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Spadaccia Gianfranco - 2 maggio 1983
Appuntamento al parlamento
12 luglio 1983

di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: Nel 1976 e 1979, assumemmo come radicali l'impegno a entrare nelle istituzioni "per cambiarle e non per esserne cambiati". Un impegno che non potremmo assumere di nuovo. Quel che siamo riusciti in questi anni a strappare, in termini di legalità e costituzionalità della vita pubblica, è stato pagato a prezzo di una dura lotta politica noviolenta. Liquidate due ipotesi di successione a questo regime: quella del compromesso storico e quella dei poteri occulti e mafiosi. Importanti vittorie parziali: il fermo di polizia, l'emendamento cancella debiti sull'editoria, il Piano energetico nazionale, la scala mobile sul finanziamento pubblico dei partiti. Il quadro regolamentare è mutato: il regolamento parlamentare è oggi quello di Gelli, ottenuto attraverso il burattino Labriola. Non accettiamo il ruolodi testimoni impotenti dello scempio di democrazia. Il 12 luglio saremo fuori e davanti al Parlamento.

(NOTIZIE RADICALI N. 8, 2 maggio 1983)

(Se il parlamento diventa impraticabile alla Costituzione e alla democrazia, ci troveremo il 12 luglio fuori e davanti ad esso: con la nonviolenza, in nome della democrazia e della Costituzione)

Non esiste più governo della Repubblica. E non esiste più parlamento. Esiste solo partitocrazia che ha svuotato e piegato le istituzioni della Repubblica, governo e parlamento.

Nel 1976 e nel 1979 chiedemmo il voto agli elettori dicendo che saremmo andati nelle istituzioni come rappresentanti del popolo, secondo quando prescrive e vuole la Costituzione; e vi saremmo andati "per cambiarle", non per "esserne cambiati".

Possiamo tranquillamente dire di aver tenuto fede a quell'impegno. Ma proprio per questo, proprio perché non abbiamo mentito agli elettori, dobbiamo oggi con chiarezza dire che non esistono le condizioni per assumerlo di nuovo.

Certo siamo sempre stati ben lontani in questi sette anni dalla speranza e dalla possibilità di conquistare pienezza di vita democratica e di legalità costituzionale. Tutto ciò, in termini di democrazia e di Costituzione, siamo riusciti a strappare, è stato strappato a prezzo di dure lotte, in parlamento e nel paese: è solo così che siamo riusciti a sconfiggere la politica di unità nazionale, a determinare la caduta di Leone che spianò la strada alle elezioni di Pertini, a battere l'infame alleanza fra il partito della P38 e il partito della P2 che attendeva con la morte di D'Urso anche quella della democrazia italiana. E' pur vero, dunque, che è bastata la "diversità" costituzionale e non-violenta di questo Partito radicale a liquidare due ipotesi di successione a questo regime: quella del compromesso storico e quella dei poteri occulti mafiosi e massonici, militari e affaristici, "atlantici", che si raccoglievano nella Loggia di Licio Gelli.

Ed è anche vero che importanti vittorie parziali si sono spesso accompagnate a nostre apparenti sconfitte. Non siamo riusciti a impedire la legge Cossiga, ma il decreto sul fermo di polizia alla fine non è stato riproposto ed è caduto. Non siamo riusciti a bloccare la legge sull'editoria, ma abbiamo impedito l'emendamento cancella-debiti a favore degli editori piduisti. Il famoso articolo 17 sulle centrali nucleari è passato, ma il piano energetico nazionale basto sulla priorità nucleare è entrato in crisi. Il raddoppio del finanziamento pubblico l'hanno ottenuto, ma hanno dovuto lasciare per strada la "scala mobile" dei partiti.

E allora? Perché ciò che è stato possibile non dovrebbe essere possibile anche nella prossima legislatura? Perché fino a un anno, un anno e mezzo fa, la partitocrazia rendeva omaggio in qualche misura alle regole della legalità che pure si era ritagliata su misura. Per anni hanno accettato e subito che i radicali rappresentassero l'insanabile elemento di contraddizione dei loro stessi regolamenti lottizzatori e unanimistici. Ciò che non concedevano in termini di diritto all'informazione e di reale dibattito democratico, lo concedevano o lo subivano in forza di questa contraddizione. Attraverso questa contraddizione, usando i loro stessi regolamenti, riuscivano a far passare una opposizione democratica, nonviolenta, costituzionale.

Da un anno e mezzo non è più così. I progetti di Gelli sono stati tradotti in nuove norme regolamentari o in "interpretazioni" del regolamento, da un burattino di Gelli, il piduista Labriola. Queste stesse norme e queste interpretazioni sono state avallate e sostenute dal PCI e fatte valere dal Presidente comunista della Camera, Nilde Jotti. Ciò che in pratica si è affermato è il rovesciamento del principio di legalità: si è legittimata la violazione della legalità costituzionale e regolamentare, per decreto di maggioranza, o se si preferisce in forza del "consensus" fra la maggioranza di governo e la più forte delle opposizioni, quella del picci.

Intanto la Costituzione è stata messa anche formalmente in mora, con la costituzione della commissione per le riforme costituzionali e istituzionali. E a meglio rimarcare la volontà partitocratica di non tollerare opposizioni, si è proceduti a colpi di espulsioni per intere settimane di deputati radicali.

Eppure, nonostante questo attacco alla legalità, "questo" partito ha trovato in se stesso, nella propria politica, la forza di non farsi cambiare, di non farsi piegare alla logica del regime, a cui si son piegati - eccettuato Sciascia - la maggioranza dei radicali eletti nelle liste radicali del '79, e i "pentiti" della politica e del partito radicale.

Ma non possiamo accettare il ruolo che pretendono di assegnarci: quello del testimone impotente dello scempio di democrazia che la partitocrazia ha già realizzato probabilmente a beneficio di altri più inquietanti protagonisti che si preparano a raccogliere la successione di questo regime. Non giocheremo con le loro regole truccate e anticostituzionali. Se il Parlamento diventa impraticabile alla Costituzione e alla democrazia, ci troveranno il 12 luglio fuori e davanti il Parlamento. Con la nonviolenza, in nome della democrazia e della Costituzione.

 
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