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Spadaccia Gianfranco - 10 gennaio 1985
Europa, ambiente, terzo Mondo, nonviolenza
di Spadaccia Gianfranco

SOMMARIO: L'articolo di G. Spadaccia e' la trascrizione di una intervista rilasciata a Radio Radicale nell'ambito dell'inchiesta condotta da Angiolo Bandinelli sul tema "Cos'è il moderno in politica?" alla quale risposero anche - sempre attraverso Radio Radicale - Ernesto Galli della Loggia e Gianni Baget Bozzo. L'inchiesta era promossa per sviluppare il dibattito svoltosi, nel febbraio, in seno al Consiglio federale del partito radicale, convocato per discutere sullo "stato del partito" a partire da una relazione di Angelo Panebianco che analizzava i problemi posti dall'emergere dei "nuovi settori sociali". Il primo numero de "La Prova" si apriva con la relazione di Angelo Panebianco e riportava la trascrizione degli interventi radiofonici.

Spadaccia nega valore alle concezioni della modernita' che non abbiano a loro fondamento valori e principi etico-politici, quali invece avevano avuto le grandi correnti riformatrici del passato, la liberale, la socialista laburista, o il newdealismo rooseveltiano. Ne' di per se' la sinistra contemporanea puo' vantarsi di esprimere, meglio dei conservatori, istanze di rinnovamento, di progresso e di "modernita'". Spadaccia vede fronteggiarsi nel mondo due conservatorismi opposti ma ugualmente negativi, quello delle destre tatcheriane e reaganiane e quello delle sinistre "nazionali", che non colgono le necessita' del mondo moderno con le sue istanze di cambiamento. Occorrerebbe invece affrontare il problema delle grandi regole democratiche - la "cornice giuridico-istituzionale" cioe' - adatte a guidare, in forme di progresso, le varie realta' e i problemi emergenti.

(LA PROVA, Supplemento di discussione N. 1 - Notizie Radicali n. 3 del 10 gennaio 1985)

1. Io non credo molto a questa concezione della modernità; non credo a una modernità senza principi con cui confrontarsi, da cui partire, e senza valori di riferimento, cioè senza grandi obiettivi ideali da conquistare. Un modernità di questa natura, che abbia queste caratteristiche, è la modernità dell'effimero, ma anche la modernità della insicurezza, elemento non di quella creatività che è mutamento, ma di precarietà, di mancanza di solidi principi e di concezioni di mutamento profonde, quindi perciò solide. Mi sembra che ci sia in questo molta mitologia dell'effimero come mutamento continuo, una modernità quindi, un modernismo molto superficiale che parte con il mitizzare il mutamento, il cambiamento e poi, in realtà, realizza soltanto insicurezza, precarietà e quindi anche angoscia dell'insicurezza, della precarietà. Allora, è una modernità che non governa i fenomeni moderni di cambiamento della società, ma rischia solo di fotografarli, di registrarli; se mi guardo intorno vedo una società del benessere

dove non è in gioco nessun grande problema, perché evidentemente questa non è più la società della miseria, è la società del benessere: però un benessere precario, che può convivere tranquillamente con milioni e milioni di disoccupati, perché nessuno di questi disoccupati muore di fame o di povertà (magari il cassintegrato si impicca se per un anno, due anni non trova più prospettive di lavoro, ma può sopravvivere e magari con occasioni di lavoro precario, con la capacità di arrangiamento che è propria della società italiana, molto meno propria di altre società europee, però). Ma a Londra non meno che in Italia, in Germania non meno che in Spagna, e naturalmente anche in America, vedo questo Stato che doveva essere del benessere, della sicurezza sociale, diventare, invece, lo Stato della precarietà. Questa è la situazione che abbiamo di fronte; certo non la si esorcizza tornando indietro e guardando ai vecchi sistemi della sicurezza sociale, ma un riformismo che mitizza, che scambia questa precarietà con il

cambiamento, mi sembra un riformismo che tenta sì di abbandonare i catechismi, e tutti i catechismi vanno abbandonati, ma non è riformatore, è privo di respiro.

2. In questo io sono uno che rimane molto legato all'antico; le grandi correnti riformatrici e ideali sulle quali mi sono formato sono quelle di un certo tipo di liberalismo e di laburismo inglese, di socialismo scandinavo, di newdealismo americano, quello per cui la struttura - il mito, l'efficienza della struttura, i meccanismi della struttura - la meccanicità del mercato possono produrre, al meglio, alcuni elementi di sviluppo, non necessariamente di progresso; ma non automaticamente producono pure equità. Quindi, da queste teorie veniva fuori poi una concezione anche di un socialismo, di una quota di socialismo da realizzare che sottraeva al produttivismo, alla struttura, al mercato alcuni elementi essenziali, per garantire l'equità, e comunque, almeno, alcuni elementi di libertà, di eguaglianza, alcune elementari conquiste di eguaglianza. Credo che questo modello rimanga valido, certo in una situazione in cui la tecnologia, il panorama produttivo, il panorama industriale è in via di profonda modificazio

ne. Per me, l'equazione socialismo = assistenzialismo non esiste, così come non esiste la equazione socialismo = progressismo = democrazia eccetera, come non esiste l'equazione di questi elementi con quello che è statalismo; anzi come radicale, come liberale, come libertario e anche come liberal-socialista, sono tendenzialmente anti-statalista. Non sono in nessun modo un difensore, quindi, dell'assistenzialismo, però bisogna individuare alcuni elementi di intervento dello Stato necessari, cioè bisogna individuare un minimo, senza il quale il ritorno alla pura e semplice struttura come capace di autoregolarsi e di regolare l'intero sistema sociale, oltre che il sistema produttivo, può produrre soltanto dati crescenti di ineguaglianza e di ingiustizia. Da questo punto di vista mi interessava quindi di più il discorso sui nuovi bisogni e i nuovi meriti della società emergente che Martelli faceva due anni fa, piuttosto che il discorso, invece, sull'efficienza e sui catechismi da buttare via, in cui non vedo, al

di fuori di quello dell'efficienza, affermarsi altri valori.

3. Per quanto ci riguarda, non abbiamo mai ritenuto che sinistra di per sé, per il solo fatto di essere sinistra fosse matrice di progresso e di movimento. Tutta la nostra battaglia e tutto il nostro tentativo di dialogo a sinistra è sempre stato rivolto a rimuovere alcuni elementi di conservazione, ma persino di reazionarismo insiti nelle scelte della sinistra. Mi pare fuor di dubbio che non soltanto in Italia, ma anche in Europa molto spesso questi elementi di conservazione hanno avuto la prevalenza, cioè si è finito sempre per privilegiare l'esistente in una situazione in cui la difesa dell'esistente comportava elementi di conservatorismo, e anche certe situazioni di reazionarismo. Questo ha aperto alla destra anche sul piano del coraggio degli esperimenti, uno spazio enorme; non c'è dubbio che Reagan, e le forze che Reagan ha introdotto nella vita politica americana, hanno interpretato questo bisogno di fare saltare alcuni schemi che non rispondevano più alla realtà e la imprigionavano. Al di fuori dell'

America non vedo però, neppure in Europa, questa grande destra vitale; vedo il conservatorismo della sinistra, non vedo questa grande destra rampante, capace di affermare valori rivoluzionari e rivoluzionanti. Mi sembra che anche la destra sia conservatrice in un continente che tende a mettersi a sedere, a chiudersi, a vivere di rendita, persino nella Thatcher; a parte le Falkland, tanto per intenderci, che sono state uno degli elementi fondamentali del cocktail del suo successo, io mi domando se poi la politica complessiva della lady di ferro sia reaganiana solo, o soprattutto, nell'aspetto muscolare, ed esteriore. La signora Tatcher mi pare anch'essa molto conservatrice, molto poco europea, ancora rivolta all'indietro, alla difesa di un recupero della Gran Bretagna-nazione che non è nella realtà, nel futuro di questo continente. Non riesco, insomma, a scorgere in Europa dei fenomeni di destra attiva, o anche di sinistra rinnovatrice; anzi, io vedo con molta inquietudine, dietro al confusionismo gruppettaro

, estremista dei verdi tedeschi, il recupero di certe forme di neutralismo, nazionalismo, eccetera, che sono anch'esse un ritorno indietro.

4. Diciamo che nella sinistra innanzitutto ci sono due tipi di conservatorismo; un conservatorismo è quello dei "nipotini di Stalin", tanto per intenderci, dei partiti comunisti francesi e italiani, e sono anzi due conservatorismi diversi, ciascun partito comunista ha il suo. Poi c'è il conservatorismo, l'incapacità di rinnovamento delle socialdemocrazie europee, incapaci di risposte ai problemi emergenti della società. Darà una risposta chi riuscirà a dare delle risposte sul piano europeista, del fare l'Europa, del trovare soluzioni sovrannazionali ai problemi che sono comuni dell'Europa, chi riuscirà a dare una risposta internazionale e internazionalista non soltanto in termini di rapporti con l'Est europeo, con il mondo del cosiddetto socialismo reale, ma con i Paesi del Terzo mondo, del Sud del mondo; chi affronterà i temi della nonviolenza e quelli di uno sfruttamento delle risorse del pianeta che sia compatibile con la sopravvivenza dell'umanità. Queste oggi sono le grandi demarcazioni, le grandi scomm

esse del futuro; mi pare che tutto ciò che si muove nel segno del conservatorismo tende a negare queste demarcazioni, a non guardare al futuro, ma a vivere alla giornata nella difesa di un esistente destinato a entrare in crisi.

5. Ripeto, non credo alle esercitazioni sulle modernizzazioni: si è moderni, si è riformatori se si riesce a governare queste fasi di cambiamento del mondo sviluppato, non se ci si mette a rimorchio e ci si limita a registrare, come mi pare che spesso avvenga, questi cambiamenti, perché in questo caso sono i cambiamenti che governano noi e non noi che riusciamo a governare i cambiamenti. Credo che la funzione del Partito Radicale sia soprattutto di richiamare chiunque si vuole confrontare con questi problemi, con i problemi della modernizzazione, con i problemi di questa modernità, con i problemi di questo cambiamento, ad alcune esigenze: primo, quale è la cornice giuridica di civiltà all'interno della quale si verifica il cambiamento, e che governa questo cambiamento. Il problema qui rimane di quale diritto, non solo quali diritti, di quale civiltà giuridica; è il problema delle regole. Si insiste molto in questo momento sulla deregulation; certo, per esempio la delegificazione è oggi fondamentale, proprio

per legiferare meglio; il problema è sapere se si va verso l'affermarsi di forme di deregulation selvaggia, in cui poi prevale necessariamente la legge del più forte o del più furbo, o se invece questi maggiori ambiti di libertà, i maggiori spazi di libertà, le maggiori possibilità di movimento e di mutamento sono governate da regole fondamentali. In Italia più che in altri Paesi, proprio per le sue tradizioni controriformistiche, per una sinistra che ha adottato - con il comunismo, con lo stalinismo, con il togliattismo - i modelli del controriformismo, questo pericolo è molto molto più accentuato che in altri Paesi, dove bene o male il concetto di diritto, in forme più autoritarie o più liberali, fa molto più parte di quelle tradizioni. Su questi elementi ritorniamo alle demarcazioni che proponevo prima, che sono: quale diritto, quale società - e quindi ecologia - quale convivenza internazionale - e quindi i rapporti con il sud del mondo - quale organizzazione della pace. La grossa tematica del nostro temp

o è questa del diritto, delle regole, è quella della vita, è quella della violenza e nonviolenza; io direi che il confronto con queste grandi tematiche ideali, con questi valori, è l'elemento che, devo dire purtroppo, rende insostituibile la funzione del Partito Radicali, non solo sulla scena italiana ma, io credo, su quella europea.

 
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