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Manconi Luigi - 19 luglio 1985
Il partito e l'impossibilità di essere radicali
di Luigi Manconi

SOMMARIO: Una "profonda insoddisfazione", osserva Manconi, percorre ormai quella che è, o è stata, la "audience" radicale, cioè quel confuso e indistinto "movimento radicale" ("un complesso di domande ed umori, di sentimenti ed opzioni, di rivendicazioni e interessi") su cui il partito di Pannella ha contato rappresentandone la presenza e le esigenze. Questo intreccio di temi si è espresso, in un ventennio, con diverse manifestazioni:a) l'istanza laica e secolarizzante; b) un insieme di conflitti, trasversali rispetto alle stratificazioni sociali;3) domande e forme di mobilitazione sottratte alle consuete compatibilità politico/economiche del sistema.

Anche quando non si facevano rappresentare, a livello istituzionale, dal partito radicale, queste esigenze si rapportavano sempre ad esso: ebbene, è in questi ambiti che oggi si manifesta acuta l'insoddisfazione. Ad essa, però, il gruppo istituzionale del partito non ritiene che si debba dare né risposta né soddisfazione.

Ma se il gruppo istituzionale non si sente legato (forse correttamente) da alcun "mandato imperativo", occorrerà pure che esso giustifichi i due elementi fondanti della propria "strategia": "Il gioco a tutto campo e la manovra di governo". Perché ciò accada occorre che l'operazione "risulti vincente", il che non sembra che oggi avvenga. Dunque, il "rischio" che oggi il partito radicale corre è assai grosso: la sua "costituzionale precarietà, finora rivelatasi ragione di forza" può tradursi in "motivo di debolezza", esponendo il partito a ricatti di tipo, diciamo, governativo.

(IL MANIFESTO, 19 luglio 1985)

Massimo Teodori, deputato radicale, mi ricorda molto opportunamente qualcosa che so, ma che è necessario tenere presente quando del partito radicale si vuol parlare senza pregiudizi e con serietà: »noi non siamo - dice Teodori - l'espressione istituzionale, la proiezione in parlamento, il prolungamento partitico di un movimento della società civile. Siamo, piuttosto, un gruppo politico che agisce a livello centrale e che, quando è efficace, riesce a `creare' tendenze, correnti d'opinione, orientamenti collettivi .

D'accordo: il Pr è, innanzitutto, un gruppo di pressione - una "lobby democratica", la definirei - e non la rappresentanza parlamentare di un movimento collettivo, ma il richiamo a questa sua costituzione originaria non lo mette al riparo dai sentimenti di profonda insoddisfazione che percorrono attualmente la sua "audience" (il termine, in questo caso, fa riferimento non solo al bacino politico ed elettorale del Pr, ma proprio alla sua "area d'ascolto" in senso ampio: quella di Radio radicale, straordinariamente dotata di capacità di attrazione e mobilitazione).

"Perché questo è" il problema: al di là delle dichiarazioni intenti della leadership del Pr, esiste in Italia qualcosa di simile a un "movimento radicale". Vale a dire, un complesso di domande e di umori, di sentimenti e di opzioni, di rivendicazioni e di interessi. Questo intreccio di "issues" si è presentato, in un ventennio, sotto le manifestazioni più diverse, e così sommariamente sintetizzabili:

a) come istanza laica e secolarizzante, indirizzata verso la modernizzazione del costume, delle strutture istituzionali e del quadro legislativo (mobilitazione per il divorzio e per l'aborto, contro il Concordato e contro il codice Rocco);

b) come insieme di conflitti che prescindono dall'insediamento di classe e dai patrimoni ideologici, che tagliano trasversalmente le stratificazioni sociali, che tendono ad esaurirsi nello spazio e nel tempo degli obiettivi perseguiti, che affrontano questioni attinenti l'identità individuale e relazione (movimenti etnici e movimenti civici, movimenti ecologici e antinucleari; attivizzazione delle minoranze sessuali; contestazione delle istituzioni totali);

c) come domande e forme di mobilitazione sottratte alle consuete compatibilità politiche ed economiche del sistema e alle procedure tradizionali dell'azione collettiva (opposizione alle spese militari e richiesta di investimenti per la fame nel mondo; stili di lotta individuali e di piccolo gruppo; iniziative »testimoniali ; disubbidienze civili e obiezioni di coscienza).

"Di tutto ciò", evidentemente, solo una parte ha trovato e trova la sua trascrizione politico-elettorale nel Pr; altre quote di queste "tendenze" - quando »costrette a tradursi in politica - scelgono sedi più tradizionali (il Pci, massimamente), ma continuano ad affidare al Pr una funzione di rappresentanza "ideale e simbolica", in prevalenza occasionale e circoscritta, ed essenzialmente proiettata su una dimensione »testimoniale . (Sta qui una delle ragioni di quell'affollarsi di telefonate risentite e rivendicative di elettori comunisti nelle fasi di più acuto conflitto tra Pci e Pr: e trovo un segnale davvero regressivo il fatto che Giovanni Negri, nel corso dell'ultimo consiglio federale, le abbia attribuite all'accorta regia del Pci). Ora, quel rapporto tra il Pr e la sua area d'ascolto - intesa in quel senso ampio che si è detto - sembra logorato.

La "audienze" sembra voler far "sentire" le sue ragioni: pretende di far valere i suoi diritti, di esercitare le sue opzioni di affermare le sue pretese su un »politico che non riconosce alcun vincolo rigido e imperativo, e soprattutto alcun »dovere di rappresentanza lineare nei confronti del »popolo radicale . Non è una situazione del tutto inedita: intorno alla metà degli anni '70, analogo meccanismo si instaurò nel rapporto tra il »popolo di sinistra e il Pci: e quest'ultimo fu oggetto di un "surplus" di domande e di rivendicazioni che strati e gruppi sociali, categorie e associazioni riversarono su quello che assumevano come il proprio rappresentante istituzionale - del tutto indipendente dal rapporto organizzativo ed elettorale realmente intrattenuto col Pci.

"Nel caso del Pr", l'attuale risposta politico-istituzionale a queste »illegittime pretese è singolare: sembra volerne prescindere totalmente. C'è in questo, a mio avviso, anche una »dichiarazione teorica interessante. Si vuole affermare, presumo, l'irriducibilità dello scarto tra azione nella società e comportamento istituzionale, tra attivazione collettiva e trattativa parlamentare: il fatto, appunto, che la seconda non è, non possa essere, trascrizione (o proiezione o prolungamento) della prima. Col che si fa, provvidenzialmente, giustizia di un luogo comune della cultura di sinistra che ha alimentato infiniti equivoci e qualche disastro.

Ma per fare questo, il Pr non deve solo dichiararsi sciolto da qualunque »mandato elettorale imperativo . Deve tradurre in strategia - cosa che, appunto, sta cercando di fare - due elementi fondanti la propria tattica: il gioco a tutto campo e la manovra di governo.

Vale a dire, la capacità di aggregare eccentricamente rispetto alle fedeltà e agli schieramenti consolidati - categorie e gruppi, correnti culturali e opzioni ideologiche, e settori del sistema politico e di potere, in una prospettiva di riformismo amministrativo tutto focalizzato »sulle cose e tutto concentrato sul piano parlamentare e di governo.

Ma ciò richiede una sola condizione: che l'operazione risulti vincente a quel livello politico-istituzionale dove viene giocata. Questo è il punto. Se ci si concentra su quella sfera, il »ritorno (come dicono i pubblicitari) è lì che va perseguito: non può essere, surrettiziamente e tardivamente, reclamato altrove (avendo partecipato alla manifestazione per Giorgiana Masi il giorno della nomina di Francesco Cossiga a presidente della repubblica, so quanto pochi eravamo). Sia chiaro: non sto affermando che il Pr è filogovernativo o subalterno ai socialisti ("questa" opposizione non meriterebbe di meglio); dico che, su quel piano, "tertiur non datur". O si vince o si perde: nella contabilità quotidiana dei risultati conseguiti, degli esiti ottenuti, dei rapporti di forza modificati.

"Il rischio per il Pr" è uno, ma grosso: che la sua costituzionale precarietà, finora rivelatasi ragione di forza, si traduca in motivo di debolezza. In altri termini: l'assenza di un insediamento sociale privilegiato e di un elettorato identificabile dal punto di vista economico-produttivo e culturale-ideologico è stata finora una "chance" preziosa per il Pr, la ragione prima della sua eccezionale sensibilità (porosità, direi) rispetto a quanto si manifestava nei »mondi vitali , lungo le periferie, tra le minoranze; e la garanzia fondamentale - e materiale - della sua inclinazione all'impopolarità e all'anticonformismo. Ma ciò ha fatto finora, del Pr, non un partito senza gambe ma un millepiedi, non un senza casa ma un nomade: insomma, non una leadership spaesata ma un soggetto cosmopolita che trascorre, sì, da un insediamento sociale all'altro ma senza ignorarne alcuno.

Nella riunione dell'ultimo consiglio federale, qualcuno ha detto: il Pr non può più essere il partito dei tavoli (quelli per la raccolta delle firme, naturalmente). Ma se si rinuncia ai tavoli e se si escludono le poltrone, decentemente e seriamente, arredare la sede di un partito che non si voglia partitocratico?

 
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