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Roccella Franco - 2 febbraio 1984
Niente vita, niente pace
La proposta radicale

di Franco Roccella

SOMMARIO: Ciò su cui i radicali richiedono l'attenzione di tutti è l'incompatibilità che corre tra le morti per fame nel mondo e la convenienza del nostro tempo. Qualsiasi progetto di sviluppo delle nazioni più povere da parte dei paesi ricchi si colloca nell'ambito della gestione delle ricchezze. Bisogna quindi intervenire in maniera reale per salvare quelle vite umane anche scalfendo il limite di compatibilità segnato dalla tutela delle immediate convenienze.

(NOTIZIE RADICALI n. 2, 2 febbraio 1984)

Questo flagello della fame non l'hanno scoperto i radicali. Ma hanno scoperto i cadaveri ammucchiati lungo il suo percorso, che segue lo stesso itinerario della nostra civiltà. Quello che hanno evocato i radicali è l'incompatibilità assoluta che corre fra queste morti assurde e la coscienza del nostro tempo. La differenza con quanti hanno rimosso l'immagine più reale e tremenda della fame nel mondo, le sue vittime ignote e predestinate, preferendo costruire e ricostruire i "disegni" della cosiddetta politica dello sviluppo e assumendo il pericolo dell'assistenzialismo e la "serietà" ultima dell'impegno come altrettanti alibi deresponsabilizzanti, è tutta qui. Ed è molto, è tutto.

Che in questa direzione li abbia sospinti la pietà è un dato che qualifica la loro capacità e intelligenza politica. Dove è mai scritto che la politica debba ridursi a un calcolo cinico delle convenienze? E dov'è scritto che il sentimento cristiano della pietà si risolva in quel mediocre e compromissorio sgravio di coscienza che è l'assistenza, e non sottintenda invece il rispetto della persona umana, il sentimento di quel valore ultimo ed esclusivo che è l'esistenza? Non c'è una scelta fra assistenzialismo e politica se non in termini mistificatori: se la solidarietà umana è integra ha già la forza di farsi politica. La verità è che una scelta si pone ed è ultimativa: fra due politiche.

Qualunque progetto di sviluppo delle nazioni e delle genti affamate ad opera dei paesi ricchi si colloca fisiologicamente entro il perimetro di gestione della ricchezza, dei suoi meccanismi e strutture, consolidati e condizionati; si esaurisce "realisticamente" negli spazi di compatibilità che la preservazione delle ricchezze concede.

E' vero che il rapporto Brandt e il rapporto Carter ammoniscono a tutte lettere che è impossibile alla lunga mantenere la pace in una umanità che sacrifica un terzo di sé al benessere degli altri due terzi; è vero che in sede di riflessione e di "studio" le società politiche dei paesi industrializzati intuiscono quello che Mitterand ha detto a voce alta: che, cioè, in un mondo qualificato da inesorabili interconnessioni economiche com'è il nostro, salvare chi muore per fame è l'unica risorsa pacifica di cui dispongono i paesi ricchi per risolvere la loro crisi; ma è anche vero che riequilibrare la ricchezza significa di fatto ristrutturare gli assetti economici del mondo. Se la politica, come essi amano ripetere, non è la scienza di amministrare il possibile ma la scienza di creare il possibile, con la loro indicazione essi richiamano nell'area del possibile un progetto ripetutamente disegnato, frequentemente idoleggiato ma eternamente disatteso. Creano le condizioni prime perché un vagheggiamento diventi po

litica. Altrimenti la "politica" troverà altre strade, la domanda di sopravvivenza assumerà le forme disperate della rivolta e della guerra o lo sviluppo quelle altrettanto violente del dominio.

Questo, null'altro che questo, è il significato del nuovo approccio al problema suggerito dai radicali. E' questa la portata dell'"intervento urgente e straordinario" da essi richiesto: un segno, un gesto che dichiari l'intollerabilità di quelle morti ma un gesto che comporti la sofferenza di un costo reale, tale da scalfire il limite di compatibilità segnato dalla tutela delle immediate convenienze. Lo tollera questo tipo di intervento l'economia italiana? Ma se lo tollerasse senza incidenza alcuna allora sì che si ridurrebbe a un atto di generosità, a un contributo davvero assistenziale, ad una elargizione iscritta in bilancio alla voce delle ordinarie liberalità. O una politica misurata sulle tollerabilità o una tollerabilità misurata su una scelta politica. E', appunto, una scelta. E' politica. Che ha potenzialmente la forza di interrompere la cantilena monotona e bugiarda degli interventi cosiddetti ordinari, teoricamente proiettati su orizzonti di sviluppo, praticamente dilatori e gaglioffi in forza de

lle logiche che vi presiedono e della gestione che li amministra, e di ricondurli lungo gli itinerari obbligati del possibile e del congruo, esattamente finalizzati. Salvati per la prima volta, subito e comunque tre milioni di esseri umani dalla morte per un anno - è questa la richiesta dei radicali - come eludere l'obbligo di continuare a tenerli in vita e di salvarne altri? Si saranno create allora, se non altro in forza di questo dilemma, le condizioni obbligate per intendere, con tutte le eventuali gradualità, la politica dello sviluppo come una politica e non come evasione da una politica. Emergeranno quantomeno nella loro reale e dichiarata fisionomia gli interessi che verranno inevitabilmente in discussione nei termini di una contraddizione non eludibile.

E' una illusione? E' un tentativo. L'unico, allo stato delle cose, sul quale si può dare un giudizio di praticabilità.

Ed è vero. La prima contraddizione che si porrà non potrà che essere quella emergente da una scelta che investe l'uso delle risorse destinate agli armamenti e alle ipotesi di guerra. Difficilmente si potrà uscire dal dilemma: o si finanzia, quanto meno in via prioritaria, la vita o si finanzia la morte; o la pace o la guerra. E la seconda quale volete che sia se non quella che deriva dalla concezione di uno sviluppo subordinato agli interessi di dominio piuttosto che alle regole della cooperazione?

 
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