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Filippini Rosa - 24 marzo 1984
VERDI DI TUTTO IL MONDO
di Rosa Filippini

SOMMARIO: Nella relazione della Presidente degli degli Amici della Terra al convegno "Verdi di tutto il mondo ", viene ribadita il concetto di difesa dell'ambiente e della natura e l'impegno per un diverso uso delle risorse e per il controllo delle tecnologie. Queste sono le basi su cui gli ecologisti possono dare vita ad una alternativa viste le novità che sul terreno politico si sono manifestate, per ora, solo in Europa. Se si dovranno ricercare alleanze queste non potranno essere trovate tra le sinistre storiche: con le sinistre occidentali ci si scontra non solo sull'ecologia ma anche sulle libertà. La radice che unisce invece verdi e radicali europei è la negazione della cultura e della tradizione della violenza sugli uomini così come sulla natura. Ciò fa diventare abissale la lontananza della sinistra storica: ciò che caratterizza i nuovi movimenti è il porre al primo posto il rispetto per la vita e per la sua qualità. L'intollerabilità dello sterminio per fame deve diventare la politica dell'ecologism

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(NOTIZIE RADICALI n. 62, 24 marzo 1984)

(La difesa dell'ambiente e della natura e l'impegno per un diverso uso delle risorse e per il controllo delle tecnologie. L'intollerabilità dello sterminio per fame deve diventare politica dell'ecologismo. Su questa priorità riconvertire la politica alla difesa e alla affermazione del valore della vita e della sua qualità)

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Ancora pochi anni fa, gli ecologisti venivano espulsi dal dibattito politico come irrazionalisti, utopisti, nostalgici del passato o, al massimo, portatori di parzialissime e marginali preoccupazioni. Nel migliore dei casi si riconosceva all'ecologismo, considerato più come provocazione che non tesi antagonista, un valore di mero supporto, del tipo "ben vengano tutte le critiche, che poi si decide meglio". Un Ivan Illich, un Alain Hervè venivano e vengono ancora considerati da molti alla stregua di intelligenti giullari che accompagnano con i loro paradossi l'incedere del progresso e della tecnica.

Ancora pochi anni fa gran parte degli ambientalisti si manteneva gelosamente chiusa in una sorta di Arcadia lontana da ogni preoccupazione e occupazione politiche. Molti sono ancora lì, fedeli alla fatica di Sisifo della "sensibilizzazione" delle classi politiche.

Oggi è chiaro a tutti, invece, che dalla nebulosa verde è nato qualcosa di nuovo. Nelle diverse regioni del mondo gli ecologisti vanno costruendo da anni una nuova cultura. E' una corrente di pensiero non uniforme ma convergente su alcuni valori, che ribalta le tradizionali certezze in tema di sviluppo, di sicurezza, di benessere, di qualità della vita. Illich che rappresenta forse la punta più lucida.

Riteniamo che questa cultura non abbia ancora manifestato sino in fondo tutte le sue implicazioni. Essa però, nel suo variegato sviluppo, costituisce una radicale revisione dei valori su cui si fonda la società industriale e, insieme, delle ideologie rivoluzionarie che ne hanno agitato la storia.

Sul terreno politico le novità - poche, ma importanti - si sono manifestate per ora solo in Europa. In tempi diversi, ma in un ristretto numero di anni, sono arrivati all'impatto con le istituzioni prima i radicali italiani, poi gli ecologisti belgi e francesi, i radicali olandesi; i Grunen. Formazioni politiche alternative sono da anni operanti in quasi tutti i paesi.

L'emergere dei verdi e dei radicali ha seppellito in Europa il mito della rivoluzione violenta e la storia perdente delle "nuove" sinistre di derivazione marxista. E sulle loro ceneri i nuovi soggetti si sono affermati come antagonisti politici.

Sicché oggi ci troviamo a discutere - e a pochi sembrerà azzardato - se e come gli ecologisti possono dar vita a una alternativa. Significa che quel qualcosa che è nato o si sta affacciando è già serio; i dubbi riguardano se mai la sua capacità di durata e di sviluppo.

Come sempre, di fronte ad un fenomeno nuovo, molti tendono ad interpretarlo come moda o patologia, cioè come parentesi; altri come scoria prodotta dalla crisi del sistema politico; altri ancora come semplice stimolo o supporto a un ipotetico "aggiornamento" delle sinistre storiche.

Noi sosteniamo invece che gli ecologisti si muovono già nella direzione comune di una alternativa etica e culturale, quindi politica, all'attuale sistema di potere. Che questa discussione non possa essere considerata in partenza irragionevole è già un segno dei tempi.

Tramonto del nucleare e involuzioni della democrazia

Anni fa, in anticipo sui tempi, Amory Lovins paragonava l'energia nucleare a un brontosauro con la spina dorsale spezzata che continua ad agitarsi anche dopo morto. Gli anni recenti hanno dimostrato che il sogno del "tutto nucleare" è al tramonto in tutto il mondo, con l'eccezione dei Gulag del socialismo reale e della Francia di Mitterrand (che pure comincia ad avvertire i primi scricchiolii).

Ma il tramonto del nucleare è solo un sintomo della crisi che colpisce l'intero sistema economico e politico di cui doveva diventare la risorsa più appropriata. E' il nostro sistema di vita di popoli industrializzati che è alla fine, che deve finire. Spetta a noi affrettare questo processo, mentre prepariamo le alternative. Nascondere questo dato, giurando sull'intangibilità dei nostri modi di vita, significa mistificare o fare dell'ecologismo di maniera.

Non è questione di apocalisse prossima o ventura: giorno per giorno, ora per ora, sopravviviamo solo distruggendo le risorse naturali, producendo nelle aree periferiche violenza, miseria, ignoranza, guerra e l'uccisione diretta di milioni di persone per fame e malnutrizione. Da questo punto di vista, la catastrofe atomica sarebbe la sanzione finale e generalizzata di una politica di morte che già oggi si esplica pienamente. E' pensabile di combatterla senza intervenire oggi su questo meccanismo?

Il sistema di potere che regola il mondo industrializzato non si muove secondo linee razionali ed evolutive. Strattonato da logiche cieche appare ormai avvitato su se stesso e bloccato: lo stallo del terrore atomico ne è la spia più appariscente. Unica valvola di sfogo pare la riproduzione di elementi di crisi che sembravano obsoleti - pauperismo, guerre convenzionali - contestualmente allo sviluppo di tecnologie avanzate di dominio, soprattutto nell'informazione.

L'involuzione delle forze politiche e dei sistemi di governo è sotto gli occhi di tutti; persino nei regimi di democrazia parlamentare riesce ormai intollerabile il rispetto delle tradizionali regole del gioco.

Ancora più grave è l'eliminazione virtuale della regola del gioco fondamentale della democrazia - l'informazione libera - attraverso l'asservimento ai partiti di regime dei mezzi d'informazione di massa; mentre si predispongono già, con lo sviluppo dell'informatica hard, il controllo e l'omologazione planetaria dell'informazione e delle sue fonti.

Nelle relazioni internazionali - ad ovest e a sud - il nazionalismo e il militarismo si affermano ormai come l'unica ipotesi strategica per i prossimi decenni. Né è avvertibile alcuna seria reazione, se si eccettua la questione nucleare.

In una simile fase storica rimangono solo spazi insignificanti per i piccoli aggiustamenti o le opposizioni "ragionevoli" e marginali. E c'è un altro problema che gli ecologisti hanno da tempo cominciato a chiarire: se si cercano alleanze, non sarà tra le sinistre storiche che potranno essere trovate.

La fine del mito della sinistra riformatrice

Non è avvenuto per caso che le forze nuove siano state ai loro inizi attaccate più duramente dalle sinistre e contro di esse abbiano dovuto rivolgere in primo luogo la polemica. Non è per caso che, nel contesto generale che abbiamo tratteggiato, manchi qualsiasi accenno a un'alternativa riferita alle sinistre storiche. Uno dei dati che segnano in modo più negativo questo contesto è, infatti, l'identità culture delle varie componenti - di sinistra, di centro o di destra - delle classi politiche tradizionali. Chi riuscirebbe, in relazione ai problemi centrali della nostra epoca, a distinguere in modo convincente tra destra e sinistra? Non è solo questione di inadeguatezze o ritardi, ma di corresponsabilità diretta con i valori e gli interessi che sono all'origine della crisi attuale.

Quando un partito storico della sinistra parla di "nuovo modello di sviluppo" e (ammesso che riesca a precisarlo) non si capisce in che cosa il nuovo differisca dal vecchio, non è certo per errore o per difetto di "linea", né per incapacità soggettiva dei suoi dirigenti. Questo partito non può non difendere e tentare di perpetuare l'assetto attuale per il motivo che ne è parte, è dentro i suoi profitti e la sua cultura, dentro l'attuale modo di vita. Ed è lontano invece, come il centro o la destra, dalla gente e dai suoi problemi.

Di più: sono le sinistre a presentarsi oggi come le forze portanti delle politiche produttivistiche. Le riprove possono essere trovate un po' dappertutto, nella Francia socialista, nella Svezia socialdemocratica, nella Germania federale di Schmidt e Vogel, nella stessa Italia. I dubbi possono essere spiegati solo con la nostalgia.

In verità, il socialismo reale si è ormai pienamente manifestato non soltanto nei regimi dell'Est, ma anche nella storia e nella politica dei partiti comunisti e socialisti non al potere. Nessun elemento importante della teoria e della prassi di questi partiti è in grado di aprire oggi una prospettiva credibile; quel che più ha resistito è stato, forse, paradossalmente, il mito della presa del potere da essi messo in soffitta da decenni ma che continua a riformarsi in una diffusa sottocultura "rossa". E, assieme ad esso, l'ideologia della violenza.

I partiti sono "controproduttivi"

Le stesse forme-partito da essi assunte sono ostacoli al mutamento. Si tratta infatti di macchine che da decenni girano in senso inverso agli obiettivi ufficialmente dichiarati. Illich parlerebbe di controproduttività: in realtà funzionano bene, come burocrazie addestrate a raccogliere un consenso mistificato in difesa dell'esistente, incapaci persino di immaginare scenari di liberazione. E arcaiche, soprattutto arcaiche: s'è fatto molto rumore in Italia pochi anni fa quando, in un congresso del Pci, a più di mezzo secolo dalla fondazione, è stato approvato... un emendamento al documento preparato dal vertice.

Ma anche la democrazia interna, per i comunisti, è un "nuovo bisogno"...

Questa teoria dei "nuovi bisogni", elaborata a sinistra per i momenti di recupero, finisce con il camuffare come "ritardi" o "incomprensioni" le resistenze della sinistra stessa a istanze antagoniste alla propria politica. Da quando la vita e la sua qualità sono un bisogno nuovo? O lo è il malessere per l'urbanizzazione selvaggia o per il saccheggio dell'ambiente? E' un nuovo bisogno la liberazione della donna da una oppressione secolare? Sono nuovi i problemi degli omosessuali e della libertà sessuale, o degli emarginati, o lo stesso rapporto alienato dell'operaio con il proprio corpo?

Questi bisogni sono nuovi perché, nel migliore dei casi, la cultura di derivazione marxista se ne accorge solo adesso. Sono nuovi perché le sinistre, partecipi della stessa cultura delle classi dominanti, hanno sempre attuato politiche nemiche di questi bisogni.

Finora non sono state capaci neanche di discuterne seriamente. Come quando dicono che siamo - o che non dobbiamo essere - contro "la tecnica", "la macchina", "la scienza". Basterebbe che adoperassero il plurale per rendere possibile una discussione reale su quali tecniche, macchine, scienze; quali e perché.

Con queste sinistre, non ci si scontra solo sull'ecologia, ma su tutto, a cominciare dalle libertà.

In Francia - ha scritto Brice Lalonde - "di tutti i cambiamenti necessari, la vittoria della sinistra ha contribuito al più importante: la fine del mito della sinistra (...). La grande alternativa appare oggi una banale peripezia che agita il personale politico più di quanto non tocchi la vita dei cittadini".

Tramontato il mito della sinistra riformatrice, rimane di fronte a noi il fronte unito dei partiti tradizionali, con le costrizioni che esercita sulla vita della gente, con i grandi interessi che aggrega, con il controllo che esercita sull'informazione, e quindi sui meccanismi di formazione dei convincimenti e delle scelte dei singoli. Di fronte a queste oligarchie assolute, l'affermazione di un'alternativa libertaria richiede uno stacco netto di cultura, di civiltà, di politica.

Percorsi diversi e valori comuni

Nel valutare le possibilità di un'alternativa, la prima constatazione riguarda l'enorme sproporzione tra l'obiettivo e le nuove formazioni politiche che si sono manifestate. Questa contraddizione non è destinata a sparire facilmente, ma non chiude di per sé alcuna prospettiva.

Sia pure con punti di partenza e con itinerari diversi, verdi e radicali rappresentano oggi in Europa le due principali correnti alternative. La loro contiguità non è casuale né si esaurisce, in negativo, nell'antagonismo ai sistemi politici in cui operano. C'è infatti una concordanza di valori, più manifesti nei radicali, impliciti ma non meno presenti tra i verdi.

L'ecologismo rappresenta il punto di sintesi e di espressione politica di una miriade straordinaria di sensibilità e interessi diversi che spaziano dal particolare all'universale, dallo zero all'infinito. La sintesi è resa possibile dalla pratica di un valore comune, la nonviolenza. E' la nonviolenza che dà significato e valenza "politica" all'atto apparentemente gratuito in difesa dei cani abbandonati o della specie animale in estinzione, e lo equipara all'istanza generale di protezione della natura.

E' questo valore (possiamo intenderlo anche come rifiuto del micronazismo sommerso che è tanta parte del nostro quotidiano) che consente l'unità culturale e politica tra la difesa dei cani o delle baby-foche e la lotta, ad esempio, per un diverso uso delle risorse del pianeta o per il controllo delle tecnologie. In questo ci si riconosce.

Baby foche e antinucleare

In questo contesto tutto è centrale e nulla è irrilevante, la baby-foca come l'antinucleare. La radice comune infatti è la negazione globale della cultura e della tradizione della violenza, sugli uomini come sulla natura. La distanza dalla sinistra storica è abissale; è appropriato citare piuttosto San Francesco.

Accanto alla nonviolenza, intrinsecamente legati ad essa, si pongono i valori delle libertà, dei diritti civili, del federalismo, dell'autogestione. In una parola, la carica antistatalista e libertaria dei nuovi movimenti che li estranea dalla tradizione autoritaria della sinistra, sia essa rivoluzionaria o socialdemocratica. Non è neanche concepibile una politica ecologista senza il massimo di decentralizzazione, di autogoverno, di libertà.

L'attenzione centrale per l'uso delle risorse e il controllo delle tecnologie qualifica in positivo il rifiuto del determinismo evoluzionistico, della neutralità della scienza, della politica indifferente alla vita.

Quel che caratterizza dunque i nuovi movimenti è porre al primo posto il rispetto della vita e della sua qualità, il nesso profondo tra obiettivi e metodi, tra il generale e il particolare, tra l'oggi e la prospettiva. E' questa radice comune che dà valore alle profonde diversità esistenti al loro interno e che, per esempio, impedisce all'ecologismo di trasformarsi, per dirla con Gorz, in "ecofascismo". Non tutto però, nella pratica, è così chiaro e così semplice.

Il nucleare o la candela?

La superideologia produttivistica, che ha sostituito le vecchie ideologie di destra e di sinistra, pesa spesso inconsapevolmente anche sui nuovi movimenti. Ad esempio, correnti non marginali del movimento antinucleare credono ancora di poter proporre un modello "diverso" di sviluppo che, senza il nucleare, mantenga più o meno inalterati gli attuali stili e livelli di vita.

A tutti noi è accaduto di scandalizzarci quando gli avversari ci attaccavano con slogan tipo "Il nucleare o la candela". Eppure in questo slogan c'è una corretta intuizione dello scontro di valori in atto: perché non riconoscere che, se questa fosse l'alternativa, una società basata sulla candela o su tecnologie solari leggere è preferibile sempre a una società nuclearizzata?

Il che non significa ovviamente che dobbiamo rinunciare a usare gli strumenti della critica economica o scientifica, ma solo che mascherare la nostra diversità e il nostro antagonismo con il perbenismo e l'opportunismo dei politici tradizionali non è pagante. Potremmo fare, al massimo, gli oppositori di sua maestà: come vogliono i nostri avversari quando, sempre nella controversia nucleare, ci apprezzano come fattori di miglioramento dei criteri di sicurezza, riducendoci a voci aggiuntive del costo di costruzione delle centrali...

Se non entriamo nella politica per farci cambiare, ma per cambiarla, dobbiamo affermare con maggior chiarezza che il sistema e il livello di vita dei paesi industrializzati devono trasformarsi radicalmente. Non promettiamo infatti più cose, ma una vita qualitativamente diversa e più felice; e, prima ancora, il diritto stesso alla vita.

Di qui si dipartono due sentieri. Il primo è quello antimilitarista: non tanto però, l'antimilitarismo delle grandi manifestazioni antiatomiche, menomate fra l'altro dell'assenza di uno dei due blocchi. Ma soprattutto la lotta contro tutti gli eserciti, reazionari o rivoluzionari, dell'Ovest e dell'Est, del Nord e del Sud; la lotta contro le aggregazioni d'interessi industriali-militari, per la riconversione a scopi di pace delle risorse finanziarie e tecniche oggi assorbite dal militare. La priorità accordata al pericolo atomico ha favorito, nei movimenti per la pace, una certa disattenzione ai problemi di una politica più comprensiva e coerente contro il militarismo, le strutture di morte convenzionali, i bilanci militari degli Stati. Per rimanere nel campo ambientale, la catastrofe ecologica provocata nel Golfo Persico dai bombardamenti irakeni ai pozzi petroliferi dell'Iran non può essere ritenuta un fatto secondario (a parte che, nel movimento per la pace, almeno in Italia, c'è spesso indifferenza o add

irittura favore per l'uso civile dell'energia nucleare; e si subisce l'egemonia di partiti, come il Pci, che in Parlamento lasciano passare regolarmente i bilanci militari).

La lotta contro lo stermino per fame

Il secondo sentiero è quello che porta alla contraddizione primaria del mondo di oggi: la morte per fame e malnutrizione di milioni di donne e uomini del Terzo Mondo, assassinati dal sistema di vita e di dominio dei paesi industrializzati dell'Ovest e dell'Est.

Tra gli stessi responsabili della politica ufficiale si sono già levati gridi di allarme per questo problema che rappresenta un'autentica mina per lo stesso mondo industrializzato: basta citare il Rapporto Carter, il Rapporto Brandt, gli innumerevoli documenti delle organizzazioni internazionali. Non c'è aspetto del problema che non sia stato sviscerato, non c'è soluzione tecnica che non sia stata proposta o simulata; si è quantificato persino il fabbisogno finanziario per risolvere, in astratto, il problema. Neanche una vita è stata salvata: ci si attende infatti che, in un futuro indefinito, il problema venga superato dallo sviluppo dell'economia e delle tecnologie. Nel frattempo, i paesi industrializzati mantengono il loro dominio e i loro livelli di vita uccidendo per fame, ogni giorno, decine di migliaia di persone nelle periferie sottosviluppate del Pianeta. Tutti noi partecipiamo, dice René Dumont, a questo assassinio. Chi parla di moralismo, deve avere un ben strano concetto della politica.

Non è con queste convinzioni che si potrà costruire una civiltà nuova, umanistica e quindi rispettosa della natura. Nessuna alternativa può essere fondata su una cultura omologa a quella del potere che, in nome magari di un domani ecologico, dichiari l'insignificanza dello sterminio di uomini e donne.

Nulla abbiamo a spartire con la cultura idealistica del Grande Progetto e della Rivoluzione, che in diverse forme accomuna la storia del produttivismo capitalistico e del socialismo reale. Eppure, la nostra pretesa di alternativa è ancora muta su questo punto: vede più la probabile catastrofe ecologica o atomica di domani che non la strage concreta che si consuma ogni giorno.

E' su questo punto invece che vengono al pettine i nodi della sinistra storica, come anche delle chiese e dei movimenti religiosi; è su questo punto che si misura la nostra capacità di svolta etica e politica, di antagonismo radicale; che può essere ricercata un'unità di valori anche con le correnti religiose (che costituiscono la componente verde ancora "sommersa").

Su questo punto infine si può convertire in positivo la lotta per la pace, che oggi appare tutta ancorata alla paura.

L'intollerabilità dello sterminio per fame, e quindi l'impegno politico per la sopravvivenza di milioni di persone, deve diventare una priorità della politica ecologista; e su questa priorità potremo giocare quella riconversione della vecchia politica su valori di vita che è condizione di un'alternativa credibile e desiderabile.

(Dalla relazione tenuta dalla Presidente degli Amici della Terra al convegno "Verdi di tutto il mondo" organizzato dall'Associazione nell'aprile 1983 a Roma.)

 
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