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Cagnoni Renata, Castellano Lucio, Cavallina Arrigo, Cortiana Giustino, Dalmaviva Mario, Ferrari Bravo Luciano, Funaro Chicco, Pozzi Paolo, Sbrogio' Gianni, Scroffernecmer Giorgio, Tommei Franco, Vesce Emilio, Virno Paolo. - 25 novembre 1983
Artigiani di giustizia
Il messaggio dei detenuti del 7 Aprile al Congresso radicale

di Renata Cagnoni, Lucio Castellano, Arrigo Cavallina, Giustino Cortiana, Mario Dalmaviva, Luciano Ferrari Bravo, Chicco Funaro, Paolo Pozzi, Gianni Sbrogiò, Giorgio Scroffernecmer, Franco Tommei, Emilio Vesce, Paolo Virno.

SOMMARIO: La lettera dei detenuti del 7 aprile indirizzata al Congresso radicale tende in primo luogo a ringraziare il Partito Radicale per aver avuto il coraggio di candidare nelle sue liste Tony Negri e di aver sollevato così non solo il problema della carcerazione preventiva ma anche della giustizia e dei processi politici in Italia.

(NOTIZIE RADICALI n. 44, 25 novembre 1983)

Care compagne e cari compagni del Partito radicale, noialtri imputati detenuti del processo 7 aprile abbiamo qualche motivo non formale per ringraziarvi e per intervenire, sia pur brevemente, nel merito del vostro dibattito congressuale.

Vi ringraziamo per aver offerto l'occasione a cinquantamila elettori di pronunciarsi contro l'"emergenza" e le leggi speciali, votando per Toni Negri. Vi ringraziamo per aver introdotto la liberazione come variabile concreta nel carcere senza fine dei detenuti politici; la libertà di uno di noi ci rende tutti un po' neno prigionieri. Vi ringraziamo per aver sfidato, con indubbio coraggio politico, l'arroganza di quella cultura repressiva che troppo spesso, in questi ultimi anni, ha avuto campo libero nelle istituzioni e nel paese. Vi ringraziamo, infine, per aver accelerato, mediante la candidatura Negri, un'inversione di tendenza nella sinistra, per aver messo in primo piano la questione di una soluzione politica alle lacerazioni degli anni '70.

Nulla di tutto ciò è stato effimero, nulla deve andare sprecato. Coloro che oggi speculano sulla fuga di Toni, su questo suo umanissimo errore, sono gli stessi che hanno sostenuto con entusiasmo tutte le montature giudiziarie, che hanno avallato tutti gli orrori dell'"emergenza". Meritano solo disprezzo, oggi come ieri. La campagna di libertà e di pacificazione, iniziata da tempo nelle carceri, ha avuto una forte spinta dalla candidatura di Negri, ha "usato" la sua vicenda, ne ha tratto qualche buon risultato, e ora va avanti, in un nuovo, più favorevole scenario. Ciò che sta dietro l'elezione di Toni e che voi avete portato alla luce, è qualcosa di troppo grosso per poter convergere sulla sua figura, sulle sue scelte, va oltre Toni, matura nonostante i suoi errori. Andiamo avanti, compagni. L'approdo di quel 27 giugno, così straordinario per i detenuti, politici e no, è il carcere in fermento, sono i grandi processi in cui si consuma ingiustizia, certo, ma nei quali ha luogo anche una forte quotidiana batta

glia politica.

Il carcere, oggi, e in special modo la realtà di migliaia di detenuti politici, è una questione nazionale, un segno di contraddizione permanente e di portata generale. Il carcere è al centro della vita delle istituzioni, dell'equilibrio fra corporazioni di potere, dell'intera cosiddetta "società politica". E' un nervo scoperto. Il dolore che emana può diventare forza politica per il mutamento, per l'ampliamento dei diritti e delle libertà, per una nuova pattuizione costituzionale aperta alla spinta dei movimenti. Mai come oggi è giusto essere radicali e persino "provocatori" riguardo al carcere. Che idea di "pace" hanno tutti coloro che non colgono nel carcere e nel complessivo sistema della penalità la più immediata materializzazione della guerra, la guerra abituale fino all'invisibilità, divenuta quasi seconda natura? Che idea di "pace" hanno tutti coloro che si adattano a vivere in un paese con migliaia di prigionieri politici? E veniamo al nostro processo, cari compagni, al 7 aprile, a questo mostro che

s'aggira nelle coscienze, ipnotizzandole o terrorizzandole, qualche volta riempiendole di un'indignazione senza limiti. Ancora oggi, dopo quattro anni e mezzo, c'è, accanto alla cattiva coscienza per la carcerazione preventiva patita dagli imputati, un diffuso atteggiamento di delega alla magistratura, a questa magistratura, quanto al giudizio nel merito. Ebbene, questa delega supina e fiduciosa, che spesso si ritrova anche nei meglio intenzionati, è una trappola, un errore terribile. Spezziamola. Che si fissi lo sguardo sul processo, sulle procedure che lo strutturano, sui pregiudizi che vi circolano, sui "teoremi" che lo guidano passo passo in dispregio ai fatti concreti di cui si discute. Che nessuno, fra pochi mesi, quando ci sarà la sentenza, possa dire "Non sapevamo, non credevamo che...". La battaglia, la denuncia va fatta ora, subito, in aula e fuori, ora in particolar modo, quando stanno per giungere nell'aula del Foro ltalico pressoché tutti i "grandi pentiti", gli autori della verità di Stato, i m

ercanti di carne umana. Il nostro processo è strutturalmente e irreversibilmente sleale. Per molti motivi. Eccone alcuni, su cui vi chiediamo riflessione e iniziativa.

Anzitutto. La modificazione completa, verificatasi almeno tre o quattro volte in questi anni, dell'intero impianto accusatorio. All'inizio: dirigenti delle Br, assassini di Moro. Poi: Potere operaio focolaio di una decennale insurrezione. Ancora: molte bande locali, coordinate fra loro, tutte, a sentire l'accusa, più terribili delle Br pur non avendo a loro carico un morto o un ferito. Come difendersi in questa condizione, di fronte ad un criterio persecutorio che suona "ecco i colpevoli; i fatti, o almeno gli pseudofatti, li troveremo?".

Inoltre. Praticamente tutti gli elementi in discussione del nostro processo sono o saranno giudicati parallelamente in altri dibattimenti. Inutilmente ci siamo battuti contro questa duplicazione o triplicazione dei procedimenti, le nostre eccezioni sono state respinte. E', questo, un sistema accusatorio perversamente "circolare": le diverse istruttorie, o sentenze, si citano e sostengono a vicenda: ognuna, pur basandosi sull'altra, ne costituisce il "precedente" indiscutibile. E' lealtà, questa? Lo sapete che fra meno di un mese ci sarà la sentenza del processo "Rosso" a Milano, mentre a Roma, al Foro Italico, molti imputati proprio di "Rosso" devono difendersi? Se a Milano vi sarà condanna per quell'associazione a che titolo questi nostri coimputati potranno ancora sperare in un processo "equo"?

Infine. La Corte d'Assise di Roma sembrerebbe, fino ad ora, voler far proprio il "teorema" accusatorio. Cerchiamo di capire cosa significhi ciò. Noi tutti siamo stati "sovversivi" negli anni '70, interni alle rivolte operaie e giovanili, decisi a contrastare il "monopolio statale della forza", a difendere le lotte dalle aggressioni del potere. Tutto questo alla luce del sole, senza mai indulgere all'orribile mito della clandestinità, senza mai dar luogo a "bande". Ma la storia di quegli anni, se letta con gli occhi di un "teorema" che vuol omologare movimenti di massa, sia pure "sovversivi", al terrorismo, verrà stravolta, e quindi ricostruita in modo irriconoscibile, senza rispetto per le discontinuità, le fratture, la cronologia, i rapporti reali. Così, della verità può essere fatto scempio, pur nell'ambito di una correttezza formale e di un'olimpica serenità. I "pentiti" potrebbero essere la sigla su tutto ciò. Ma a tutto ciò, alla produzione di una verità di Stato, noi ci opponiamo e ci opporremo. Vorrem

mo la vostra attenzione.

Cari compagni, nessuno di noi aveva la vocazione di "vittima" o di "pietra dello scandalo". Ma non sempre si sceglie. Oggi, agitare lo scandalo, brandirlo come uno strumento importante per tutti, è il nostro mestiere. E il proprio mestiere, si sa, è sopportabile solo se svolto con cura artigiana, pazienza, qualche ironia, e anche una certa puntigliosità insistente. Buon lavoro.

Rebibbia, 26 ottobre 1983

 
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