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Melega Gianluigi - 25 marzo 1984
UNO SCHEMA CHE NON CONVINCE
La svolta dell'"Espresso"

di Gianluigi Melega

SOMMARIO: Commentando la sostituzione di Zanetti con Valentini alla direzione dell'Espresso, Melega afferma che giudicare quanto è avvenuto a "L'Espresso" in termini di cambiamento di linea politica, parlare di Valentini come di un direttore "usa-e-butta", della proprietà come un tutto unico, è uno schematismo, a mio avviso, insufficiente. Soprattutto se si tiene conto, che in ultima analisi, un giornale è stato fatto è sarà fatto soprattutto da chi ci scrive, e i redattori dell'"Espresso" questo lo sanno.

(NOTIZIE RADICALI N. 67, 25 marzo 1984)

"L'Espresso" ha significato per anni una categoria del pensiero. Comprare "L'Espresso", essere lettori di quel settimanale significava automaticamente essere progressisti in un'Italia ancora arretrata, essere borghesi illuminati in un paese di borghesi incolti, essere di sinistra in un paese governato dal centro-destra.

Quell'"Espresso" da alcuni anni non esiste più. Le tematiche, le denunce, le terapie possono sembrare identiche, ma gli uomini che dovevano incarnarle sono andati al potere e non hanno fatto meglio dei predecessori. Guido Carli, Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini, Massimo Severo Giannini sono entrati in Parlamento o nel governo, e non si è vista nessuna differenza. Anzi. I comunisti con Asor Rosa, Rodotà, Cacciari, Colajanni, eccetera, hanno lavorato a fianco dei partiti di governo, hanno votato con le maggioranze di centro-sinistra leggi come le speciali Cossiga o il raddoppio del finanziamento pubblico, o le modifiche liberticide del regolamento della Camera, o hanno cogestito per anni disastri come la Rai. "L'Espresso" s'è trovato a non rappresentare più una speranza di alternativa, ma alternativa fallita.

Questo, a mio parere, il nocciolo della crisi del giornale: che non è una crisi economica, ma di identità. Ad essa va aggiunta una mutazione genetica di mercato, dove i quotidiani, a partire da "Repubblica", rastrellano temi, giornalisti e lettori come se fossero settimanali che escono ogni giorno.

La sostituzione di Livio Zanetti alla direzione, dopo 14 anni, ha queste motivazioni. Chi sa qual usura di energie fisiche e psichiche rappresenti la direzione di un giornale come "L'Espresso" non può non meravigliarsi che ciò non sia addirittura avvenuto prima è come se qualcuno pretendesse che un atleta continui a correre per anni, con le stesse prestazioni, mentre la pista gli si trasforma in peggio sotto i piedi. Non averlo fatto prima, in verità e non paradossalmente, è stato un torto usato a Zanetti.

Lavoro dal 1978 nei settimanali. L'editore dell'"Espresso" non ha mai tentato di interferire su quanto pubblicato dal giornale, che è stato elaborato collettivamente dal direttore e dai redattori. Anche l'editore è una entità collettiva in cui emergono tre azionisti maggiori: Caracciolo (34%), Scalfari (15%), De Benedetti (10%).

L'interesse preminente di questi azionisti è che "L'Espresso" guadagni. L'interesse preminente del nuovo direttore, Giovanni Valentini, è che il giornale abbia un successo di vendite accoppiato a una tenuta o riconquista di prestigio.

Sarebbe sciocco pensare che la strada per arrivare a questi due obiettivi sia quella di appiattire "L'Espresso" sulla linea politica di "Repubblica": le persone citate non sono degli sciocchi e non vogliono perdere denaro, così come Valentini non vuol perdere la sua personale scommessa. A mio avviso, "L'Espresso" ha tante più chances di riemergere clamorosamente, quanto più farà proprie le tematiche e posizioni politiche di speranza alternativa (non ancora sconfitta) per la realtà italiana.

Valentini è giovane, giustamente ambizioso e tecnicamente capace. Lo stimavo prima (tanto che quando fui direttore dell'"Europeo" lo scelsi come capo della redazione romana) e continuo a stimarlo anche perché, quando mi succedette all'"Europeo", si comportò con me molto correttamente. Il futuro è sulla ginocchia di Giove per tutti: ma se dovessi scommettere, punterei su un successo per Valentini e per il giornale.

Giudicare quanto è avvenuto a "L'Espresso" in termini di cambiamento di linea politica, parlare di Valentini come di un direttore "usa-e-butta", della proprietà come un tutto unico, è uno schematismo, a mio avviso, insufficiente. Soprattutto se si tiene conto, che in ultima analisi, un giornale è stato fatto è sarà fatto soprattutto da chi ci scrive, e i redattori dell'"Espresso" questo lo sanno.

Qui entra in gioco il problema della responsabilità dei redattori: purtroppo non c'è abbastanza spazio per parlarne.

 
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