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Vesce Emilio - 10 novembre 1984
A CONFRONTO CON SE STESSI
di Emilio Vesce

SOMMARIO: Nell'agosto 1982, 51 detenuti di Rebibbia creano l'"Area omogenea" cioè un movimento di dissociazione contro l'irriducismo, contro il pentitismo, contro il carcere speciale; si tratta di un movimento che ricerca un dialogo all'interno del carcere, per evitare il formarsi di meccanismi violenti, e all'esterno del carcere con le istituzionui per dare una voce alle diverse esigenze e richieste dei detenuti. Questi uomini hanno scelto di manifestare idee, quesiti, proposte alle forze democratiche, alle forze sociali, ai giudici e agli amministratori del carcere, soprattutto perché le differenze, le opinioni diverse, le opzioni non omogenee dentro l'Area consentivano l'esercizio del confronto su temi importanti come la critica della politica come assoluto e come tradizione, la lettura della crisi dei gruppi della sinistra extraparlamentari, la ricerca trasversale del dialogo, cioè quelle che sono le le strutture portanti dell'esperienza di Rebibbia. Si denuncia anche il fatto che Pasquale Vocaturo, 31 a

nni, detenuto, è stato ricoverato d'urgenza in ospedale per uno sciopero della fame che si protrae da 34 giorni, a cui si aggiunto anche lo sciopero della sete. Vocaturo, che sostiene di essere innocente, protesta contro la sentenza ritenuta politica e intende sollecitare i giudici della corte d'appello a fissare rapidamente il nuovo processo.

(NOTIZIE RADICALI N. 74, 10 maggio 1984)

"Oggi, nelle carceri italiane, all'interno di quella ampia fascia di compagni che si colloca tra le due rumorose polarità costituite da "combattenti" e "pentiti" esistono diverse posizioni o tendenze che spesso preferiscono la sordina, il pianissimo - insomma, forme di comunicazione sottovoce.

Tutti coloro che esprimono queste posizioni, tuttavia, sanno con certezza qual è il problema centrale: è la ricerca di una "soluzione politica" alla questione delle migliaia di compagni oggi detenuti, latitanti, esiliati o in libertà provvisoria".

Con questo abbrivio il documento dei 51 nell'agosto del 1982, redatto dai detenuti dell'Area omogenea di Rebibbia, iniziava quella intensa comunicazione con l'esterno del carcere che con gli anni è venuta qualificandosi sempre più come comunicazione politica di un movimento in grande crescita. La questione centrale era ed è la ricerca di una risposta politica da dare alle migliaia di detenuti associati ai carceri e rimossi dalle ragioni sociali che li avevano portati a scelte extralegali.

Era l'82, anno terribile nello "speciale", teatro di ammazzamenti e di intollerabile degradazione umana.

I compagni che si trovavano a Rebibbia all'inizio del 1982 guardavano il tunnel da cui erano appena usciti come un quasi annegato può guardare il mare. Erano imputati del "7 aprile", delle "Ucc", di altre formazioni minori e anche personaggi notissimi del processo Moro. Una molteplicità di storie, esperienze, destini diversi e contraddittori che cercavano nei visi delle persone segni di umanità, aneliti di speranza.

Detenuti politici, lettori attenti della realtà esterna al carcere, interessati ad ogni piccolo mutamento percettibile nel politico. E in quel momento molte cose si muovevano. Ma, quel che più conta, erano essi stessi sintomo e impulso di una grande trasformazione maturata nella detenzione politica.

Imputati in differenti processi si trovarono a Rebibbia e qui intrapresero, anzi continuarono quella battaglia di idee e di riconversione degli strumenti di lotta che negli "speciali" avevano dovuto fare sottovoce, per non rimanere subito vittime del meccanismo violento che spingeva l'un contro l'altro gli uomini e che produceva violenza a mezzo di violenza. Il distacco critico, da parte di coloro che avevano avuto esperienza di lotta armata e che si trovavano a Rebibbia in quel momento, poté essere esaltato nel confronto con coloro che non avevano queste stesse esperienze: sovversivi, innocenti, predicatori acritici delle cause e degli effetti della violenza, formavano un grumo di desideri di rinnovamento, di riqualificazione umana e politica. La battaglia era contro l'irriducismo, contro il pentitismo, contro le relazioni militari che il carcere speciale imponeva. Lo sguardo era rivolto alla ricerca del dialogo con la società politica e con le istituzioni ma mirava al recupero di mezzi e strumenti di comun

icazione, per la grande maggioranza di detenuti che manifestava da tempo segni di crisi nei confronti delle ideologie e dei comportamenti terroristici.

Si decise così di affrontare con il coraggio della speranza l'opinione pubblica, i processi giudiziari, convinti che solo questa battaglia, e con il militarismo dello Stato poteva far breccia dentro il muro del "combattentismo": solo la critica impietosa degli errori e delle mostruosità del terrorismo poteva arrivare un nuovo corso. Le leggi speciali, la soluzione militare non avevano sradicato il fenomeno, lo avevano però colpito rendendolo più feroce e comunque lo avevano sottratto a qualsiasi interpretazione politica.

Non si sbagliava nell'insistere su questi temi anche se molte furono le pressioni e gli attacchi, sia da parte dell'irriducismo (ed era inevitabile), sia da parte di alcune forze politiche e di magistrati, che pure avevano avuto un ruolo di primo piano nella lotta al terrorismo.

Lentamente i risultati cominciarono a vedersi: avvii di autocritica da parte di gruppi di imputati di terrorismo, nei carceri speciali, nelle aule dei tribunali cominciarono ad intensificarsi fino a dichiarati autoscioglimenti di interi spezzoni residui di "combattentismo", e poi l'enorme diffusione in tutta la popolazione carceraria dello "sciopero della fame", della rivolta violenta al digiuno (un contributo mutuato dalla cultura radicale).

Il terreno della soluzione politica della chiusura delle leggi d'emergenza, della riapertura istituzionale sembrava una strada percorribile, con gradualità e sensibilità, per una generazione, quella degli anni settanta, e per una storia rivolta al futuro. Non si trattava naturalmente soltanto di petizioni di principio, non si trattava di riverniciare vecchie ideologie, non era possibile riscoprire la politica se non dentro la materialità rappresentata dai corpi imprigionati. Politica materiale dunque, e allora le posizioni che questi detenuti esaltavano riguardavano il terreno del carcere, dei diritti dei detenuti, del loro essere uomini prima ancora che detenuti, della non applicazione della riforma del '75, dell'orribile uso dell'art. 90; perché anche su questo versante andava spezzata la catena di produzione, di violenza a mezzo di violenza, l'avvitamento terrorismo-emergenza.

Per l'uno e l'altro versante, sia quella della politica riformatrice sul terreno della giustizia del carcere, sia quello della critica al terrorismo, questi uomini scelsero di manifestare idee, quesiti, proposte alle forze democratiche, alle forze sociali, ai giudici e agli amministratori del carcere. E questo proprio per evitare che l'Area omogenea (questo era il nome che si davano i detenuti di Rebibbia) fosse la forma di una comunità realizzata nel carcere, quindi un modo possibile di interpretare praticamente la riforma del '75.

Intanto erano le differenze, le opinioni diverse, le opzioni non omogenee dentro l'area che consentivano l'esercizio del confronto; la pratica di forme pacifiche, di discussione e di misura delle diversità, che riconvertivano la cultura militare in cultura di pace. Dopo anni di monolitismo e crudezza delle relazioni dentro i carceri speciali, questa possibilità faceva sentire tutti un po' più liberi, più disponibili a superare le semplici dichiarazioni d'intenti e consentiva ai diversi linguaggi di attraversare ognuno, di sceverare le differenti esperienze e motivazioni. Questo movimento faceva politica di necessità, aveva di fronte il terribile ritardo della coscienza politica del paese nell'affrontare i problemi del carcere e del carcere politico; aveva di fronte i mostruosi termini della carcerazione preventiva, l'inquinamento dei diritti dell'imputato, il veleno del pentitismo e la tendenza criminogena dell'insieme delle leggi emergenziali.

Un altro pericolo si profilava ogni qualvolta le proposizioni del movimento della dissociazione entravano in collisione con le descrizioni che del carcere e della detenzione politica venivano fatte all'esterno. Reducismo e residualità del vecchio movimento degli anni settanta davano ad intendere che i "dissociati" tendessero al partitino, alla rappresentazione politica di tutto, alla presunzione soggettiva. Più che una descrizione, talvolta, era un tentativo di convincere i "dissociati" ad essere "così come li volevano".

La critica della politica come assoluto e tradizione, la lettura più accorta della crisi dei gruppi della sinistra extraparlamentare, la ricerca trasversale del dialogo nelle istituzioni e nei partiti, tuttavia erano e sono la struttura portante dell'esperienza di Rebibbia. I compagni avevano guardato al loro passato e al passato del movimento senza soccombere quando il profilo della politica, che quel passato immaginava, si era presentato carico di tradizionalismi, di fantasmi ideologici, lontano da quei movimenti di massa di cui volevano essere alla testa.

Si chiedevano come tutto potesse essere incominciato e come tutto potesse essere finito in quel modo. gli anni spesi intorno alla tematica del salario (non più come misura dell'erogazione di lavoro al capitale, ma come spettro dei bisogni reali degli operai e dei proletari) avevano fruttato vasti movimenti di lotta, una cultura egualitaria, la critica al potere non per il potere.

Non erano solo idee, vivevano nelle donne, nei giovani, in tutti gli individui sociali. Non era l'immaginazione al potere, era realtà. Poi tutto all'improvviso i protagonisti della politica erano diventati lo Stato e l'anti-Stato, il terrorismo e i corpi speciali, il pentitismo e l'irriducismo. Una cappa terribile sulle coscienze, sulle intelligenze, sulle volontà, un sonno della ragione che trasformava ogni desiderio in mostruosità. Tutto questo non poteva che essere dissociato per sopravvivere e per vivere. E per dissociare e dissociarsi non occorreva un partitino, ma una grande tensione a trasformare, prima di ogni altro, se stessi.

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Pasquale Vocaturo sta morendo

Pasquale Vocaturo, 31 anni, detenuto nel carcere di Fossombrone e condannato dal tribunale di Trani per i fatti connessi alla rivolta in quel carcere del dicembre '80, è stato ricoverato d'urgenza in ospedale a causa di uno sciopero della fame che si protrae da 34 giorni.

Vocaturo, che si è sempre proclamato innocente, subito dopo la lettura della sentenza il 19 ottobre scorso aveva annunciato in aula l'inizio dello sciopero della fame per protestare contro una sentenza ritenuta politica e sollecitare i giudici della Corte d'appello di Bari a fissare rapidamente il nuovo processo.

Ai familiari che erano andati a visitarlo è stato detto che il congiunto era stato ricoverato con urgenza nell'ospedale di Pesaro e successivamente trasportato all'ospedale civile di Rimini. Ha iniziato lo sciopero della sete.

Visitato di recente in carcere dalla deputata radicale Aglietta, Pasquale Vocaturo aveva sottolineato come nonostante il tempo trascorso non risultava ancora depositata la sentenza di primo grado, emessa in sole sei ore di Camera di consiglio, e aveva quindi confermato la decisione di portare avanti questa sua protesta fino alle estreme conseguenze. Vocaturo era apparso molto debilitato, soffrendo tra l'altro ancora per le conseguenze del lungo sciopero della fame attuato a marzo per protestare contro la proroga dell'art. 90.

 
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