STATO-PARTITO O STATO DI DIRITTO?di Lorenzo Strik-Lievers
SOMMARIO: In apertura del numero 4 de "La Prova", il lungo articolo (trascrizione, revisionata dall'autore, dell'intervento svolto al Consiglio Federale del partito del 26 e 27 aprile) compie una dettagliata analisi della situazione politica quale è venuta chiarendosi, nei suoi dati di fondo, anche grazie al voto referendario del 9 giugno sulla scala mobile. In questo periodo si è venuta manifestando "quella che può apparire una collocazione nuova del P.R. negli schieramenti politici": non più una linea di alternativa "da sinistra" alla D.C., ma promozione di battaglie "comuni" con PSI e DC in aperto confronto con i comunisti, "divenuti loro, adesso, gli avversari principali". Non si tratta certo, sottolinea l'autore, del "salto del fronte" di un Pannella divenuto opportunisticamente "governativo" e proteso alla "autocandidatura" a "sottosegretario contro la fame"; negli anni ottanta si sono verificati cambiamenti incisivi degli equilibri politici, per cui oggi la DC non può essere più considerata il "partit
o 'dello Stato' e 'delle istituzioni'"; si deve piuttosto parlare di un sistema che si regge sul "mutuo sostegno" tra "grandi poli partitici", stretti in un sistema consociativo dei cui equilibri il PCI deve essere considerato "bastione principale e asse portante", perchè è la forza che ha un interesse "vitale" ad assicurarne il mantenimento. Il sistema rende impossibile la ricerca di una "alternativa" di tipo anglosassone, mentre fa correre al paese rischi autoritari. All'interno dell' "area pentapartita" si sono però manifestati "timidi" accenni di resipiscenza e di cambiamento, che hanno portato alla legge sulla fame nel mondo, alla battaglia referendaria, ecc. Bene ha compreso il problema Gianni Baget Bozzo ("La Repubblica", 23 aprile) là dove sostiene che gli sviluppi della formula "Pannella governativo" potrebbero costituire segni di "realtà nuove che stanno emergendo". La nuova "collocazione" del P.R., dunque, spinge alla "rottura dell'omertà partitocratica" e prepara una "successione democratica al r
egime partitocratico".
(LA PROVA, Supplemento di discussione N. 4 - Notizie Radicali n. 135 del 2 giugno 1985)
Più che mai in queste settimane si impone all'attenzione altrui e nostra il tema di quella che può apparire una collocazione nuova del Partito Radicale negli schieramenti politici. L'ultimo e più vistoso caso in cui la questione è emersa è quello della posizione radicale rispetto al referendum comunista; è di contrapposizione frontale rispetto al Pci, a partire dall'aver individuato l'oggetto vero del referendum in quel cardine della costituzione materiale che è il diritto di veto del Pci su ogni scelta di governo, e dalla convinzione che infrangere quel diritto di veto sia condizione necessaria per conquistare in Italia un'autentica democrazia di diritto. Accanto a questa scelta stanno le altre compiute negli ultimi mesi, che hanno indotto alcuni a parlare di un "Pannella governativo" o a porre il problema se il Pr non si sia ormai inserito all'interno dello schieramento pentapartito.
Non si tratta evidentemente di somma casuale di mosse contingenti; una per una, e nel loro insieme, esse comportano implicazioni di carattere generale su cui è bene sviluppare il discorso con la massima chiarezza. Non solo e non tanto per non lasciare senza risposta le domande di quanti non capiscono - o più spesso fingono di non capire - come i radicali, da fautori dell'unità e alternativa di tutta la sinistra contro la Dc, si siano trasformati in promotori di battaglie comuni con Psi e Dc contro i comunisti, divenuti loro, adesso, gli avversari principali; ma soprattutto perché su questo piano abbiamo non piccoli giochi furbeschi da nascondere, ma una grande prospettiva politica da esplicitare e da proporre con la massima forza. Va detto, intanto, che non avrebbe senso parlare di un nostro "salto del fronte", dalla trincea in cui stanno il Pci e i suoi alleati a quella opposta della Dc con i suoi. A cambiare, in realtà, è stato il fronte; le trincee di ieri non esistono più, sono state sostituite da altre,
il cui tracciato corre in tutt'altre direzioni. Né, sia chiaro, dicendo questo si vuole richiamare in nessun modo la tesi stupidamente goscista circa un "peggioramento", una "degenerazione" del Pci rispetto ai bei tempi in cui esso conduceva "davvero" l'opposizione alla Dc: non ho personalmente, ma credo tutti non abbiamo, alcun dubbio nel preferire, nel trovare migliore il Pci di oggi rispetto a quello degli anni cinquanta o sessanta, se non altro perché è molto meno "comunista", appunto. Il cambiamento cui mi riferisco, invece, è quello che riguarda la collocazione e il ruolo del Pci negli equilibri di regime e più ampiamente quello della natura stessa del "regime". Questo è il punto vero.
Nel corso degli anni ottanta il "regime" ha conosciuto trasformazioni di grande portata: tali anzi che segnano una novità pressoché senza precedenti nella storia italiana dall'unità in poi. Se un dato di continuità ha contraddistinto, infatti, lo Stato italiano lungo il secolo e oltre della sua esistenza, si è trattato del suo essere sempre - seppure in forme via via diverse - uno Stato-partito, lo Stato di "un" partito. Il discorso vale per la fase dello Stato liberale, quando di fatto si dava sostanziale identificazione fra le istituzioni e quella nebulosa politica definita il "gran partito liberale", essere dentro o fuori dal quale significava essere "dentro" o "fuori" dalle istituzioni: vale tanto più per il periodo fascista, in cui la coincidenza tra Stato e partito è assoluta, e formalmente proclamata; e vale per i lunghi decenni di quello che a ragione chiamavamo il regime democristiano, perché la Dc vi fungeva da solo e insostituibile partito "dello Stato" e "delle istituzioni". Proprio questo, invec
e, oggi non è più vero: per la prima volta nella storia dell'Italia unita - salvo la breve parentesi ciellenistica - non esiste un partito-Stato. Non lo è più la Dc che emblematicamente, pur rimanendo pilastro essenziale del potere, non controlla più le supreme cariche dello Stato; né altri lo è (ancora?) diventato.
Oggi, così si può semmai parlare di un sistema che si regge sul mutuo sostegno, sulla solidarietà omertosa di fondo - nella rivalità reciproca - tra grandi poli partitici, soci-comprimari della consociazione. Il regime partitocratico attuale, cioè, si configura come strutturalmente altro da quelli fondati sulla centralità incontrastata di un solo partito. E si badi: proprio dal suo essere tutto basato sul "patto" mafioso tra centri di potere partitici e corporativi per occupare e spartirsi ogni spazio occupabile, travolgendo ogni regola che non sia quella dei rapporti di forza all'interno del patto, discende una delle differenze più caratteristiche con i precedenti regimi a monopartito dominante. Differenza riscontrabile nel fatto che ciascuno di essi, quello liberale, quello fascista e quello democristiano, fino agli anni '60, conosceva e rispettava sostanzialmente delle sue precise regole del gioco, benché mai corrispondenti alla Costituzione teoricamente in vigore; mentre l'odierna partitocrazia consociat
iva si regge sulla mancanza di qualsiasi regola del gioco minimamente garantita, o meglio sulla prassi della modifica, di volta in volta, della regola, a seconda degli equilibri momentaneamente determinatisi nelle contese spartitorie-corporative.
Di questo sistema partitocratico non si può non considerare bastione principale e asse portante il Pci, ciò che invece non era fino agli anni '70; quanto meno perché esso è la forza che più di ogni altra ha interesse, e interesse vitale, ad assicurarne il mantenimento. Il Pci sa bene infatti, ha sempre saputo, che finché conserverà alcuni dei suoi caratteri di "diversità", quelli che in sintesi possono essere simboleggiati dal suo nome e dal suo emblema, le resistenze e i condizionamenti interni e internazionali saranno tali da rendere impraticabile un'alternativa "anglosassone", imperniata su di esso, che mandi all'opposizione la Dc; ma quei caratteri il Pci non ha finora voluto, o potuto, abbandonarli. La conseguenza inevitabile è che se vuole - rimanendo se stesso - pesare, governare, gestire, e non limitarsi a praticare una opposizione senza sbocchi e speranze, il partito comunista non può che puntare sui meccanismi della consociazione; attraverso i quali partecipare alla sostanza del potere, pur salvand
o le forme dell'opposizione, integrarsi nel potere, ed essere potere. Se e finché non riforma radicalmente se stesso, dunque, il Pci non può consentire - pena la marginalizzazione - che venga infranta la logica di questo regime di partitocrazia consociativa che gli consente di esercitare il suo diritto di veto; e deve contrastare con ogni mezzo qualsiasi tentativo di uscirne, come la vicenda del decreto e del referendum "sulla contingenza" conferma. Qui sta il dramma di quello che, fra i partiti, rimane il solo in cui larghi settori dei ceti popolari si organizzino ancora effettivamente. Il Pci non rompe con la tradizione comunista perché ritiene che altrimenti si incrinerebbe questo rapporto con la sua base popolare; ma ciò appunto fa sì che quel che potrebbe essere un grande fenomeno di partecipazione democratica comporti il coinvolgimento capillare di una parte considerevole delle classi popolari nelle dinamiche perverse e totalizzanti della partitocrazia. E più, poi, entrano in intima crisi i miti e le i
llusioni del socialismo classista, leninista e stalinista che animavano il Pci, tanto più esso si fa ragione di vita del proprio potere partitocratico, del proprio occupare potere (e quindi del proprio farsi occupare dal potere); che rimane in ultima analisi il solo obiettivo cui esso può guardare come a proprio mito. Con tutto ciò, evidentemente - va detto per evitare possibili equivoci - il ruolo del Pci negli ultimi anni non è stato assimilabile a quello della Dc nel regime democristiano. La Dc costituiva allora l'asse, il punto di riferimento di ogni alleanza o progetto di alleanza di governo, sia per la sua forza che per il suo identificarsi con le istituzioni e, insieme, con le alleanze internazionali dell'Italia, con la scelta di civiltà dell'integrazione nell'occidente a egemonia americana. Il Pci non è il cuore del potere: non controlla il governo, né i grandi centri del potere economico-finanziario. Ha esercitato ed esercita, però, la funzione di fulcro, di partito-guida, di animatore e coordinator
e degli sforzi condotti dai più vari versanti politici per impedire che sia messa in discussione la logica partitocratica del regime. Solo per questa via può sperare che - grazie alla degenerazione necessaria delle istituzioni e dei partiti stessi che la partitocrazia comporta, grazie alla propria maggiore coesione e alla forza che gli danno i suoi legami di massa - gli sia possibile conquistare gradualmente una posizione in tutti i sensi centrale che ne faccia il nuovo "partito dello Stato", il nuovo "partito-Stato". E di quale tipo di regime, di partito-Stato e di Stato ne uscirebbe è inutile - date le premesse - persino parlare. In questa chiave, semmai, il Pci può incontrarsi con i ricorrenti disegni di Eugenio Scalfari; il quale auspica che esso, il tutore degli equilibri partitocratici, sia pronto ad approfittare del degenerare della partitocrazia per proporsi, con la propria classe dirigente e i propri legami con la società, come il supporto organico alla soluzione, nel Paese, di nuova autorità che so
stituisca l'inefficienza fallimentare della partitocrazia, qual è oggi.
Queste, le ragioni di fondo per cui chi, come i radicali, si batte in nome del diritto e della democrazia contro il regime partitocratico, incontra come avversario principale il Pci, e non può non perseguire come obiettivo essenziale quello di sconfiggerne la prima pretesa: il diritto di veto. Il criterio di fondo, a ben vedere, è lo stesso che animava la battaglia contro il regime democristiano. Oggi, come allora quando si trattava di spezzare il monopolio democristiano del potere, l'obiettivo è giungere al confronto fra una maggioranza che sappia e possa governare davvero assumendosi la responsabilità piena delle sue scelte, e un'opposizione che faccia l'opposizione, potendosi candidare non per finta a diventare essa maggioranza di governo: condizioni, queste, perché nella gestione dello Stato si abbiano l'efficienza che nasce dalla responsabilità e l'interesse di ciascuno al rispetto delle comuni regole del gioco, ossia del diritto uguale per tutti. In questa luce, non può non risultare chiaro come una me
desima logica ispiri i due tentativi perseguiti in queste settimane dal Partito Radicale, assicurare un'affermazione antipartitocratica alle elezioni attraverso le liste verdi e battere il referendum indetto a tutela del diritto di veto comunista. E in questo medesimo ambito assume tutto il suo risalto la questione della collocazione del Pr, oggi, negli schieramenti politici. L'altro dato fondamentale di cui tener conto da questo punto di vista - oltre a quanto si è detto circa il ruolo del Pci - è che lungo l'ultimo anno si è assistito al delinearsi di fenomeni di effettiva, sia pure ancora timida, fragile e contraddittoria, "resipiscenza" nell'area pentapartita della partitocrazia. Non si può negare infatti che dal governo e da parte della sua maggioranza siano stati condotti se non altro alcuni consistenti tentativi di praticare scelte secondo dinamiche diverse da quelle tipiche della consociazione partitocratica, assumendosi la responsabilità di scegliere sfidando veti e richieste di compensazioni di par
titi e corporazioni. Se anche in buona parte non si è potuto o voluto andare sino in fondo, di questo tipo erano le premesse per provvedimenti come quello sulla contingenza e quello sulla fame nel mondo che, in modi diversi, urtavano il veto del Pci, e come la legge Visentini, che si scontrava con quello dei commercianti. Segni tutti di aspirazioni, quanto meno, ad uscire dalla crisi della partitocrazia per la strada del ristabilimento delle regole democratiche.
Su questo piano, com'era logico avvenisse, si sono verificati momenti di convergenza tra i radicali e settori della maggioranza: convergenze attraverso cui sono passati gli straordinari successi politici che il Pr ha conosciuto quest'anno. Solo con "alcuni" settori della maggioranza, certo; fosse stato con l'intero pentapartito la legge contro lo sterminio sarebbe la "nostra" legge, non quella che è. Del resto momenti di convergenza - sarebbe ingiusto dimenticarlo - si erano avuti anche con elementi dell'area comunista della partitocrazia - e si pensi all'incontro con tanti sindaci comunisti sulla fame. Ma quelle componenti dell'area comunista che avevano accettato di stare al nostro fianco sono state sconfitte su questo nel loro partito, rimanendo schiacciate o dovendo rimangiarsi le loro di posizione; mentre quelle di area pentapartita hanno trovato la forza e lo spazio per condurre la battaglia, se non fino al successo pieno almeno fino a risultati consistenti. Non è, tutto sommato, differenza da poco. Al
lora si può parlare di radicali vicini al pentapartito, o addirittura dentro il pentapartito? Il problema, evidentemente, non può essere questo. Ha ragione Gianni Baget-Bozzo quando scrive ("La Repubblica", 23 aprile) che il complesso di sviluppi riassumibile nella formula "Pannella governativo" costituisce segno di realtà nuove che stanno emergendo.
La nomina di Pannella a sottosegretario contro la fame, afferma Baget-Bozzo, varrebbe come annuncio d'un avviato superamento del principio delle maggioranze chiuse; giudizio condivisibile, a patto di intendere un tale superamento in un senso decisamente alternativo a quello trasformistico secondo il quale tante volte, in passato, esso è stato usato. In gioco è infatti la possibilità di un'ampia riforma del sistema politico e dei suoi equilibri profondi. Se si ripensa serenamente agli eventi di questi mesi non si può non convenire che non si è verificato alcun aggregarsi dei radicali al pentapartito. Vero che in alcune occasioni i radicali hanno operato da forza di maggioranza; ma non perché si siano accodati ai sostenitori del governo, bensì perché su punti specifici - però di grande e generale rilievo politico - hanno saputo aggregare essi intorno a sé stimolatori e fulcro di maggioranze nuove, parte del pentapartito. In primo luogo sullo sterminio, si è creata una maggioranza grazie al convergere di forze
governative intorno alla posizione radicale; anche se in una maggioranza piena di debolezze, aperta a incursioni altrui, e che perciò - come è in genere regola per le maggioranze in Italia - non ha trovato la compattezza sufficiente per far passare intera la propria posizione e ha dovuto scendere a compromessi. Si tratta di un'indicazione di grande importanza, in termini di metodo e di tendenza. Uno dei massimi problemi per la vita politica e per la società italiana nasce dal fatto che, paradossalmente, la partitocrazia ha ucciso i partiti: i quali, trasformatisi in macchine per occupare, presidiare e gestire ogni possibile spazio e centro di potere, hanno in gran parte finito per perdere la loro ragion d'essere prima, quella di organizzare ed esprimere le "parti" politiche, di essere "soggetti" politici, di consentire ai cittadini la scelta tra grandi e diverse opzioni di governo, e su di esse - sulle "cose", nel senso migliore - permettere loro di dividersi in maggioranze e minoranze e in definitiva di gov
ernare e autogovernarsi. Proprio questo hanno saputo fare i radicali: creare schieramenti, maggioranze e minoranze su questioni di fondo, su linee di governo. Ha senso, al di fuori degli interessi di bottega di qualche Capanna, l'obiezione che così, perso il nostro posto di opposizione, saremmo protagonisti di un nuovo trasformismo? Difficile sostenerlo, almeno se si intende il termine "trasformismo" nell'accezione usuale, di "pratica compromissoria" priva di dignità politica e ideale, elusiva delle scelte; chè la "trasformazione" che i radicali promuovono si prospetta come l'opposto speculare del trasformismo (ma, per contro, non è poi priva di suggestioni l'interpretazione crociana del trasformismo italiano di un secolo fa come scomposizione e ricomposizione dei partiti in funzione dei problemi nuovi e come superamento di divisioni vecchie).
In questo senso, l'autocandidatura di Pannella a sottosegretario contro la fame appare non mossa marginale ed episodica: è stato il gesto di consapevolezza e responsabilità di chi, promotore di una nuova maggioranza finalmente politica e non mero potere, invitava questa maggioranza a prendere piena coscienza di sé e a candidarsi come tale a gestire la propria scelta di governo. Gesto emblematico dunque, che definisce i lineamenti e la portata di un progetto politico: il progetto che persegue una ricomposizione del quadro politico italiano attraverso il maturare di schiarimenti, di maggioranze e minoranze di qualità nuova come sola via d'uscita democratica dalla degenerazione e dall'impotenza della partitocrazia. A questa stregua non si può non vedere come tanti aspetti del disegno radicale che potrebbero sembrare eterogenei si combinano tra loro con coerenza rigorosa: dalla battaglia contro lo sterminio (per quanto concerne i suoi risvolti di politica interna italiana), alla lotta antipartitocratica nelle su
e forme, dalla promozione di nuove realtà politiche come i Verdi, anche scontando i rischi della "concorrenza", alla sfida al Pci e al rapporto con il governo Craxi o con parti del mondo cattolico. La duplice idea-forza è che dalla crisi per putrefazione non si esce se non restituendo nobiltà alla politica col determinare incontri e scontri, maggioranze e minoranze, e in sostanza nuove "parti politiche", intorno a valori; e insieme chiamando a lottare e ad avere il coraggio di vincere quanti sentono che occorre con urgenza rompere in senso democratico-liberale la "costituzione materiale" della partitocrazia degenerante. Questo, e non altro, il senso della "nuova" collocazione politica dei radicali; il cui scopo, in sintesi, sta nello stimolare e guidare la rottura dell'omertà partitocratica e preparare una successione democratica al regime partitocratico, fondata su un nuovo sistema di nuovi e "veri" partito che possono e debbono nascere dalla crisi della partitocrazia (non si pensi solo al sorgere di un par
tito verde: quante preziose energie democratiche può liberare una sconfitta della politica partitocratica del Pci? quante forze già si muovono, nel mondo cattolico, non secondo logiche di regime ma aggregandosi sui valori? e così via). Non possiamo non avere consapevolezza piena che per questa via i radicali indicano la sola alternativa a quei disegni di "nuova autorità" che Scalfari e i sui alleati prospettano come via d'uscita all'incapacità di questo regime di governare il Paese.