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Bandinelli Angiolo - 2 giugno 1985
Il riformismo della domenica
RILEGGERE, RILEGGERCI

di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Il testo che viene qui presentato costituiva, per così dire, l'editoriale del numero 4 de "La Prova", un numero quasi interamente occupato dalla relazione tenuta da Angiolo Bandinelli al Convegno su Ernesto Rossi organizzato a Milano il 18-20 maggio 1984 dal Club "Il Politecnico" e da "Critica Liberale". L'editoriale giustifica la pubblicazione della relazione come un contributo alla necessità, che l'autentico riformatore liberale deve costantemente avvertire, di "rileggere" la propria storia, di "rileggersi" insomma, per non perdere la giusta direzione del cammino. La necessità è tanto più avvertita nel momento in cui, con la caduta delle ideologie, il loro posto sembra essere stato assunto da una filosofia "ottimistica", che ci promette una società "del tutto indolore" nella quale tornano finalmente a trionfare l'individuo e il liberalismo a lungo compressi e vilipesi.

Bandinelli ritiene si debba stare in guardia da questa illusione. Le grandi riforme sono il risultato di un'operare "difficile e faticoso", che non è "il lusso della domenica" ma si nutre di una continua "critica del presente". Quella che oggi ci viene prospettata può essere una operazione persino "indegna" perché tendente a "riciclare il vecchio antifascismo", evitando una "rilettura critica" della storia del paese. Ecco perchè, conclude Bandinelli, la lettura, o rilettura, del messaggio di Ernesto Rossi ha ancora attualità.

(LA PROVA, Supplemento di discussione N. 4 - Notizie Radicali n. 135 del 2 giugno 1985)

Si discute dovunque, tra l'assenso e la soddisfazione generale, di morte delle ideologie. Molti modelli di lettura egemoni per decenni - nel mondo accademico, nella cultura politica, in quella di "consumo", nell'editoria - appaiono invecchiati e inservibili: proprio quando, travasati dalle grandi Enciclopedie di prestigio ai fascicoli patinati delle edicole, pretendevano al definitivo trionfo, nella diffusione popolare e di massa. Le ideologie, liquidate, hanno però lasciato dietro di sé un gran vuoto, che è tutto da colmare. Tutti sono alla ricerca dei nuovi contenuti, un po' di spazio dovrebbe esserci per tutti.

La morte delle ideologie sembra abbia lasciato il posto, in primo luogo, ad una corretta e lucida empiria, entusiasta, persuasiva, dotata di una logica lineare e stringente, la quale presenta le carte in regola per restituire alle cose, alle vicende umane, i connotati della verità, mostrando come davvero funzionino, dopo tanta e vana ubriacatura dialettica, i meccanismi che governano il mercato e le norme che reggono le società, e come si debbano e si possano di conseguenza gestire i rapporti tra gli uomini e tra questi e le istituzioni. Basterà applicare tali semplici regole e sarà per tutti facile veder instaurarsi quella che viene definita, amabilmente, la società "giusta"; la società cioè che, seppur ripudia i miti dell'ideologia egualitaria, può tuttavia promettere la conquista per tutti di una ragionevole e soddisfacente "equità". Intanto, già si guibila per il ritorno prossimo dell'individuo, reduce da un lungo e immeritato esilio. Questa filosofia, di cui trasudano le pagine dei giornali e i discorsi

dei politici, viene definita come riformismo, o (neo)liberalismo. E' una filosofia ottimista, garantita come del tutto indolore. La società che ci promette è una società a governare la quale basta in fondo, un po' di equilibrato buon senso, e tanto sano empirismo. Non richiede né fomenta opposizione, anche in questo contrapponendosi alle drammatizzazioni predicate dalle vecchie ideologie. La lotta di classe? Espressione senza significato. Lo scontro sociale? Roba d'altri tempi. I poveri? C'è il "sommerso", non preoccupatevi. L'utopia? roba da ridere.

Vorremmo conoscere meglio, incontrare gli autori di questi discorsi, discutere un po' con loro, porgli qualche domanda. Volti che scorgemmo, fino a ieri, accesi nello sforzo dello scontro, oggi si volgono a noi placidi e rassicuranti. Proviamo disagio. Noi avevamo imparato che le cose non sono così semplici, con riformismo e liberalismo. Ci sembrava di ricordare che riformismo e liberalismo sono stati, storicamente, progetti e programmi che hanno coinvolto spesso drammaticamente e fino al limite della visionarietà i loro promotori e sostenitori, in difficili elaborazioni e in scontri durissimi dai quali non sempre essi riuscivano vincitori, forse anzi restando il più delle volte soccombenti. Insomma, non è vero che riformismo e liberalismo siano proprio quello che di loro viene oggi predicato, il metodo del facile e dell'ovvio, del quotidiano piattamente interpretato. Riformismo e liberalismo non appaiono, anzi, mai maggioritari, sarebbero contraddittori con se stessi. Non può essere maggioritaria l'iniziati

va, lo sforzo di chi riforma, di chi si pone il compito di liberare. Il riformismo, il liberalismo sono impegno di lotta.

Soprattutto, il riformatore, il liberale, ha bisogno continuamente di leggere, di rileggere la sua, altrui storia, il proprio e l'altrui tempo, ripercorrendo il cammino percorso, per individuare fraintendimenti, errori, cadute di senso e di prospettiva. Le grandi riforme si accompagnano alla attenzione verso il passato. Esercitare queste arti, del riformare, del liberare, è dunque difficile e faticoso. Il liberalismo non è il lusso della domenica, non è l'idillio della terza pagina, per quanto prestigiosa essa sia. Occorre essere cauti di fronte al liberalismo predicato dalla stampa anche più prestigiosa. Liberalismo e riformismo non si sponsorizzano come Azzurra. Non viviamo infatti in un mondo di innocenza, i processi che guidano il quotidiano della nostra vita non sono neutri, sono governati da interessi, sono controllati dalla forza, dalla violenza esercitata dai potenti sui deboli, dai soddisfatti su quanti hanno invece ancora fame, in senso proprio e in senso metaforico. Non si può dunque cogliere il s

enso del riformismo e del liberalismo senza critica del presente. Solo così avrà spessore e durata il costituirsi come parte, il collocarsi all'opposizione per poter assolvere il compito di governare.

Dunque, rileggere, rileggersi. Qualche spiraglio sembra aprirsi, consentirlo, ripetiamo. Ma stiamo attenti. Con nostro grande stupore, ci accorgiamo che coloro che oggi predicano il nuovo sono gli stessi che ieri dicevano le cose che oggi condannano, gli stessi che portano le maggiori responsabilità di aver imposto il credo e le fedi oggi consumate. L'operazione che costoro vengono conducendo assume sempre più caratteri ambigui, eccitando la nostra diffidenza. Sempre meglio si palesa come operazione di schietto sapore politico, strumentale. Da promessa di liberazione, essa rivela un volto nuovamente anche se diversamente oppressivo. La ricerca di verità non vi ha niente a che fare, ancora una volta tutto è in subordine rispetto al primato del politico.

Il politico; cioè, in Italia, i partiti. Essi possono starsene tranquilli. Non c'è alcuno, all'orizzonte, che riesca a chieder loro qualche conto. Veri avversari non ve ne sono, in giro. Filosofi, intellettuali, politologi vivono di luce riflessa, alla corte del moderno principe. Il pensiero filosofico, quando è più avanzato, si professa "debole" e si chiude nell'estetismo e nell'intimismo, avallando la tesi che il post-moderno, anche per essere riformatore, debba abbandonare le pretese di governo sul reale. Così i partiti, la partitocrazia, si vedono spianata la strada al più sfrenato trasformismo. Hanno abbandonato i vecchi abiti di scena, sontuosi e barocchi, per indossare il doppio petto del manager. L'operazione è stata rapidissima e indolore, nessuno se ne è accorto. Così l'efficientismo e il pragmatismo, il riformismo e il liberalismo hanno assunto la stessa funzione delle scomparse ideologie, sono perfettamente funzionali al controllo sociale, esercitato in nome degli eterni padroni. E assolvono a qu

esta funzione anche meglio delle ideologie. Non danno fastidio, sono duttili, accolgono, nel loro "fast food", tutto. Adesso, anche il fascismo. Quello stesso fascismo che per un quarantennio è stato l'avversario da distruggere, il nemico sempre evocato, il bersaglio di ogni polemica.

Una operazione indegna, che ricicla il vecchio antifascismo. Ancora una volta, quello che viene evitato è la rilettura critica. L'antifascismo cancellò dalla storia del Paese il dramma, il problema stesso del fascismo; lo dichiarò sepolto sotto l'epopea e i canti popolari della Resistenza, proclamò compiuto l'avvento della democrazia. Decretò l'ostracismo contro chi avesse dubitato, e su di esso edificò il proprio dominio. Oggi dà un colpo di spugna sul passato, fingendo accantonate e dimenticate tutte le cose dette fino a ieri, e concede il visto di ingresso a chiunque si presenti a chiederlo. In cambio d'una nuova complicità e in nome, ancora una volta, della continuità. Noi crediamo invece alle discriminanti storiche. Non per demonizzare, ma per capire, per collocare, con paziente discernimento, al loro giusto posto attori, episodi, fenomeni: per riconoscere sotto lo scorrere del flusso la varietà dei volti, la loro espressione, il senso delle loro parole, quanto essi hanno voluto lasciarci non in deposit

o, ma come seme fruttifero. Solo con un'opera di scavo di questo genere, pensiamo, sarà possibile mettere a fuoco gli elementi vitali e necessari, i lineamenti esatti di un riformismo e di un liberalismo che siano moderni non per referto anagrafico, ma per chiarezza di accenti. Dopo essere stati accusati per venti e più anni di qualunquismo e fascismo, curiosamente possiamo e dobbiamo chiedere oggi noi il conto sul passato, a questi ex-antifascisti pentiti.

 
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