SOMMARIO: In questo dibattito sta passando in subordine quello che dovrebbe rappresentare il fulcro della vicenda radicale: quest'anno il PR è tornato ad essere un partito vincente. Ciò può dirsi per diverse battaglie: per la carcerazione preventiva, per il caso Sindona-P2-Andreotti, per i risultati elettorali, sotto certi aspetti per la stessa questione dello sterminio. Paradossalmente la crisi investe un partito vincente. "Sterminio, partitocrazia: non è un'unica lotta", si tratta di due battaglie che si svolgono su piani diversi e sono indipendenti l'una dall'altra: una è battaglia internazionale, l'altra è battaglia tipicamente italiana. La battaglia contro la partitocrazia è quella nella quale riceviamo i maggiori consensi, ma paradossalmente, quella sulla quale grava una penosa contraddizione: mancando una valida alternativa di sinistra con lo sfaldamento del fronte non abbiamo un prospettiva in positiva da indicare e cui riferirci. In questo consiste la nostra crisi che ci fa imbattere nel problema de
l partito e del suo rapporto con la società. Ma questa è in effetti la crisi della democrazia italiana che può essere superata solo colmando la frattura tra i due diversi modi di fare politica. Il mio suggerimento per colmare questa frattura è quello di rivilgersi verso la società e raccogliere le iniziative verso il Parlamento e le Istituzioni. Questo vorrebbe dire costruire il PR come luogo di organizzazione politica e federazione di quanti scoprono la necessità di una democrazia di diritto in Italia.
(NOTIZIE RADICALI N. 71, 30 aprile 1984)
Singolarmente, sta passando come in sott'ordine, in questo dibattito, proprio il dato forse più significativo e nuovo della vicenda radicale di quest'anno: che, cioè, per la prima volta dopo molto tempo il Pr è tornato ad essere un partito capace di vincere, un partito vincente. Vittorie parziali, certo, ma pur sempre clamorose: sulla carcerazione preventiva; col ruolo assunto nel caso Sindona-P2-Andreotti; in termini di risultati elettorali; e in parte, come ora dirò, sulla stessa questione dello sterminio. Cosicché se è vero che esistono dati di "crisi" radicale, lo sfondo però è questo: si tratta - nuovo paradosso radicale - della crisi di un partito vincente. E' dal significato e dalle implicazioni di queste vittorie che mi pare sia utile prendere le mosse; anche per individuare possibili vie d'uscita dalla crisi.
"La lotta contro lo sterminio". Gli avvenimenti di quest'anno hanno fornito la risposta all'interrogativo centrale del congresso di Rimini, se su quella battaglia dovessimo ormai registrare un fallimento definitivo, tale da imporre di abbandonarla. Bene: l'iniziativa "legge Piccoli" - condotta con duttilità e rigore straordinari da chi sfidava la propria convinzione che fallimento fosse - ha portato come non mai vicini alla vittoria, svelando che in realtà esistevano spazi e possibilità di lotta, frutto del lavoro degli anni precedenti, quali forse nessuno fra noi immaginava o osava sperare. Fallimento dunque non era. Non è diventata vittoria, purtroppo; lo sterminio continua. Ma anche definirla sconfitta mi parrebbe oggi, più che improprio, inaccettabile: non ci si dichiara sconfitti quando la battaglia è in corso. Questi infatti è il successo comunque conquistato, di portata enorme pur nella sua labilità e fragilità: sulla questione fame si è aperta, è ancora in corso, è possibile che riesploda in pieno un
a dura ed effettiva contesa tra le forze politiche maggiori. Ne discendono diverse conseguenze:
1) Mutati così tutti i termini della questione rispetto ad un anno fa, è non solo lecito ma doveroso riproporre l'obiettivo e il metodo dei milioni di vivi subito, per costringere comunque la partitocrazia a decidere, e per poter riprendere la lotta a partire dal risultato di quella decisione.
2) Dobbiamo prendere atto che non esiste una "necessaria" chiusura della partitocrazia in quanto tale, e una corrispettiva "necessaria" apertura da parte di un'ipotetica democrazia rispetto alla lotta contro lo sterminio. In effetti, ad oggi la partitocrazia italiana è l'unico sistema politico nella storia del mondo avanzato in cui, con tutti i limiti che conosciamo, pure la questione della fame sia diventata tema di effettivo confronto-scontro politico. Se ciò nulla toglie alle colpe e alle vergogne della partitocrazia, rimane il fatto che nessuna democrazia non partitocratica è mai giunta a tanto. Né è stato, se non parzialmente, in violazione delle "leggi" della partitocrazia che ciò è accaduto: nulla certo sarebbe successo senza la decisiva azione radicale, ma almeno una parte dei consensi è giunta e gli schieramenti si sono creati secondo dinamiche tutte interne alla logica partitocratica.
E' un fatto, naturalmente, anche che la maggioranza parlamentare profilatasi sulla legge Piccoli è stata minata dalle manovre partitocratico-lobbistiche. Ma non saremo di sicuro noi a stupirci che una maggioranza potenziale fatta non di partiti ma di singoli parlamentari risulti insufficiente: sappiamo che cosa sia e che cosa conti il Parlamento come tale. Lo si sa bene: per far passare una legge significativa oggi in Italia occorre, se non necessariamente l'unanimità (vedi la vicenda costo del lavoro), uno schieramento forte e fortemente determinato sul piano dei poteri reali, ben al di là dei numeri parlamentari. A questo finora non si è giunti, tuttavia, con un quadro politico in trasformazione come l'attuale, con la crisi dell'asse Andreotti-Pci che fin qui ci ha bloccati, è lecito escluderne a priori la possibilità, pur nella consapevolezza di quanto sia arduo e magari improbabile? Per questo la battaglia è sostanzialmente ancora aperta.
"Sterminio, partitocrazia: non è un'unica lotta". Se quanto ho detto è vero, ne risulta chiarito che altro è la lotta contro lo sterminio e altro quella contro la partitocrazia. Si tratta di battaglie che si svolgono su piani e in ambienti diversi: l'una è battaglia generale, mondiale, senza specificità nazionali; se la conduciamo soprattutto in Italia è perché in Italia ci troviamo. L'altra è propria e specifica della situazione italiana. Sono indipendenti l'una dall'altra: vincere lo sterminio non comporta di per sé una vittoria contro la partitocrazia, sconfiggere la partitocrazia non consente di per sé di fermare lo sterminio. Sono profondamente convinto, anzi, che il voler ricondurre a forza l'una battaglia all'altra, valutare l'una sul metro della sua efficacia ai fini dell'altra sia non solo fuorviante, ma estremamente pericoloso: chiediamoci quante volte proprio questa confusione abbia accentuato pessimismi, tensioni, irrigidimenti, e quanto dunque, provocando scoraggiamenti, incomprensioni e frustr
azioni, abbia contribuito a determinare la "crisi" radicale. Piani diversi, dunque, e - ritengo - un chiaro ordine di priorità in ragione della portata e del valore delle due lotte; ma entrambe poi, va da sé, necessarie e ineludibili per noi.
"La battaglia contro la partitocrazia". E' il terreno su cui, come è naturale, riceviamo i maggiori consensi; ma è anche quello sul quale registriamo le carenze più gravi. Certo, qui abbiamo raccolto successi clamorosi: con il modo di affrontare le scadenze elettorali, o grazie all'intelligenza, all'efficacia, al coraggio e al rigore con cui è stata condotta l'iniziativa sulla P2 e affini. Ma pesa, determinante, una contraddizione di fondo: venuta meno l'indicazione dell'alternativa di una sinistra unita come soluzione possibile per il problema italiano, non essendo oggi configurabile ovviamente un'alternativa di governo e di regime imperniata sul solo Pr, non abbiamo una prospettiva in positivo da indicare e cui riferirci, per dar respiro e sbocco e connotare di speranza le singole battaglie e gli stessi successi. La nostra denuncia della sempre più drammatica involuzione partitocratica si risolve così, in tanta parte, in un appello alle forze stesse della partitocrazia perché si arrestino su questa china.
Appello destinato a rimanere vano e paradossale, a meno che esso non nasca da uno schieramento operante nel paese, fuori e contro la partitocrazia, così vigoroso da imporre - col timore della sua forza - ripensamenti e nuove dislocazioni politiche.
E' possibile che qualcosa del genere si verifichi? In realtà, non può sfuggire a nessuno che anche decidere, come abbiamo fatto con il non-voto o con il codice di comportamento parlamentare, di estraniarci da un certo gioco politico-istituzionale ha senso solo in vista della creazione di un simile grande movimento organizzato alternativo, cui fornire una bandiera e un punto di riferimento. Ci si imbatte, così, nel problema del partito e del suo rapporto con la società: un partito labile, un partito-messaggio, che non sia anche il risultato di un effettivo "organizzarsi" di forze nella società, è evidentemente inadeguato allo scopo. E in effetti, lo constatiamo ogni giorno, anche le scelte appena ricordate del non-voto e del codice di comportamento, preziose nel marcare le differenze e le responsabilità di ognuno, sono lungi dal raggiungere i loro obiettivi nelle condizioni attuali del rapporto partito-società. L'aumento del non-voto, da solo, scuote forse, ma non smuove, i partiti; il rifiuto di collaborazio
ne radicale in Parlamento, da solo, non suscita reazioni, rimane ignoto o incomprensibile ai più, e insomma si riduce a mera testimonianza solitaria, non riesce a farsi momento di lotta politica.
Questa l'"impasse", questa la crisi del Partito radicale; e, insieme l'"impasse" e la crisi della democrazia di diritto in Italia. Crisi da cui non si esce se non si colma la frattura fra due diversi istanze e potenzialità, fra l'"indignazione radicale" da un lato e l'antipartitocrazia diffusa dall'altro. Istanze che non coincidono, anche se sono contigue. L'antipartitocrazia diffusa - quella delle "interviste per strada" - protesta contro i partiti "ladri", "corrotti", "tutti uguali"; ma non capisce che il nodo di tutto sta nella questione delle "regole del gioco". Non esiste, come moto diffuso e generalizzato, e nemmeno fra i ceti "colti", o "emergenti" o "politicizzati", indignazione e protesta contro la violazione delle regole, delle procedure, del diritto certo e uguale per tutti; che è invece la sostanza dell'indignazione e della denuncia radicali. Così, la convergenza fra le due indignazioni avviene, ma rimane occasionale, superficiale: non produce aggregazione costante, consapevole e organizzata. La
"gente" non capisce perché mai i deputati radicali non debbano votare, magari contro il governo, contro Andreotti...
Colmare la frattura, dunque. Lo si può fare solo dando concretezza, sui contenuti, alla battaglia per la difesa delle regole del gioco. La strada che suggerisco è quella di impegnarsi a suscitare e raccogliere nel paese, dal paese, una molteplicità di iniziative rivolte verso il Parlamento e le istituzioni: progetti di legge di iniziativa popolare, o progetti di cui gli eletti radicali si facciano presentatori, caratterizzati da un taglio non corporativo; per poi aprire un confronto duro con la partitocrazia in primo luogo sull'iter delle proposte, denunciando in primo luogo le violazioni delle regole del gioco che si verifichino, e coinvolgendo "questa" battaglia, in "questa" indignazione i gruppi e le forze che quei progetti promuovono o sostengono. Come ai tempi della Lega per il divorzio, insomma... E allora sì che applicare il codice di comportamento - rifiutarsi di stare al gioco, ritirare clamorosamente i progetti non esaminati nei tempi previsti, rilanciare così lo scontro sul funzionamento e la real
tà del Parlamento non solo nel palazzo ma con la partecipazione attiva di settori dell'opinione pubblica - vorrebbe dire fare battaglia politica, costruire forze, aggregare energie su una linea radicale; come può esserlo il condurre una lotta chiara per restituire i comuni alla logica loro propria cacciandone i partiti. Vorrebbe dire, insomma, costruire nel paese il Partito radicale come luogo d'incontro e coordinamento e organizzazione politica e federazione di quanti, persone o gruppi, scoprono la necessità di una democrazia di diritto in Italia.