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Panebianco Angelo - 14 aprile 1984
DIBATTITO CONGRESSUALE: ANGELO PANEBIANCO

SOMMARIO: Intervenendo nel dibattito precongressuale (XXX Congresso del Pr - Roma - 31 ottobre/4 novembre 1984) Angelo Panebianco afferma che Il mancato raggiungimento nel 1984, nonostante gli eccezionali risultati ottenuti, dell'obiettivo politico prefissato (3 milioni di vivi) potrebbe dare luogo, per contraccolpo, ad una sorta di ripiegamento, di perdita di tono e di tensione. Il problema dei radicali è quello di individuare, come già tante volte si è saputo fare in passato, i gangli vitali attraverso cui il regime dei partiti produce e riproduce la sua egemonia politica e culturale sulla società italiana, e su quelli tornare ad attaccarlo: giustizia, antimilitarismo, informazione, malgoverno amministrativo

(NOTIZIE RADICALI N. 69, 14 aprile 1984)

E' facilmente identificabile una costante, o una regolarità, nel modo in cui i radicali vengono considerati dai loro avversari (gli avversari intelligenti ovviamente; il parere degli imbecilli pesa, e come, in politica ma non fa testo in questa sede): da un lato, la fedeltà dei radicali agli ideali democratici non è stata mai messa in dubbio; dall'altro lato, si sottolinea spesso, se non sempre, il carattere "eversivo" delle iniziative e delle scelte radicali.

Spesso, se non sempre, gli avversari, e talora anche gli osservatori più simpatetici, hanno ritenuto questo contrasto fra un indiscutibile ancoraggio ai principii e al metodo della democrazia politica e il carattere "eversivo-destabilizzante" dell'azione radicale (ad esempio, la campagna per lo sciopero del voto) come una contraddizione, anzi la principale contraddizione del Partito radicale.

I radicali sanno bene, ovviamente, e si sforzano in continuazione di spiegare, che la supposta contraddizione tale non è, che il carattere "destabilizzante" della politica radicale dipende da un giudizio sulla natura del regime italiano e sulla sua distanza dalle regole della democrazia politica.

L'apparente contraddizione non si rivela più tale quando si considera che la politica "destabilizzante" dei radicali nei confronti di un assetto politico che, a loro giudizio, umilia la democrazia e i principii dello Stato di diritto, viene da sempre condotta in nome di un progetto di "rivoluzione democratica". Se le parole hanno un senso, rivoluzione significa appunto rivoluzione. La rivoluzione democratica è la destabilizzazione, nonviolenta, di un regime "nondemocratico" (sul metro degli ideali della democrazia) o assai poco democratico (sul metro del confronto con altre democrazie occidentali) e la sua costituzione con una genuina democrazia.

Questo, non la rivendicazione di un pedigree o di nobili natali, è il senso del costante richiamo al pensiero e all'azione di altri "eversori" democratici, da Gobetti a Salvemini, a Rosselli. Questo è anche, credo, il senso vero del "patto sociale" che lega tra loro i radicali, il filo rosso che attraversa tutta la loro storia. Cose ovvie e note fra i radicali. Se ha senso di chiamarle, non in un convegno teorico, ma in un dibattito precongressuale, è perché quel carattere "eversivo", genuinamente antiregime, su cui si fonda il patto radicale, quali che siano le molte e possibili scelte congressuali, non deve, in nessun caso, né perdersi né diluirsi.

Il mancato raggiungimento nel 1984, nonostante gli eccezionali risultati ottenuti, dell'obiettivo politico prefissato (3 milioni di vivi) potrebbe dare luogo infatti, per contraccolpo, ad una sorta di ripiegamento, di perdita di tono e di tensione.

Le difficoltà e il ripensamento che il mancato raggiungimento dell'obiettivo porta inevitabilmente con sé, potrebbero aprire la strada a soluzioni apparentemente facili. Ad esempio, all'idea di un rilancio che passi, semplicemente, per la riattivazione di tutte le battaglie che i radicali hanno combattuto nel ventennio passato; ossia l'idea che basti agitare una serie più o meno numerosa di bandiere antipartitocratiche, che basti raccogliere le mille domande che la partitocrazia non può e non sa soddisfare, per mantenere o recuperare una centralità politica.

Per questa via invece, temo si avrebbero due risultati, entrambi negativi: il Pr riuscirebbe forse ad ottenere qualche spazio in più sui mass-media (peraltro in concorrenza con l'Arci, con Dp e non so chi altri ancora) ma senza alcuna capacità reale di stabilire rapporti di forza se favorevoli nei confronti del regime. Soprattutto, il Pr perderebbe il suo "baricentro politico", quello che ne ha fatto in passato, e può tornare a farne oggi, il destabilizzatore del regime in nome della rivoluzione democratica. Acquisterebbe forse la capacità di difendere molte, magari sacrosante rivendicazioni ma perderebbe, o non recupererebbe, la capacità do concentrare le forze sui punti deboli del regime.

Il problema dei radicali, a mio giudizio, è un altro. Il problema dei radicali è quello di individuare, come già tante volte si è saputo fare in passato, i gangli vitali attraverso cui il regime dei partiti produce e riproduce la sua egemonia politica e culturale sulla società italiana, e su quelli tornare ad attaccarlo.

Per venire al concreto credo che i radicali dovrebbero uscire, dal prossimo congresso, con due risultati:

1) la riconferma della battaglia sulla fame nel mondo come battaglia prioritaria. In essa i radicali continuano ad individuare l'asse portante di una possibile risposta alla crisi epocale, di civiltà, che segna il rapporto dell'Occidente con il resto del mondo, e con se stesso.

2) l'individuazione di un'area, molto selezionata, di problemi su cui è possibile costruire un nuovo ciclo di lotte antiregime.

Su questo fronte si tratta di capire quali sono i "gangli vitali" del rapporto regime-società e attraverso quali grimaldelli è possibile incidere su di essi. Ciascuno ha in tasca, ovviamente, il suo personale elenco. Dal mio punto di vista sono quattro i principali terreni su cui occorrerebbe dare nuovo slancio alla battaglia radicale. Si tratta di quattro "macroproblemi" su cui in larga misura si giocano partite cruciali per il regime, per i suoi rapporti interni, per le egemonie che le sue diverse componenti istituiscono nei confronti della società italiana. Sono i temi della giustizia, della questione militare, dell'informazione, del malgoverno amministrativo.

"Giustizia". Dalle battaglie sui codici, a quelle sulle carceri, a quella sulla carcerazione preventiva (candidature Negri e Tortora) è ovviamente un tradizionale terreno di lotta radicale. Credo però che occorrerà individuare nuovi settori di confronto, e leve adeguate, per contrastare le politiche di regime. Nel settore della giustizia, infatti, c'è stato un vero e proprio salto di qualità negli ultimi anni. Le lotte di regime condotte a colpi di mandati di cattura e di ordini di comparizione segnalano due fenomeni:

a) una parziale autonomizzazione di alcuni settori della magistratura che fanno ormai politica "in proprio", avendo acquistato un ruolo "arbitrale" nella gestione del sistema politico (ad esempio, nella gestione degli Enti locali);

b) la saldatura fra diversi segmenti degli apparati giudiziari fra loro in competizione, con le diverse forze del regime (il Pci in testa). L'uno e l'altro fenomeno contribuiscono a distruggere, dalle fondamenta quel poco di Stato di diritto che si era conservato in questo Paese. Non so se una nuova proposta di referendum sui codici di procedura o su altri aspetti (ad esempio, la figura e i poteri del Pubblico Ministero) possa essere una risposta adeguata. Certo è che le trasformazioni in questo cruciale settore richiedono proposte e campagne politiche d'altezza della drammaticità del problema.

"Questione militare". Ci sono almeno due ragioni per rilanciare con forza l'antimilitarismo radicale. In primo luogo perché è stato il "pacifismo" una delle grandi strade attraverso cui è avvenuto, negli ultimi anni, il parziale recupero del partito di massa. Attraverso il "pacifismo" il Pci soprattutto ha riagganciato alla sua iniziativa (e quindi ricondotto alle logiche di regime) tutta una serie di gruppi, in specie giovanili, indisponibili alla cooptazione attraverso i tradizionali canali di partito di massa (sezioni di partito, organizzazioni giovanili collaterali, ecc.). Il rilancio dell'antimilitarismo radicale può e deve contribuire a mettere in crisi lo pseudopacifismo del "Movimento per la pace".

La seconda ragione è che stanno avvenendo cambiamenti importanti nella conformazione del regime. In passato, se si esclude il caso molto particolare dell'obiezione di coscienza, i radicali non erano riusciti, nonostante ricorrenti sforzi, a dare vero slancio alla battaglia antimilitarista. La ragione era che mancava, di fatto, l'avversario, il "partito militare". Oggi il partito militare esiste (Libano, Suez, ecc.), cerca spazio, alleanze, interlocutori, all'interno del regime dei partiti. Che sia il problema del commercio delle armi, o dei nuovi costosissimi sistemi d'arma in corso di adozione nelle forze armate italiane, questo è un altro terreno cruciale su cui occorre contrastare le logiche di regime.

"Informazione". Proprio perché qui si giocano partite più importanti per le egemonie di regime presenti e future credo che sia arrivato il momento di abbandonare quella strategia prevalentemente "difensiva" che troppo spesso i radicali hanno adottato in passato. Lamentarsi per le censure non è più sufficiente. Oltre a tutto, è contraddittorio: un regime che sia davvero tale non può che censurare una forza antiregime e, dal suo punto di vista, fa benissimo a farlo. Soprattutto, una strategia puramente difensiva mette capo all'idea (sbagliata) che tutto ciò che basta è un po' di spazio televisivo in più e un po' d'informazione meno scorretta. Una strategia difensiva finisce per diffondere la sensazione che il terreno dell'informazione sia "l'unico" su cui giocano le partite dell'egemonia politica (con il corollario che una manciata d'informazioni corrette sia sufficiente, quanto meno, a far vacillare quelle egemonie).

Il problema dell'informazione va invece riportato alle sue giuste proporzioni. Non solo non è unico, ma non è neppure il "principale" terreno su cui si costruiscono le egemonie politiche: da sola l'informazione (e la manipolazione) televisiva non produce effetti di sorta, né in un senso né nell'altro (come ricordava un compagno in Consiglio federale, la Dc perde il divorzio nonostante Bernabei).

Per produrre effetti l'informazione (e la manipolazione) televisiva, e degli altri media, deve essere sostenuta e rafforzata da reti a maglie strette, da legami fra il regime e le società che passano attraverso "altri" canali: apparati di Stato, Enti locali, strutture di partito, socializzazione scolastica, ecc.

Riportare il problema dell'informazione alle sue giuste proporzioni significa fare il primo passo per darsi una politica dell'informazione offensiva, e non difensiva. Una politica che sappia, di volta in volta, individuare le campagne appropriate da condurre contro i monopoli, pubblici e privati, in nome di una vera, e non fittizia, logica di mercato concorrenziale delle informazioni.

"Il malgoverno amministrativo". E' certamente il terreno più difficile per i radicali perché non è qui che si sono fino ad oggi sviluppate le loro campagne politiche di maggiore incisività e successo. Richiede analisi ed approfondimenti accurati. Investe il modo in cui gli "interessi", a tutti i livelli, vengono amministrati dalle forze di regime. La battaglia sui minimi pensionistici è stata un primo, timido tentativo di muoversi su questo terreno. Ma anche altri aspetti del malgoverno amministrativo possono esseri messi a fuoco ed affrontati. La denuncia del funzionamento delle Usl merita, se non richiede, di essere tradotta in una campagna politica contro le Usl. Più in generale, la istituzione degli Enti locali richiede la messa a punto di una politica, non solo di denuncia, ma di attacco. Attraverso gli Enti locali e la gestione degli interessi che di lì passa, i partiti di regime hanno attuato il grande recupero delle loro capacità egemoniche sulla società italiana. L'intervento che si risolva in una p

resentazione, più o meno indiscriminata, o più o meno selezionata, di liste elettorali non mi pare però produttivo. Se è infatti "attraverso" gli Enti locali che si attua la gestione degli interessi e si sostengono le egemonie politiche e culturali, non è "entro" gli Enti locali, per lo più che questi processi possono essere combattuti. Si tratta invece di cercare con attenzione i punti deboli del rapporto centro-periferia (il rapporto che lega, attraverso l'Amministrazione centrale e i canali di partito, governo e Parlamento alle politiche delle Regioni, delle Province e dei Comuni), e su questi punti deboli tentare di costruire un'azione antiregime.

Su questi temi, soprattutto, mi piacerebbe che il congresso radicale dibattesse e cominciasse ad impostare un nuovo ciclo di lotte antiregime. Sviluppandole e sommandole alle altre iniziative già in corso (proposta delle liste verdi, lega antiproibizionista) è possibile forse infliggere al regime colpi seri e ben assestati. E' peraltro ovvio che attrezzarsi di nuove capacità politiche (e di nuove politiche) significa anche fare i conti con il problema del partito, della sua, forse necessaria, rifondazione.

 
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