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Panebianco Angelo - 2 agosto 1985
STRANIERI IN PATRIA
di Angelo Panebianco

L'IDENTITA' E LA POLITICA RADICALE SECONDO UN POLITOLOGO

"AL PR NON PIACE PIU' LA SINISTRA, ALLA SINISTRA NON PIACE PIU' IL PR". LUIGI MANCONI E MAURO PAISSAN SUL MANIFESTO DELL'11 LUGLIO DAVANO AVVIO A UN DIBATTITO SULLA PIU' RECENTE POLITICA DEL PARTITO RADICALE, NEL QUALE SONO FINORA INTERVENUTI MARCO PANNELLA, GIANLUIGI MELEGA E FILIPPO GENTILONI. OGGI PUBBLICHIAMO QUESTA LUNGA ANALISI DI ANGELO PANEBIANCO, POLITOLOGO, DOCENTE ALL'UNIVERSITA' DI BOLOGNA. IL PROSSIMO INTERVENTO SARA' DI LANGER.

SOMMARIO: Intervenendo in un dibattito aperto sul "Manifesto" da M. Paissan e da L.Manconi in merito ai rapporti tra p. radicale e sinistra, A. Panebianco sostiene la tesi della "estraneità culturale dei radicali rispetto al contesto, quello italiano, in cui trovano ad operare". La tesi viene corroborata da una analisi relativa a tre punti: 1) Nel 1979, il p. radicale non fu vincitore, ma subì "una sconfitta politica", perché quel 3,4% conquistato non fu sufficiente "per determinare quell'operazione di 'sfondamento' sul sistema dei partiti cvhe era il vero obiettivo strategico dei radicali". I radicali insomma falliscono il loro obiettivo più ambizioso, "la ristrutturazione del'identità della sinistra italiana"; 2) Rapporti col Psi. Purtroppo, il Psi di Craxi, "come del resto il Psi di De Martino, Lombardi e Mancini non è...quella grande forza 'socialista e libertaria, alla cui costituzione i radicali hanno teso". 3) I radicali hanno sempre concepito se stessi come "partito di governo", con un comportamento

che puntava a "maggioranze politiche su specifici progetti" e per questo era ed è profondamente estraneo a una cultura, quella italiana, che pensa sempre "globalmente", in termini di "Grande Progetto".

In realtà, i radicali sono considerati, razzisticamente, come dei "diversi", senza che nessuno si curi di verificarne le origini culturali e politiche, da C.Cattaneo a E.Rossi. La loro è una cultura "protestante" in un paese "cattolico", che fa appello alla "sacralità delle regole", allo "Stato di diritto", ecc. In ciò è "la loro forza" ma anche "la loro debolezza", ciò che li rende estranei al paese.

(IL MANIFESTO, 2 AGOSTO 1985)

Il dibattito sul Partito radicale aperto da un'abile "provocazione" di Mauro Paissan e da un intervento di Luigi Manconi ricchissimo di spunti merita di essere continuato. Per parte mia toccherò un aspetto a mio giudizio centrale per porre nella giusta luce quei dilemmi politici acutamente evidenziati da Manconi. La tesi che intendo sostenere è quella della estraneità culturale dei radicali rispetto al contesto, quello italiano, in cui si trovano ad operare. Prenderò le mosse da tre problemi di carattere squisitamente politico e tuttavia importanti per individuare le "coordinate" di una cultura politica "altra" rispetto all'ambiente circostante.

1) Il "successo" elettorale del 1979. Contrariamente a ciò che ritiene una radicata communis opinio, è mia ferma convinzione che nelle elezioni del 1979 i radicali subirono una sconfitta politica. Certo, si trattò di un exploit elettorale, tenuto conto della vischiosità dei comportamenti elettorali in Italia, ma anche di una sconfitta politica. Perché? Perché quel 3,4% (poi bissato alle europee dell'84) non fu sufficiente per determinare quell'operazione di "sfondamento" sul sistema dei partiti che era il vero obiettivo strategico dei radicali. Quel 3,4% fu insufficiente a provocare l'onda d'urto che, nell'intenzione radicale, avrebbe dovuto portare a una ristrutturazione, niente di meno, dell'intera sinistra italiana. Che questo sia accaduto perché l'operazione era comunque impossibile in questo paese o perché i radicali si trovano di fronte, nel '79, il petto forte del Psi di De Martino non ha, per il problema che sto discutendo, molta importanza. Certo è che la combinazione fra successo elettorale e scon

fitta politica che si realizzò nel 1979 ebbe una parte di rilievo nelle difficoltà radicali del periodo successivo. Perché sollevo questo punto? Perché occorre capire che a differenza dei vari topolini ben felici di vivacchiare (grazie anche alla proporzionale) al centro o ai margini della torta di formaggio, i radicali nascono (e vivono) con una vocazione "maggioritaria", con una volontà di determinare macrotrasformazioni all'interno del sistema politico. Innovazioni di enorme portata sono state introdotte grazie a questa vocazione (divorzio, aborto, fame nel mondo parlano per tutte) salvo quella specifica innovazione, la ristrutturazione della identità della sinistra italiana, che avrebbe dovuto dare una direzione e un senso il più possibile unitario a tutte le altre. La forbice fra una vocazione maggioritaria e una estraneità culturale che per parte sua pone limiti probabilmente invalicabili è, credo, il vero dilemma politico dei radicali.

2) I rapporti con il Psi. E' il punto che più scandalizza (riprendendo una definizione di Sciascia) il "il cretino di sinistra", quello per intenderci che in questi anni ha creduto davvero ai messaggi Unità-Repubblica (e annessi vignettisti) su Craxi uguale a Mussolini. Se si esclude il periodo '81-'83 in cui i socialisti, sbagliando i calcoli, credettero di poter "fare fuori" i radicali, un fatto è certo: dalla Lega per il divorzio degli anni sessanta al caso di Enzo Tortora (che è poi il "caso" della giustizia in Italia) quello socialista è il partito che più spesso si è unito alle battaglie di libertà suscitate in questo paese dai radicali. I rapporti privilegiati con il Psi, o a volte con taluni suoi settori, nascono precisamente da questa periodica disponibilità socialista. Il che non impedisce ovviamente di riconoscere che il Psi di Craxi, come del resto il Psi di De Martino, Lombardi e Mancini (ma chi ha letto Salvemini sa che questo è vero anche per il Psi di Turati) non è affatto, neppure lontaname

nte, quella grande forza "socialista e libertaria" alla cui costituzione i radicali hanno teso e che probabilmente, a causa dei riflessi culturali profondi di questo paese, non potrà nascere mai.

3) I radicali come partito di governo. A differenza dei partitini sedicenti rivoluzionari (dal Pdup a Dp) destinati a rappresentare null'altro che esigue schegge ai margini del mare magnum della cultura comunista, i radicali hanno sempre concepito se stessi come partito di governo: nel senso di un partito che cerca di volta in volta le alleanze (con chi ci sta) per introdurre le innovazioni politico-istituzionale ritenute necessarie. Dalla alleanza con parlamentari di partiti laici governativi (Psi e Pli) sulla legge del divorzio a quella con Piccoli (e con settori del mondo cattolico) sulla legge per l'intervento straordinario per la fame nel mondo, fino alla offerta di Pannella di assumere la carica di sottosegretario istituita da quella legge (e, nel mezzo, obiezione di coscienza, aborto, ecc.) metodo e stile politico radicali non hanno mai conosciuto, su questo punto, soluzioni di continuità. Sembrerebbe semplice da capire. Eppure è un altro punto che solleva tradizionalmente le più forti perplessità, pe

r ragioni, ritengo, squisitamente culturali. In una cultura "hegeliana" come è tutt'oggi la nostra, un'azione politica costantemente tesa a vincere battaglie di civiltà (ma nel solo modo possibile, e cioè una alla volta) con qualsiasi maggioranza sia possibile aggregare sulla battaglia del momento, risulta evidentemente incomprensibile. In una cultura hegeliana infatti, ciò che conta è la costruzione del Grande Progetto (incarnazione dell'Idea) che salda un grande e stabile "blocco storico" e per questa via trasforma in un colpo solo l'intero paese. Nulla di più estraneo per i nipotini di Hegel, che ieri come oggi hanno il problema di "pensare globalmente" (con riferimento alla "totalità", al Sistema), di un gruppo politico che tratta tanto il Sistema quanto il Progetto per ciò che sono (e cioè parole vuote di significato) e che non punta ad aggregare stabili "alleanze sociali" bensì maggioranze politiche su specifici progetti (al plurale). Così come, del resto, ai loro nonni era culturalmente estraneo il "c

oncretismo" salveminiano.

La forbice fra le maggioranze che il Pr ha saputo periodicamente suscitare nel paese, dal divorzio alla fame nel mondo e quel tre e mezzo per cento di consensi elettorali al Partito radicale, illustra il paradosso radicale: il gruppo politico che crea di volta in volta maggioranze nel paese intorno a specifiche battaglie è lo stesso gruppo politico perennemente "condannato", come nota acutamente Manconi, all'impopolarità e all'anticonformismo. Ciò che ha sempre impedito e che impedisce, se non di colmare, quanto meno di ridurre, quella forbice è, a mio giudizio, l'estraneità dei radicali alle tendenze politico-culturali dominanti (a sinistra come a destra) in questo paese. Questa estraneità viene certamente da lontano; essa spiega perché, dall'ottocento ad oggi, nelle fasi in cui sono esistiti, i radicali sono sempre stati, come gruppi organizzati intendo, una esigua minoranza.

E' tipico delle minoranze che la loro cultura politica non sia riconosciuta come tale. Come qualsiasi sociologo della devianza può spiegare la quintessenza del razzismo consiste nel negare dignità dell'altro, lo "straniero", la minoranza deviante che non intende piegarsi agli usi e costumi devianti. E' il meccanismo in base al quale ogni azione radicale è per lo più trattata come "invenzione", "boutade", senza che mai o quasi mai l'osservatore sia disposto a "mettere in parentesi" i propri pregiudizi e a chiedersi se per caso quella cosiddetta invenzione non abbia una sua propria logica e una sua propria dignità una volta collocata all'interno della cultura "altra" (quella radicale, appunto).

Quante sciocchezze (e quante calunnie), ad esempio, si sarebbero potute evitare in questi anni se a qualcuno fosse venuto in mente - a proposito di fascismo e antifascismo - di andare a vedere che cosa aveva detto e scritto su questi tabù nazionali Ernesto Rossi (con nove anni alle spalle nelle galere fasciste e quattro di confino). Al posto del "radical-fascismo" si sarebbe allora vista una continuità, culturale prima ancora che politica, fra i radicali di oggi e quelli di ieri. Analogamente molte cose sarebbero state più chiare a molti se la guerra radicale contro la gestione consociativa del parlamento e contro l'esistenza di poteri di veto dell'opposizione ufficiale (quella comunista) nei confronti della maggioranze e dei governi fosse stata collocata, dai commentatori, nel suo giusto posto: all'interno di una lunga tradizione radicale, dalle polemiche di Carlo Cattaneo contro il "connubio" cavouriano a quelle di Salvemini contro Giolitti antitrasformista.

Nella sua essenza il nocciolo della estraneità radicale consiste in questo: si tratta di una cultura di tipo protestante immersa in un universo (interamente) cattolico. Nella cultura cattolica invece tale rapporto è mediato da una burocrazia specializzata (un clero), un corpo composto da professionisti della mediazione. Non è affatto un caso, sotto questo profilo, che soprattutto nei paesi cattolici, nei paesi della Controriforma, hanno ottenuto più successo, in occidente, quelle particolari burocrazie di professionisti della mediazione (in questo caso con la Storia, il Progresso e la Rivoluzione) che sono stati per lungo tempo i partiti comunisti.

Secolarizzando, per così dire, questo discorso si arriva a capire l'enfasi radicale sulla responsabilità etico-politica individuale, attribuita in quanto tale al singolo cittadino al di fuori, e se necessario contro, le burocrazie mediatrici. Si arriva a capire anche il "naturale" matrimonio fra i radicali e referendum (a integrazione e non contro la democrazia rappresentativa, anche se certamente contro le sue degenerazioni italiane): perché nel referendum è il singolo cittadino, nella sua solitudine, che decide (e che decide eventualmente, aggiungo, anche di astenersi) anziché il burocrate autorizzato ad amministrare le anime, sia esso il parroco o il funzionario di federazione. E si capisce, infine, il richiamo radicale alle radici "puritane" della democrazia, intendendo con ciò la necessità di riscoprire la "sacralità" delle regole e delle procedure della democrazia.

Ora è certo che il richiamo alla sacralità delle regole è incomprensibile in un paese in cui le culture dominanti si fondano sul disprezzo delle regole, sulla ricerca del risultato quale che sia il prezzo, in termini per esempio di legalità culturale per spiegare la "violenta" difesa che i radicali hanno sempre fatto della costituzione scritta, formale, contro le "prassi" consolidate (e per lo più incostituzionali) della costituzione materiale.

Ed è la stessa chiave che spiega il richiamo ossessivo dei radicali allo Stato di diritto, massacrato dalle azione congiunta delle culture dominanti.

Il quadro che emerge è dunque quello di una "anomalia": un gruppo politico erede di una tradizione che in Italia è sempre stata di estrema minoranza, rispetto alla quale esso ha peraltro anche innovato (mi riferisco, ovviamente, alla nonviolenza), un gruppo portatore di una specifica utopia: la "torsione" del regime italiano nella direzione propria delle democrazie anglosassoni, dove i governi governano da soli e l'opposizione fa soltanto l'opposizione nell'attesa credibile di diventare maggioranza al round successivo. E, su questo sfondo, la costituzione di una grande forza politica che potesse fondere il meglio di due tradizioni: quella radicale e quella socialista.

E' in questa anomalia che consiste il paradosso radicale. Perché l'estraneità culturale dei radicali rispetto alla gran parte di ciò che li circonda è al tempo stesso fonte della loro forza e della loro debolezza.

La forza: la capacità di "spiazzamento" sistematico, grazie a una sensibilità altra rispetto ai fenomeni politici, delle forze politiche consolidate. Le leghe-ambiente, con il loro bravo stuolo di solerti burocrati, arrivano sempre dopo: anche se ho pochi dubbi, detto per inciso, che alla fine a vivere sono proprio le leghe-ambiente, molto più omogenee rispetto al "contesto". Questa capacità di spiazzamento delle forze politiche consolidate spiega le ricorrenti maggioranze radicali nel paese, dal divorzio alla fame del mondo.

La debolezza: la capacità di parlare al "cuore", interpretando per esempio le esigenze di libertà degli italiani, assai più che al "cervello". Perché per rivolgersi al cervello occorre parlare la stessa lingua dell'interlocutore. E ho pochi dubbi sul fatto che i radicali parlano invece un vernacolo foneticamente identico a quello in uso presso gli altri indigeni ma in cui sono diversi i significati di molte parole. E' difficile, per esempio, in un paese cattolico, per di più del tutto privo di senso dello Stato, fare capire che cosa si intende per "sacralità" delle regole.

Marco Pannella (da ultimo, proprio sul "il manifesto") fa insistentemente una richiesta ai suoi avversari politici: "attaccateci anche duramente, ma attaccateci per ciò che siamo e non per ciò che non siamo". E', credo, una del tutto legittima richiesta di "rispetto" della propria identità. Ma è anche una richiesta che quasi mai è stata soddisfatta in passato e che difficilmente potrà esserlo in futuro. Spesso i radicali sottovalutano questo aspetto scambiando per malafede (la quale c'è anche, eccome) quella che sovente è genuina incomprensione.

Su questa situazione che di per sé rende, per esempio, tradizionalmente assai poco "comunicanti" i radicali e la gran parte degli intellettuali italiani (Pasolini, Sciascia e pochi altri sono le eccezioni) si è innestata anche, va detto, una deliberata scelta politica, in una qualche misura costitutiva del Partito radicale di oggi, quello nato negli anni sessanta. Anche per reazione all'intellettualismo dei radicali degli anni cinquanta, dei radicali del Mondo, la scelta fu quella, fin dall'inizio, di "saltare la mediazione" dei leaders d'opinione, nel tentativo di parlare direttamente agli ordinary people, alla gente comune. Ma il tentativo di aggirare coloro che istituzionalmente mediano la comunicazione fra politica e cittadini per cercare una legittimazione diretta e senza filtri, se ha certo contribuito anch'essa in passato a dare forza comunicativa ai radicali, comporta anche, alla lunga, prezzi molto alti: come provano i periodici "giochi al massacro" che i mass media praticano sull'identità radicale.

Certo, si trattò anche di fare di necessità virtù: un partito culturalmente altro e politicamente antiregime, che non pratica l'occupazione dello Stato, non ha obiettivamente molto da offrire agli intellettuali (intendendo il termine nel senso più lato), i quali non sono puri spiriti anche se talvolta si atteggiano a tali, né mediamente molto propensi all'anticonformismo. E tuttavia quella scelta, sia pure in una certa misura necessitata, non ha sicuramente facilitato il rapporto fra i radicali e settori non irrilevanti del paese, contribuendo a mantenere ampia la forbice di cui ho parlato.

Mi accorgo, giunto alla fine, di non avere dato risposta al quesito posto da Manconi: "Se si rinuncia ai tavoli e se si escludono le poltrone, quale altro mobilio può, decentemente e seriamente, arredare la sede di un partito che non si voglia partitocratico?": Forse perchè la risposta non c'è, e comunque io non la possiedo.

 
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