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Pietro Nuvolone - 1 aprile 1983
ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?: (13) Il parere pro-veritate di Pietro Nuvolone

SOMMARIO: Il volume edito dal "Centro Calamandrei" raccoglie gli atti di un processo per diffamazione relativo al "caso D'Urso". Nel corso del rapimento da parte delle Brigate Rosse del magistrato Giovanni D'Urso, due quotidiani accusarono il leader radicale Marco Pannella di aver portato in televisione la figlia del rapito Lorena e di averla costretta a leggere un comunicato delle BR in cui si definiva il giudice "boia".

Le querele che ne seguirono e l'intero processo, al termine del quale i due giornali furono assolti, illuminano come viene considerato oggi il reato di diffamazione ed offrono lo spunto per una riflessione aggiornata sul rapporto fra cittadini e mezzi di comunicazione di massa.

Nel volume, oltre alle querele, agli interrogatori di Marco Pannella e Lorena D'Urso, all'arringa dell'avv. Luca Boneschi e alla sentenza, sono riportati quattro pareri "pro-veritate" che il Centro Calamandrei ha chiesto ad altrettanti insigni studiosi della materia: Giorgio Gregori, Ferrando Mantovani, Enzo Musco e Pietro Nuvolone.

La loro aspra critica della sentenza e dei suoi principi ispiratori fanno sperare che sia ancora possibile, in una società dominata dai mass-media, tutelare l'onore e la reputazione dei singoli e degli enti in cui si esplica la loro personalità.

("ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?" - Analisi di un clamoroso caso giudiziario - Centro di iniziativa Giuridica Piero Calamandrei - Edizioni di Informazione e Diritto, Roma)

Indice

Angiolo Bandinelli: Democrazia e persona (testo n. 3941)

Premessa (testo n.3942)

IL PROCESSO

L'articolo di Paese Sera del 13 gennaio 1981 (testo n. 3943)

L'articolo de L'Unità del 13 gennaio 1981 (testo n. 3944)

Le querele (testo n. 3945)

L'interrogatorio di Marco Pannella (testo n. 3946)

La testimonianza di Lorena D'Urso (testo n. 3947)

L'arringa di Luca Boneschi (testo n. 3948)

La sentenza (testo n. 3949)

I PARERI PRO VERITATE

Giorgio Gregori (testo n. 3950)

Ferrando Mantovani (testo n. 3951)

Enzo Musco (testo n. 3952)

Pietro Nuvolone (testo n. 3953)

APPENDICE (testo n. 3954)

Articolo da l'Unità dell'11 gennaio 1981

Articolo da l'Unità del 14 gennaio 1981

Articolo da l'Unità del 16 gennaio 1981

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Pietro Nuvolone

Il giornale »L'Unità del 13 gennaio 1981 pubblicava un articolo intitolato »"Ignobile: Pannella induce la figlia di D'Urso a chiamare ``boia'' il padre" .

Nell'articolo si leggeva, tra l'altro: »Qui vogliamo dire la nostra terribile sofferenza, la nostra profonda umiliazione per ciò che ieri sera dagli schermi della televisione è stata costretta a fare la figlia di D'Urso nei quattro minuti messi a sua disposizione con cinico calcolo dai radicali. Per lei c'è tutto il nostro affetto, tutta la nostra partecipazione. Per Pannella c'è tutto il nostro disprezzo.

Ieri sera, in quei quattro minuti, la figlia di D'Urso ci ha dato - se ce ne fosse stato ancora bisogno - una prova estrema della necessità di resistere in nome, prima di ogni altra cosa, della dignità umana. E' stata costretta perfino a leggere le parole dei suoi torturatori, di quegli assassini che, sequestrato suo padre da un mese, decisi ad ucciderlo, lo definiscono ``boia''; e questa parola, pronunciata da lei, vittima sacrificale di questa mostruosa vicenda, di questa ignobile messa in scena segna il punto di massima abiezione delle B.R e di coloro che si prestano ad appoggiare o a subire i loro ricatti .

Il giornale »Paese Sera , pure del 13 gennaio 1981, pubblicava il seguente articolo dal titolo »"Pannella costringe Lorena D'Urso a definire boia suo padre in TV" :

»Pannella ha compiuto ieri sera un'azione che definire vergognosa è poco: nello spazio autogestito di »Tribuna politica flash , ha portato Lorena D'Urso, figlia del magistrato, a leggere un appello per la salvezza del padre. Ma non gli è bastata la scena ``a effetto'' e ha costretto la ragazza a leggere il comunicato dei terroristi di Palmi in cui si dice che »il boia D'Urso è stato giustamente condannato . Sapevamo già che Pannella chiama i B.R. »compagni assassini . Ora sappiamo anche come loro chiamano Pannella: ``compagno tirapiedi'' .

A seguito di querele presentate dall'on. Pannella contro i direttori responsabili dei due giornali, i medesimi venivano portati a giudizio del Tribunale di Roma per il delitto di diffamazione aggravata a mezzo della stampa.

Il Tribunale di Roma - Sezione IIIª penale - con sentenza 5 febbraio 1983, assolveva gli imputati dalle imputazioni loro ascritte »"perché trattasi di persone non punibili per aver agito nell'esercizio dei diritti di cronaca e di critica" .

Al sottoscritto è stato domandato dalla parte civile, ricorrente per Cassazione, se, dalla lettura della motivazione della sentenza, emergano argomentazioni suscettibili di censura.

Al quesito si dà la seguente risposta

1. Il Tribunale parte dalla premessa che gli articoli incriminati non avrebbero idoneità diffamatoria. In proposito, la sentenza motiva: »E' del tutto evidente che nemmeno il più sprovveduto dei lettori può avere dedotto dal titolo e dal testo degli articoli per cui è processo l'opinione che Marco Pannella abbia formulato minacce gravi o abbia posto in essere raggiri fraudolenti allo scopo di ottenere che Lorena D'Urso leggesse dinanzi alle telecamere lo spregevole documento delle B.R. .

L'affermazione appare quanto meno stupefacente e dimostra che il Tribunale ha confuso la stima che l'on. Pannella gode nell'opinione pubblica con il significato inequivocabile dei titoli, nella loro impostazione e nella loro connessione con il testo degli articoli, che ribadisce più volte con epiteti ingiuriosi e con espressioni di disprezzo la falsa e tendenziosa rappresentazione di fatti in pregiudizio alla reputazione dell'on. Pannella.

In fondo, sembra doversi opinare che, quando una persona è universalmente stimata, la si può diffamare impunemente perché nessuno ci crede!

Al qual proposito, si deve sottolineare che, per quanto la giurisprudenza abbia più volte evidenziato che anche i titoli possono avere un'efficacia propria distinta dal contenuto degli articoli cui si riferiscono, nel nostro caso - fermo restando il carattere gravemente diffamatorio dei titoli medesimi - non c'è bisogno neppure di far ricorso a detta giurisprudenza, perché il testo degli articoli è in perfetta chiave con i titoli, che, pertanto, ne costituiscono la sintesi e non sono suscettibili di diversa interpretazione. Negli articoli si ribadisce, infatti, il concetto che Pannella ha costretto la figlia di D'Urso, non essendogli bastato - si legge, per esempio, nell'articolo di Paese Sera - »la scena a effetto della lettura dell'appello per la salvezza del padre.

E' chiaro, pertanto, che il Tribunale ha travisato i fatti che erano decisivi ai fini della sua pronuncia.

2. Il dire, come fa il Tribunale, che i due imputati avrebbero esercitato il "diritto di cronaca", costituisce, nella specie, un evidente errore giuridico.

Il diritto di cronaca, quale causa di giustificazione, ha tre presupposti, come da giurisprudenza costante della Corte Suprema: la verità (o almeno la verosimiglianza ragionevolmente ritenuta) dei fatti; l'interesse sociale della notizia e la continenza della narrazione.

Nella specie, dalla deposizione dell'on. Pannella, e soprattutto da quella della teste Lorena D'Urso, emerge che i fatti si erano svolti in modo del tutto difforme da quello descritto negli articoli incriminati. La decisione di leggere il delirante comunicato delle Brigate Rosse fu presa esclusivamente da Lorena D'Urso e dai suoi familiari contro il consiglio dato dall'on. Pannella e quando questi si era addirittura allontanato dalla stanza.

L'avere trascurato un fatto tanto decisivo costituisce un vizio insanabile della sentenza.

I due giornalisti "non esercitarono, quindi, un diritto di cronaca", ma inventarono dei fatti.

3. Del pari erronea è la configurazione dell'esercizio del "diritto di" critica.

Nel testo dei due articoli, la presunta critica muove, anzitutto, da una esposizione dei fatti assolutamente inveritiera; in secondo luogo, si identifica in attacchi personali e ingiuriosi che indiscutibilmente tendono a squalificare pesantemente il querelante, non tanto sotto l'aspetto politico, quanto sotto l'aspetto morale e civile. La giurisprudenza ha sempre ritenuto che, nell'esercizio della critica, "non può trascendersi ad attacchi personali volti principalmente a ferire su di un piano individuale la figura morale del soggetto attaccato", trasmodando nel campo dell'aggressione alla stessa dignità individuale. Così: Cass., Sez. I pen., 29 settembre 1964, Mainardi, in »Giust. pen. , 1965, Il, 419; ID., Sez. VI pen., 16 maggio 1975, Giovannini, in »Giust. pen. , 1976, II, 138. In quest'ultima sentenza si afferma il seguente principio in antitesi con quanto sostenuto dal Tribunale: »"E' configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa quando nelle competizioni politiche e sindacali - dove è consenti

ta maggiore libertà di linguaggio - I'asprezza e la vivacità della polemica giungano all'aggressione della reputazione altrui e alla denigrazione degli avversari .

E nel nostro caso si tratta precisamente di questo. Il descrivere il querelante come persona che costringe la figlia del magistrato prigioniero a definire »boia suo padre; il presentarlo come uno che può essere chiamato »"compagno tirapiedi" delle Brigate Rosse; il definire »"cinico calcolo dei radicali" la messa a disposizione della famiglia D'Urso dei quattro minuti di flash televisivo; il dire »"per Pannella c'è tutto il nostro disprezzo" : tutto ciò significa chiaramente, non già una critica politica, sia pure aspra, ma un attacco ingiurioso di carattere personale che incide nella figura morale del querelante descritto come un essere abietto, fiancheggiatore del terrorismo e privo di qualsiasi sensibilità umana. E il considerare tutto ciò »critica politica è frutto di un evidente errore concettuale che identifica l'atto illecito con l'esercizio di un diritto.

4. Gli epiteti ingiuriosi rivolti all'on. Pannella non esattamente sono visti dal Tribunale come diffamazioni generiche amnistiabili: essi devono essere posti, invece, in correlazione con i fatti determinati attribuiti al querelante con cui formano un tutto inscindibile. In altre parole, non si possono isolare dal contesto e fanno parte di un'unica diffamazione con attribuzione di un fatto determinato.

5. Da ultimo, si deve rilevare il vizio gravissimo di motivazione consistente nel tentativo di rafforzare la tesi della liceità delle più pesanti ingiurie in sede politica con il »basso livello di costume cui talora ascende la polemica politica e con »l'uso corrente di espressioni ingiuriose tra avversari politici : tentativo che si avvale anche di esempi tratti, con discutibile gusto, da episodi di cui sarebbe stato protagonista anche il querelante, persino successivamente alla pronuncia della sentenza. Ora, anche a prescindere dall'ovvia considerazione che non si possono trarre argomenti da fatti di cui non si conoscono gli elementi (e per i quali potrebbe, eventualmente, ipotizzarsi anche la scriminante della provocazione), certo è che "la definizione di un diritto e del suo contenuto" (nella specie il diritto di critica), "non può basarsi sopra fatti di abuso del diritto, e quindi illeciti": a meno di non considerare fonte di diritto la disapplicazione della legge penale per desuetudine. Perché proprio

questa è, in fondo, a ben ponderare le cose, la proposizione sottostante alla parte della sentenza che concerne il diritto di critica. "In conclusione", ritengo che la sentenza del Tribunale di Roma abbia fatto malgoverno delle norme giuridiche in tema di diffamazione a mezzo della stampa e "che l'assoluzione pronunciata dal Tribunale stesso sia insanabilmente viziata da gravi errori di diritto".

 
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