di Francesco RutelliSOMMARIO: Nella concezione radicale nonviolenza e democrazia camminano insieme; nonviolenza e diritto sono forma e sostanza della democrazia. La diffusione della nonviolenza nella pratica non solo politica, si accompagna in Italia al fenomeno contrario per cui l'assenza di legalità rende dificile la pratica nonviolenta. Tuttavia va sottolineato che nonviolenza non vuol dire soltanto digiuno ma è invece una teoria e una prassi politica che è in grado di coagulare o indirizzare un conflitto. La tesi del digiuno trova la sua giustificazione nella necessità a volte di porre in causa tutta la nostra vita per salvaguardare un interesse di pari valore. Va però detto che diversi sono i tipi di digiuno, come pratica nonviolenta, a seconda dell'obiettivo che si intende raggiungere. E' consolante la diffusione consapevole della pratica nonviolenta in molte parti del mondo in questi ultimi anni. In un momemto in cui si registra una profonda crisi ideologica e politica nella parte occidentale del che mondo porta ad una a
ccentuazione di processi rivoluzionari tradizionali, assistiamo , per es, in Polonia, all'azione nonviolenta di Solidarnosc che ha intelligentemente impedito il contraccolpo tragico del colpo di stato di Jaruzelskj.
(NOTIZIE RADICALI N. 71, 30 aprile 1984)
(Nella concezione radicale nonviolenza e democrazia camminano insieme. Il "Preambolo" allo Statuto offre una vera e propria definizione della nonviolenza politica come forma e sostanza della democrazia. Da cosa nasce, dunque, la contrapposizione fra "radicaldemocrazia" e "radicalnonviolenza"? E' una forzatura o è una prospettiva che può essere posta in un partito senza Marco Pannella?)
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La storia del Partito radicale si è sviluppata attraverso una pratica democratica a tre dimensioni: quella istituzionale-rappresentativa, quella di democrazia diretta, quella nonviolenta e di disobbedienza civile. Nella concezione radicale nonviolenza e democrazia camminano insieme.
La contraddizione tra legalità e legittimità che viene attivata dalla disobbedienza civile (dal cittadino che si ribella alla legge ingiusta, consapevole di pagarne le conseguenze) non è data come avversaria della dinamica democratica ma come un suo elemento vitale.
Nel dibattito sulla "priorità" tra nonviolenza e democrazia (Bobbio, Pontara, tra gli altri), il Partito radicale ha posto una parola netta con il "Preambolo" allo statuto. Se i giudizi - non molti, per la verità - circa questo documento si sono appuntati sullo "scandalo" della riproposizione dell'"imperativo assoluto del non uccidere", collegato con la lotta per la vita di milioni di sterminandi per fame, ben poca attenzione è stata data alla vera e propria definizione della nonviolenza politica contenuta nell'introduzione al Preambolo stesso: "Il Partito radicale proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politici del Partito radicale, proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni, proclama il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge".
Nonviolenza e diritto, nella concezione radicale, sono così forma e sostanza della democrazia.
Radicaldemocrazia, radical-nonviolenza
Come si spiega, allora, la contrapposizione proposta da Pannella tra "radicaldemocrazia" e "radical-nonviolenza"? Letta attraverso la storia radicale, è una contraddizione in termini. Pannella ha adoperato quest'espressione presumibilmente per prospettare il rischio di un partito che "si assesta" nel regime, sia pure con una cultura e una collocazione originali, rinunciando alla sua specificità "rivoluzionaria", intesa come creazione di un'alternativa di valori, metodi, progetti.
Nell'età della proliferazione della violenza e del disordine, l'alternativa radicale è essenzialmente fondata sulla difesa e la promozione della vita e della pace. La sua singolarità è accentuata dalla piena compromissione - deliberata, o per omissione - delle correnti politiche e ideologiche dominanti con il processo di accrescimento della violenza e del disordine, mascherato da realpolitik o da "etica della responsabilità".
"Per ciò che si è espresso" in questi vent'anni di storia radicale, la divaricazione tra radicaldemocratici e radicalnonviolenti è una forzatura. La sola prospettiva in cui questa questione può essere posta è il Partito radicale "senza Marco Pannella". Ed è per questo che non si è finora trovato grande abbondanza di leaders "radicaldemocratici"...
La nonviolenza che si diffonde
La pratica nonviolenta si misura, in Italia, con una condizione contraddittoria. Per una verso va registrata una forte diffusione delle tecniche nonviolente, frutto della crisi delle metodologie tradizionali di azione politica (sia quelle rappresentative, sempre più consumate e burocratizzate, sia quelle legate a concezioni "rivoluzioniste" e violente) e certo anche dell'esempio dell'esperienza radicale.
Anche ad una lettura superficiale dei giornali, salta agli occhi la crescita delle azioni di digiuno: magari per ottenere una casa o contro la Usl o nel posto di lavoro (fino al paradosso, che però conferma la regola, dei boss che in carcere impongono uno sciopero della fame). Il ripudio di metodologie aggressive e violente e la pratica di occupazione, sit-in, digiuni sono evidenti nel mondo del lavoro ed hanno fatto breccia presso gruppi e movimenti di formazione recente o anche di estrazione comunista o addirittura leninista (i quali fino a pochi anni fa bollavano queste azioni come "manifestazioni di pacifismo borghese").
Per un altro verso, lo spappolamento delle istituzioni e l'accomodamento consociativo hanno determinato una situazione singolare: in Italia l'assenza di legalità rende difficile praticare la disobbedienza civile.
Facciamo un paio di esempi. In Germania, il movimento dei "Grünen" è sorto innanzitutto sul finire degli anni '70, attraverso comitati locali di cittadini ("Burgeninitiativen") avversari di singole scelte che comportavano degrado ambientale. Di qui, lo scontro tra le istituzioni centrali e locali, impegnate a far rispettare una decisione (la creazione di una diga, l'ampliamento di un aeroporto, l'installazione di una centrale) ed i militanti - molto spesso appoggiati da consistenti strati di opinione pubblica - che vi si opponevano per via politica, giudiziaria, ma anche per mezzo di azioni dirette nonviolente, occupazioni, processi, arresti.
Attraverso lotte di anni, si è formato un ceto politico alternativo che si è espresso prima su base locale e poi come un "cartello" a livello federale.
In Italia, quasi ovunque si producessero situazioni "sensibili" nel conflitto tra pubbliche istituzioni e aggregazioni di cittadini accomunati da un interesse specifico, è scattata la formidabile (e "convincente") mediazione delle forze politiche, o forme di accomodamento, o di corruzione. Ho personalmente sperimentato, nella lotta contro l'ampliamento del Poligono militare di Nettuno-Latina, come il leader locale della protesta sia stato al momento opportuno "comprato" dall'amministrazione militare.
E cosa dire dei processi?
E' sempre più raro che un radicale sia processato. Alla condanna o all'assoluzione - soprattutto se il processo comporta un rischio, in termini di coinvolgimento dell'opinione pubblica - viene solitamente preferito il rinvio. A meno che l'imputato non sia un individuo isolato.
Ma la nonviolenza non è solo il digiuno o lo sciopero della fame-sete
Diamo per acquisiti due punti di partenza: a) la nonviolenza non è mera negazione della violenza, né una serie di metodologie d'azione: nonviolenza è una teoria e una prassi politica; b) non è la nonviolenza in sé ad inventare o creare uno schieramento nel caso di un conflitto: l'azione politica nonviolenta può coagularlo o indirizzarlo.
Ribaditi questi termini, proviamo una panoramica dei metodi dell'azione nonviolenta.
A tutt'oggi, il tentativo più completo di classificazione resta quello di Gene Sharp ("The politics of Nonviolent Action", Boston 1973); nella sua opera, Sharp identifica circa 200 tipologie di azione nonviolenta, ripartite in: metodi della protesta e della persuasione nonviolenta; metodi della non-collaborazione sociale; metodi della non-collaborazione economica; metodi della non-collaborazione politica; metodi di intervento nonviolento.
Dalle azioni pubbliche di carattere simbolico allo sciopero del silenzio, dal boicottaggio di singole attività sociali allo sciopero dei consumatori, dalle varie forme di sciopero nel mondo della produzione al boicottaggio delle elezioni, dall'ostruzionismo amministrativo all'intera panoplia di iniziative dirette nonviolente (dall'ostruzione fisica alla paralisi di intere strutture tecnologiche), un'elencazione scolastica sarebbe molto meno efficace che ripercorrere mentalmente venti anni di azioni nonviolente radicali nelle piazze, nelle istituzioni, nell'uso dei mezzi di comunicazione.
Il tavolo di propaganda per il non pagamento del canone è un centro di iniziativa nonviolenta come lo è il tavolo di piazza Montecitorio in cui i deputati radicali servono piatti di saporita e fumante "ribollita" ai membri del nuovo governo-fotocopia del precedente. Nella mentalità e nella pratica politica dei militanti del Partito radicale, queste azioni "sono" la lotta politica, sono la strumentazione specifica dell'azione radicale. Se i giudici non scarcerano Naria, si avrà una dichiarazione-stampa, la visita di un parlamentare, il sit-in sotto l'ospedale delle Molinette, i telegrammi di sollecitazione ai magistrati e magari a Pertini, il digiuno a staffetta di numerose militanti, le manifestazioni in simultanea in venti città, il volantinaggio alla Cassazione, il tam-tam a Radio radicale con gli interventi, le interviste... Perché, allora, questa identificazione pressoché totale degli ultimi tempi: nonviolenza=digiuni?
Intanto, nella consapevolezza della restrizione dell'area di interesse pubblico per la politica, in molti radicali è scemata la "voglia" di concepire azioni dirette di cui non sia certa la capacità persuasiva: un po' di logoramento e di timore di ripetere il "già visto", un atteggiamento frequente di sfiducia verso i mass-media (non sempre del tutto motivata: ma fare un'azione per poche decine o centinaia di persone che vi assistono non è più utile, nell'epoca della frenesia delle immagini e degli stimoli, come lo era dieci anni fa; se un giornale non ne parla, il gioco non vale la candela).
Si tratta di un atteggiamento sbagliato: se proviamo ad interrogare persone che provano simpatia o attenzione per la politica radicale, constateremo che esse tengono a mente e vengono assai colpite da azioni singolari o di forte valore comunicativo: anziché degli spezzoni rapsodici, queste iniziative costituiscono spesso il vero connettivo dell'immagine e del messaggio radicale, se inquadrate in un'azione politica rigorosa e duratura.
La pratica politica nonviolenta è inoltre la migliore sede di formazione del ceto militante e dirigente del Partito radicale.
L'arma "estrema"
L'irruzione del digiuno - o, meglio dello sciopero ad oltranza "a cappuccini" e di quello assoluto - nella scena radicale è avvenuto attraverso la lenta trasformazione di una tesi straordinaria in una pratica ordinaria, se pur di "alto profitto".
La tesi era in sostanza: "giunge un momento, nella vita e nella lotta politica, in cui quanto esiste di più fondamentale e vitale viene messo in causa. In questo momento è legittimo, e talvolta necessario, porre in causa tutto se stessi per salvaguardare il supremo bene comune e lo stesso significato della lotta politica". Attuate in alcuni momenti cruciali della vita radicale e del paese, le più dure azioni nonviolente hanno consentito, ad esempio, nel 1974, di non disperdere il patrimonio della vittoria del referendum sul divorzio e di acquisire importanti riforme e risultati politici; in altre occasioni, hanno assicurato spazi di informazione e dibattito in campagne elettorali altrimenti falsate e compromesse consentendo esiti di grande valore non certo per il solo Partito radicale.
La dimensione del "qui ed ora", il carattere necessario di braccio di ferro degli scioperi della fame e della sete hanno trovato un'accelerazione formidabile negli ultimi anni, da quando cioè il Pr ha approvato il "Preambolo" allo statuto e fissata la priorità della lotta allo sterminio per fame. Marco Pannella, protagonista di questo indirizzo della politica del partito, ha fondato le sue scelte di dura azione nonviolenta individuale (seppure supportata in varie occasioni, con intensità diversa, da azioni anche significative di sostegno da parte del partito) su una convinzione: data l'analisi che facciamo del "regime partitocratico", visti gli obiettivi che ci proponiamo con la campagna per "milioni di vivi subito", la speranza di successo risiede in un'azione di sfondamento che colga impreparato lo schieramento avversario con i suoi interessi costituiti.
E' aperta, in queste settimane, la discussione sulle valutazioni da trarre su questa campagna e quella sulle prospettive, a partire dal prossimo anno.
Nel suo specifico, l'azione nonviolenta di Pannella non è pervenuta a nessuna delle secche alternative che si era dato programmaticamente: il successo, l'abbandono oppure la morte. Non a caso, lo stesso Pannella ha più volte risposto a chi lo criticava per i "troppi digiuni", che il problema degli ultimi tempi è stato piuttosto quello che i digiuni "non si sono fatti".
Che significa? Che, alla maniera irlandese, si trattava di andare sino alla consunzione fisica? Oppure, secondo un'altra sintesi, che si trattava di "rischiare la propria vita, piuttosto che la propria morte"?
Io credo che una lettura esatta del Preambolo, nel passato in cui fissa la priorità "della difesa della vita con la vita", vada fatta nella sua letteralità: "con la vita", con le opere della vita, cioè, e non consegnando la propria vita come costo di una sconfitta.
Certo: la consapevolezza che sono in causa valori ed obiettivi d'importanza altissima può indurmi a rischiare concretamente il blocco renale irreversibile e "comunque" ad accettare danni gravi o gravissimi per il mio organismo.
Questo ove "ne valga la pena"; dove cioè sia possibile favorire le condizioni per cambiare radicalmente le cose; nella fattispecie, per consentire ad esseri umani di vivere anziché essere sterminati.
Ma un'azione intrapresa senza forza contrattuale, a fronte di una sordità pregiudiziale della controparte, può costituire una vera e propria azione suicida.
All'origine delle interruzioni degli scioperi della fame e della sete di Marco Pannella (che vanno "letti", non si dimentichi, come una serie di attacchi nel corso di una stessa partita durata cinque anni) va certamente considerata la mancata rispondenza di interlocutori chiamati pubblicamente e direttamente ad un dialogo e a un confronto politico.
L'azione nonviolenta di Pannella e anche quella di centinaia e centinaia di altre persone (alcune individualmente, e non di rado con risultati importanti, le altre in maniera collettiva) hanno costituito la forma stessa dell'attività del Partito radicale degli ultimi anni; hanno marcato delle acquisizioni politiche, culturali (nel senso pieno di questa parola: vorrei quasi dire "genetiche") centrali e durature per la vicenda radicale e per l'individuazione da parte radicale di una politica nuova, di vita e di pace. Hanno fatto crescere la forza comunicativa del Partito radicale presso ambienti che prima ne respingevano il messaggio.
Non hanno però creato, da sole, la forza adeguata a vincere la battaglia, né avrebbero potuto; nelle forme estreme adottate da Pannella hanno sottratto forza, anziché fornirne di nuova, alla credibilità dello sciopero della fame e della sete anche perché non sono state veicolo di convinzione presso il ceto politico e di regime cui erano rivolte. Anche nelle apparizioni televisive, l'immagine del digiunatore non è bastata a trasmettere un messaggio positivo, nei casi in ci è apparsa come "l'arma in sé" a disposizione.
A chi contesta "l'uso in sé" del digiuno si può rispondere solo con un giudizio di merito: sul carattere e i risultati di una specifica iniziativa di digiuno. Non credo si possa infatti contestare che questa forma di lotta politica spesso è riuscita e può riuscire a creare riflessione, attenzione acuta, non solo certo per la sua dissonanza stilistica dalle forme tradizionali della politica.
"In conclusione". Il digiuno può essere una forma permanente di azione politica, come strumento e momento di aggregazione collettiva. Quelli che abbiamo definito "digiuni di dialogo", o anche gli scioperi della fame che siano progettati e condotti come nocciolo di un'iniziativa politica articolata e serrata, ma senza la prefissazione "ad oltranza" (altro è dire, ad esempio, "a tempo indeterminato") sono momenti qualificati e preziosi di una campagna politica, anche perché possono favorire confronti diretti con gli interlocutori, informazione di massa (ma non "sul digiuno", per favore, quanto sui suoi obiettivi; allo stesso modo di una marcia attraverso l'Italia: può interessare quanti chilometri si fanno e quante paia di scarpe si consumano, ma l'essenziale è trasmettere "il perché" la si fa, ed utilizzare lo strumento-marcia come veicolo di comunicazione e dialogo).
Lo sciopero della fame/sete ad oltranza "fino al raggiungimento dell'obiettivo" non può essere classificato in astratto: troppi fattori dipendono prioritariamente dalla persona che decide di intraprenderlo. E' certo comunque che la dimissione di un approccio così tassativo presenta dei costi reali.
Ricordo un'iniziativa dell'anno scorso: il "digiuno per la vita", intrapreso da un gruppo di pacifisti di varie nazioni per ottenere un gesto concreto in direzione del disarmo e di negazione dell'installazione degli euromissili. Ricordo una esplicita polemica dei promotori verso i "tenui digiuni radicali", ci essi contrapponevano un programma che qualcuno tra noi potrebbe definire "ultimativo". I risultati di quella iniziativa (una consistente eco sui mezzi di informazione e alcuni messaggi autorevoli di solidarietà) sarebbero stati assai positivi se li si fosse dovuti commisurare alle intenzioni annunciate alla partenza. Indubbiamente, ai requisiti "tradizionali" di una campagna nonviolenta oggi occorre poter aggiungere la dimensione di massa. Così si potrà tentare di battere gli anticorpi che il sistema politico e la struttura dell'informazione hanno sviluppato e con cui si tenta di neutralizzare l'opposizione e l'alternativa nonviolenta. Ma occorre anche riaprire il campo, con sistematicità e pazienza, al
la "fantasia quotidiana dell'armamentario nonviolento", a sua volta non formula magica, ma anticorpo efficace contro l'assuefazione di un numero crescente di cittadini al fatto che "la politica" è gestione dell'esistente, anziché creazione del possibile.
"Un appunto finale". La diffusione consapevole della pratica nonviolenta in molte parti del mondo è un fatto rilevante degli ultimi anni. Il rispetto o la creazione delle regole dello Stato di diritto sono il terreno su cui si esercita il conflitto.
E così come è vero che la campagna gandhiana di liberazione nazionale dell'India non si sarebbe sviluppata con la sua straordinaria peculiarità senza la controparte del regime britannico, allo stesso modo i margini di azione dei movimenti nonviolenti contemporanei possono essere misurati in relazione all'agibilità politica e democratica dei sistemi con cui si confrontano.
Iniziative durature di resistenza e per il rovesciamento di regime dittatoriali sono intraprese - particolarmente sulla spinta di forze cristiane e cattoliche - in America latina. Nel "primo mondo" (ma anche in aree del terzo mondo in cui il possibile mutamento di regime non è solo delegato a sovvertimenti da parte di élites militari o paramilitari, e dove è in atto un confronto tra forze di ispirazione democratica) si registra un processo di profonda crisi ideologica e politica della cultura e dell'organizzazione di processi rivoluzionari tradizionali, centrati sulla presa violenta del potere. Questi approcci non costituiscono più il cemento delle organizzazioni politiche "alternative" diffuse nel mondo giovanile; anche se una critica attenta si impone oggi sulla nascita di vaste aree "nonviolente" e di lotta per la qualità della vita che stanno eludendo il passaggio ad una cultura democratica.
Ovunque vi sia azione politica nonviolenta, sono in ogni caso attivate delle feconde contraddizioni. Con una eccezione: il sistema di potere dei paesi del comunismo "realizzato".
L'esperienza dell'ultimo decennio ci deve indurre ad un giudizio senza appello: ad Est l'organizzazione totalitaria dello Stato e della società ha vinto; è riuscita a spezzare le forme di resistenza di massa; è riuscita a marginalizzare i nuclei di resistenza più tenace (basti osservare le cifre dell'emigrazione degli ebrei sovietici: dai 51.000 del 1979 ai 1.300 dello scorso anno).
L'esperienza della "periferia" polacca costituisce una conferma, e non una contraddizione di questo giudizio sul potere sovietico: in poche ore, quasi senza colpo ferire, con il "golpe" di Jaruzelskj si è rovesciata e svuotata una forza apparentemente imbattibile, perché animata dalla schiacciante maggioranza "organizzata" del popolo polacco. L'azione nonviolenta di Solidarnosc ha intelligentemente impedito il contraccolpo tragico che si era vissuto a Budapest, Praga e nella stessa Polonia. Ma riesce a tener viva solo una forma di resistenza-contrattazione che il regime mostra di saper gestire con grande abilità. Il tutto, naturalmente, con la benedizione di "non ingerenza" dei guardiani occidentali di Yalta.