Giustizia, giudici e leggi specialidi Mauro Mellini
SOMMARIO: Durata della carcerazione preventiva, regime carcerario, legge dei pentiti, maxiprocessi sono altrettanti tasselli di un meccanismo giudiziario che nel suo assieme rivela caratteri di inciviltà.
(NOTIZIE RADICALI N. 66, 14 marzo 1984)
Molto spesso, quando si parla della "legge sui pentiti", si sente osservare che anche in altri paesi, portati ad esempio della civiltà giuridica e di rispetto per le garanzie giudiziarie, è ammessa l'impunità per chi si presti a testimoniare contro i propri complici. Così pure, quando si manifesta indignazione per i termini magari ultradecennali di carcerazione preventiva, si sente obiettare che in altri paesi i termini di carcerazione riguardano solo la fase istruttoria preliminare. Più o meno la stessa cosa avviene quando si parla del regime carcerario o magari di quella mostruosità giuridica che sono i maxiprocessi.
Non è vero dunque che il nostro paese sta attraversando un'eclissi del diritto, che il cittadino è alla mercé dell'arbitrio, che le leggi speciali, che si sono sovrapposte all'arretratezza dei codici ereditati dal fascismo, hanno fatto sì che il nostro sistema giudiziario non possa più definirsi civile e degno di un paese civile?
Per dare una risposta occorre tenere presente che durata della carcerazione preventiva, regime carcerario, legge dei pentiti, maxiprocessi sono altrettanti tasselli di un meccanismo che nel suo assieme rivela caratteri di inciviltà; tasselli che non appaiono di per sé altrettanto evidenti e gravi quanto lo sono ove vengano considerati nel loro assieme, ognuno in funzione degli altri.
La legge dei pentiti, la legge dell'impunità ai delatori dei propri complici è di per sé abbastanza ripugnante. Ma lo è assai di più ove si consideri che il "pentimento" viene offerto come alternativa ad una carcerazione preventiva praticamente senza limiti e che, a parte l'impunità o lo sconto sulle pene, il pentito può accedere alla libertà provvisoria altrimenti assolutamente irraggiungibile e comunque può sfuggire all'intollerabile oppressione del carcere speciale. E se è abbastanza grave che sia la legge stessa a definire "prove" quelle che il pentito fornisce contro i suoi complici, facendo dipendere da loro "rilevanza" l'entità dello sconto di pena, è angoscioso pensare che per vagliare la credibilità di tali "prove" e delle costruzioni accusatorie su di esse imbastite, la sede sia quella di maxiprocessi, magari con un centinaio o centinaia di imputati, migliaia di capi di imputazione, con tempi incredibilmente lunghi e con l'inevitabile appiattimento e confusione delle posizioni di chi vi è coinvolt
o.
A sua volta il sistema dei maxiprocessi rende necessario protrarsi della carcerazione preventiva, ma la mancanza di seri termini massimi per la durata di quest'ultima rende possibile l'abuso del maxiprocesso, nel quale le "rivelazioni" del pentito sono spesso il fillo conduttore ed il cui credibilità del pentito è preziosa, cosicché difficilmente il giudice osa seriamente verificarla in ordine ad una singola chiamata in correità, a rischio di vedersi crollare addosso l'intero edificio dell'istruttoria.
In questo meccanismo l'onnipotenza del giudice istruttore è incontrastata. Non c'è Tribunale della libertà, non c'è Corte d'Appello o Cassazione che possa affrontare seriamente i ricorsi contro i provvedimenti sulla libertà personale dell'imputato irretito nel dedalo dell'intelaiatura accusatoria. E le "esigenze istruttorie" che dovrebbero giustificare la carcerazione preventiva in questo contesto si concretano assai spesso nell'esigenza di attendere che l'imputato si "penta" per assicurare all'istruttoria il contributo delle sue delazioni.
In questo intreccio di tristi istituti deformanti, l'accostamento tra tortura ed uso ed abuso della legge sui pentiti è assai più calzante di quanto non lo sia per se stesso. Se la legge sui pentiti fa immediatamente pensare alla viltà della delazione retribuita, all'impunità comprata all'prezzo della libertà altrui, nella realtà la costrizione al pentimento è assai frequente ed effettiva di quanto non si creda. Oggi è venuto di moda il termine "legislazione premiale", forse per cercare di togliere di mezzo il riferimento al "pentimento" che oramai evoca troppo manifestamente la sua antitesi ed ha acquistato un sapore allo stesso tempo ironico e sinistro. Certo, l'idea del "premio" non è meno aberrante. Ma a ben vedere anche la legge della tortura poteva in qualche modo definirsi "premiale", a patto di esser disposti a considerare un premio la cessazione del tormento che faceva seguito alla confessione.
Se è vero che il ruolo del giudice cambia a seconda delle leggi che egli è chiamato ad applicare, così come cambia la logica ed il senso di equità cui egli si ispira, non sembra che sia contestabile che in fine gli stravolgimenti delle leggi sostanziali e delle procedure comportino un cambiamento del giudice, soggetto, come dice la Costituzione della nostra Repubblica, appunto, alla legge. Che se poi i cambiamenti delle procedure, dei processi, delle leggi con le quali si debbono perseguire e reprimere i delitti, affrontare, come oggi si dice, le varie emergenze, comportano che il giudice abbia carta bianca, poteri discrezionali praticamente illimitati, che sia quindi sempre meno soggetto ad una legge sempre più labile ed evanescente, allora il discorso si allarga ancora con l'interrogativo di quale sia la soggezione che dovrà prima o poi sostituirsi a quella alla legge, visto che questa soggezione è la giustificazione e lo strumento dell'indipendenza dei giudici.