 1953, in Riv. it. dir. pen. 1953, 666 ss.).
4. »"Se, pur volendo ammettere che, nelle competizioni politiche, meno rigida sia la tutela dell'onore e della reputazione, non è da ritenersi che gli articoli abbiano disatteso l'essenziale requisito della verità del fatto e costituiscano un attacco »ad hominem volto prepuamente a ferire su un piano individuale la figura morale dell'avversario" .
Alla prima parte del quesito ho risposto sostanzialmente sub 3. Riassumendo: il fatto narrato non è vero, né verosimile perché le notizie lesive della reputazione del querelante sono risultate nel processo, infondate; né queste ultime sono state attinte da fonti sicure e degne di fede, perché nessun accertamento circa la fondatezza di quanto narrato vi è prova che sia mai stato fatto. Questo vale in generale, id est anche nel caso in cui l'espressione diffamatoria sia stata proferita nel contesto corrusco di una competizione politica. Il limite della verità della notizia non conosce cedimenti, col mutare delle circostanze concrete.
Dire che la »politica è, ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca, materia »privilegiata (secondo la nota tesi di Fois, "Principi costituzionali e libertà di pensiero", Milano, 1955, 35 ss. e Delitala, "I limiti giuridici alla libertà di stampa", in Justitia 1959, 361 ss.) o che, con riguardo ad essa, »deve essere consentita una maggiore libertà di linguaggio, sino ad attacchi e critiche personali (Cass. 17 maggio 1972, n. 1499, in Foro it. 1973, I, c. 175) o ancora che, in questo campo, l'oggetto della cronaca è inevitabilmente più esteso (Nuvolone, op. cit., 59) o, infine, che il politico consente, mediante »volontaria esposizione , ad una restrizione del diritto di tutela del proprio onore in favore dell'ampliamento dell'attività di censura (Gaito, "Verità dell'addebito nei delitti contro l'onore", Milano, 1966, 182 ss.), è certo fare un'affermazione corretta. La tutela dell'onore e della reputazione in democrazia è destinata ad essere inevitabilmente meno forte per gli uomini politici di quanto l
o sia per l'uomo comune. Essa incide, però, sul limite dell'»interesse sociale o della »continenza della notizia, non su quello della »verità . Come sottolinea felicemente Nuvolone (op. cit., 61), anche in questo caso, »limite essenziale è quello della verità , mentre quello della »continenza o »interesse sociale si viene ad identificare con »la correlazione tra notizia e valutazione politica (in senso analogo De Nova, "Qualità del soggetto leso e risarcimento del danno: il caso dell'uomo politico", in Tutela dell'onore e mezzi di comunicazione di massa, Torino, 1979, 108 ss.). Ma l'ampliamento del secondo può operare solo sul presupposto di un rigoroso rispetto del primo.
Ne consegue che l'attacco personale che fa leva sulla falsità degli addebiti è sempre illecito: da un lato, perché viola il canone essenziale della verità dell'informazione; dall'altro, perché non giova a quell'esigenza di attento controllo sull'operato degli uomini pubblici che è di estremo interesse per lo svolgimento della vicenda democratica. La giurisprudenza, del resto, è costante su questo punto. Il limite sostanziale dell'obiettività e quello formale della serenità sono superati, »quando risulta che l'informazione costituisce solo l'occasione, o peggio il pretesto, per colpire nell'onore o nella reputazione l'avversario politico... e si sconfini nella contumelia e nella gratuita denigrazione. In tal caso non è configurabile l'esercizio del diritto di cronaca ed il fatto non può essere discriminato perché la pubblicazione si rivela uno strumento di aggressione dell'altrui reputazione (Cass. I, 14 gennaio 1966, in Giust. pen. 1966, II, c. 714). In altre parole, la cronaca »quando trascende ad attacchi
personali, volti precipuamente a ferire su un piano individuale la figura morale dell'avversario , anche se è vera, è tuttavia illecita (Cass. VI, 11 giugno 1974, in Riv. pen. 1975, 322; Cass. I, 29 settembre 1964, in Giust. pen. 1965, II, c. 419); se non è vera, è sempre illecita (App. Milano, 2 febbraio 1960, in Giust. pen. 1960, II, c. 547).
5. »"Se le espressioni che il Tribunale ha ritenuto, semmai, solo genericamente diffamatorie, andavano considerate come tali e a sé stanti e non invece come epiteti ingiuriosi contestuali e conseguenti all'attribuzione di un fatto determinato .
E' un dato di fatto che, spesso, cronaca e critica si presentano intrecciate. Questo è frequente soprattutto in materia politica, dove la valutazione tende sempre ad anticipare a colorire l'esposizione, il giudizio a travolgere la notizia e ad asservirla ai precari schemi della polemica politica.
Sceverare la critica dalla cronaca è, in tali casi, impossibile in fatto, e illegittimo in diritto. Il criterio regolatore per considerare unitario quanto pubblicato o separarlo in modo da dar vita a due diverse valutazioni, non può essere che l'esame se la notizia di cronaca sia funzionale rispetto al giudizio critico. Se l'oggetto della cronaca costituisce il presupposto e l'occasione per l'espressione di osservazioni e rilievi negativi nei confronti dei protagonisti del fatto di cronaca, quanto pubblicato va valutato unitariamente, in base ad una sorta di principio di »accessorietà .
Nel caso in esame questa situazione si presenta in tutti i suoi termini peculiari. Le espressioni »ignobile ecc. non hanno senso e ragione di essere se non come qualificazione dello specifico fatto di cronaca narrato. E poiché il fatto narrato è inequivocabilmente »determinato , anche codeste ineleganti qualificazioni lo sono.
Ne deriva che, se pure si desse credito, con singolare ardimento, alla tesi del Tribunale di Roma, secondo cui il fatto esposto è »vero , perché, pur nell'improprietà del linguaggio, esso è stato apprezzato nella sua reale consistenza dai lettori, non si potrebbe, tuttavia dire che la notizia è stata »continente : espressa cioè secondo una corretta polemica. A queste conclusioni si arriva pianamente per due ordini di motivi. Da un punto di vista assoluto, l'uso reiterato di epiteti gravemente offensivi pare vada oltre l'asprezza tollerabile anche nelle competizioni politiche. Val la pena ricordare, per un riferimento normativo, che l'art. 49 Cost. vincola l'attività politica dei partiti ai canoni d'un »metodo democratico . Sarà una clausola di stile: Ina è certo che da essa si possa evincere almeno l'obbligo a bandire dal dibattito politico la violenza grossolana e la contumelia gratuita. Da un punto di vista specifico, poi, il problema può essere ancor meglio apprezzato nei suoi giusti termini. E' vero che
nella competizione politica è consentito un linguaggio più aspro. Ma è indispensabile che esso non sia fine a sé stesso. Come è stato saggiamente osservato in dottrina (Nuvolone, op. cit., 71 ss.), la critica più ampia è ammessa ai fini di illuminare meglio attività decisive per i destini della civitas. Essa ha da essere, però, contenuta in precisi limiti logici o di scopo. Limite logico è che si deve sempre estrinsecare in un giudizio, non in un'invettiva. Limite di scopo è che deve essere finalizzata all'istruzione del suo oggetto. Ora, se la notizia che fa storicamente da supporto ai giudizi (»ignobile , ecc.) non va intesa secondo il comune significato delle parole, ma nel senso indicato del Tribunale, è di tutta evidenza la gratuità, ]a pesantezza immotivata nonché la mancanza di nesso funzionale con la notizia degli epiteti offensivi. In quanto tale, si verserebbe ampiamente fuori dal diritto di critica, costituendo quelle affermazioni espressione di un indebito diritto di denigrazione: di fatti che es
orbitano dalla tutela accordata agli avversari politici dall'art. 21 Cost. (per tutte, Cass. II, 24 gennaio 1962, in Giust. pen. 1962, II, c. 607).
Di fronte a queste affermazioni della motivazione, si è in presenza di una contraddittorietà palese, per l'inconciliabilità logica tra i diversi motivi della stessa.
6. »"Se il basso livello di costume cui talora scende la polemica politica denunciato dal Tribunale può essere considerato una scriminante per affermazioni obiettivamente lesive dell'onore e della reputazione o, piuttosto, non va ritenuto che tale »tolleranza incentivi il degrado del dibattito politico" .
Va da sé che »l'uso corrente di espressioni ingiuriose tra avversari politici non giustifica l'intervento scriminante del diritto di critica in questa ipotesi paradigmatica.
L'affermazione del Tribunale contiene, infatti, un principio di verità e un principio d'errore. Il primo consta nel fatto che la scriminante in esame, quanto alla determinazione dei limiti non espressi per legge, risente in qualche modo delle oscillazioni del costume. L'errore, per contro, è insito nella convinzione che si possa risolvere la delimitazione dell'esimente affidandosi al solo incerto ricorso delle regole sociali e che governano il gioco politico, senza avvedersi che altri e più sicuri limiti esistono. Si tratta dei suesposti limite logico della natura razionale della valutazione, che non può scadere a sfogo passionale, e teleologico della sua finalizzazione ad obiettivo politico, che per definizione è di interesse collettivo e non consente che il giudizio si esaurisca in attacco personale o immotivato.
Anche nel riferimento alle norme storiche di civiltà - rectius di inciviltà - che regolano il dibattito politico, pare che il rinvio operato dai giudici di Roma sia improprio per l'affrettata generalizzazione di taluni casi-limite. Oltretutto, anche le »norme di civiltà devono esprimere un »dover essere , lungi dall'abbandonarsi ad asettici dati di statistica sociale.
7. »"Quale valutazione può essere data del fatto che il Tribunale abbia - a sostegno delle proprie argomentazioni - fatto riferimento ad episodi in larga parte indimostrati (in particolare quelli relativi alla stessa parte civile) e certamente estranei all'oggetto del giudizio o addirittura successivi alla sua definizione" .
Al quesito sub 7 non rispondo. Trattasi di un fatto di malcostume, perseguibile in via disciplinare e, almeno da un punto di vista formale, anche penalmente perché non è consentito al giudice di attuare con la sentenza un suo interesse privato.