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Langer Alexander - 7 agosto 1985
Non possiamo non dirci radicali
di Alexander Langer

SOMMARIO: C'è chi sente "la puzza sotto il naso" quando sente qualcuno che si professa "amico dei radicali": ma da qualche tempo sembra vi siano "pentiti" che da antiradicali tentano di diventarne "emuli", come Mario Capanna o Filippo Gentiloni. O come i pacifisti che ora spostano la loro attenzione dall'asse est-ovest a quello nord-sud, o i "verdi" che scoprono con ritardo i referendum antinucleari dei radicali, o anche certi cattolici, ecc. Pare che oggi si scopra il "perché non ci si possa non dire radicali..." Perché, però, la collaborazione con loro "appare così difficile?" Vi sono ragioni "epidermiche" ed altre più sostanziali, ma ora occorre che "tanti intellettuali, sindacalisti", ecc., rivedano il loro atteggiamento di fondo. Certo, il Pr "è sostanzialmente identificabile nel suo gruppo dirigente", troppo "compatto" e "partitista", che tende a "strumentalizzare tutto". E forse tra qualche tempo esso potrebbe aver esaurito "la sua spinta propulsiva": ma chissà che il Pr "per primo non darà per primo

il via ad un rimescolamento trasversale" tra i partiti...

(IL MANIFESTO, 7 agosto 1985)

Confesso che a volte sento un certo imbarazzo a confessare che sono "amico dei radicali" (calma, non lo sono sempre e ad ogni costo...). A tanti nella sinistra, ed anche tra i verdi o altri abitanti del pianeta politico, viene subito un po' di puzza sotto il naso. Anche "il manifesto" sembra aver cambiato atteggiamento di fondo solo da quando ha sperimentato in un momento esiziale della propria storia la decisiva solidarietà radicale, che ha costretto tanti altri a sganciare quattrini in favore della sopravvivenza di un giornale non certo filo-radicale.

Eppure, da qualche tempo in qua, mi sembra di scorgere molti "pentiti" che da antiradicali che erano stati una volta, ora tentano di diventarne emuli - contenti poi che le scelte tattiche contingenti del Pr permettano loro di prenderne ugualmente le distanze. Valga per tutti l'esempio un po' patetico di Mario Capanna che fa ostruzionismo in parlamento ed occupa la Camera, si è convertito ai sit-in non-violenti ed ai referendum, esalta l'obiezione di coscienza e si batte contro il finanziamento ai partiti.

L'articolo di Filippo Gentiloni sul manifesto del 25 luglio ("Il radicale di poca fede") sembra quasi una professione di tardivo e mai espresso amore e di occasione mancate: "sero te amavi...". Succede a molti, mi pare. I pacifisti finiti nel vicolo cieco della battaglia tutta imperniata contro gli euromissili ora cominciano a diventare più seriamente antimilitaristi ed apprezzano la battaglia contro le spese militari, che per lungo tempo i radicali avevano condotto da soli. E dalle secche dello stallo est-ovest ora sono in molti a volgere finalmente la loro attenzione all'asse prioritario nord-sud (come la battaglia radicale "contro lo sterminio per fame" da anni intende proporre). Gli ecologisti scoprono, talvolta con stupore, che i radicali da anni avevano proposto un referendum antinucleare (giudicato, allora, da molti come una fuga in avanti) ed erano in prima fila contro la vivisezione, la caccia, il tiro al piccione e così via. I "verdi" che cominciano a fare politica si trovano a riprodurre metodi di

azione diretta e di iniziativa non-violenta che ormai anche nel linguaggio comune si chiamano "radicalate" (o "pannellate"), ed i cattolici non si vergognano più di esprimere qualche apprezzamento per certe azioni radicali: contro il concordato e la scuola confessionale i cattolici del dissenso, contro la fame nel mondo quelli del consenso. Operai, comunisti e demoproletari ormai hanno imparato ad impugnare l'arma del referendum, a lungo disprezzata ed anche ora forse usata a sproposito, e non trovano più ridicolo il digiuno, anzi, vi ricorrono. Ed un po' tutti quanti parlano di diritti civili, apprezzano la libertà, sessuale e le battaglie contro, le discriminazioni in proposito e protestano contro la partitocrazia. Insomma: pare quasi che oggi si scopra il "perché non ci si possa non dire radicali"...

Bisognerà dunque ammettere che i radicali hanno, nel corso di quest'ultimo decennio (ma a volte anche prima: contro i reati di opinione, contro il Concordato, per il divorzio...), "bene meritato", trovandosi spesso a condurre isolate battaglie di avanguardia che solo parecchio tempo dopo sono diventate patrimonio comune di più ampi settori di opinione e nelle quali hanno saputo usare magistralmente delle piccole forze per ottenere grandi effetti: perché anche questa è una caratteristica radicale importante, di non puntare solo sulla testimonianza, sul "l'avevamo detto", ma sulla concreta efficacia istituzionale delle iniziative, chiamando tutti con petulanza a misurarcisi. Valga per tutti l'esempio delle battaglie contro le leggi di emergenza e "per una giustizia giusta" (processo Tortora e caso Negri compresi).

Perché allora l'apprezzamento di cui i radicali godono sulla piazza (specie di sinistra) è così scarso e la collaborazione con loro appare così difficile? Perché tante volte si ha davvero l'impressione che certa opinione di sinistra i radicali li abbia abrogati, tanto che persino una persona di grande equilibrio e serenità come Laura Conti, in un famoso articolo sul "manifesto" del 29 maggio, veda in loro dei verdi d'accatto privi di consistenza e prospettiva? C'è da meravigliarsi se poi si sviluppano manie di persecuzione?

Certamente in parte vi influiscono delle questioni che definirei "quasi epidermiche". I radicali non hanno mai accettato l'egemonia comunista sulla sinistra e si battono anzi con vigore e spesso con acrimonia per demolirla. Non sono marxisti, e talvolta - pur nella relativa vaghezza della loro impostazione culturale - fanno i militanti anti-marxisti. Non amano e quindi disattendono (anzi, più spesso denigrano) tutto il convenzionale "strumentario unitario" della sinistra che va dai "dibattiti unitari" ai "cortei unitari". Cercano la provocazione, anche nella e contro la sinistra (e con particolare e talvolta senz'altro ingiustificato accanimento contro il Pci), e lavorano per confondere gli schieramenti - anche se poi a loro volta ed a loro modo ne ricreano, purtroppo.

I radicali hanno una (non infondata) fama di essere "inaffidabili", nel senso che possono cambiare tono ed alleanza, a seconda degli obiettivi e delle polemiche, senza tanti complimenti. Ne sanno qualcosa Flaminio Piccoli (partner nella legge sulla fame, denunciato per i suoi rapporti con Pazienza), Marco Boato (ex-eletto nelle liste radicali, querelato da Pannella) e lo stesso "manifesto".

Persino il successo dei radicali, che a volte riescono a costruire ponti ed alleanze dove altri ne dissertano soltanto (con i socialisti, con i democristiani, con i "laici", con certi paesi africani...), può diventare motivo di risentimento e di livore anti-radicale.

Per sintetizzare: la sinistra - ben al di là di singole iniziative o di linea politica oggi attaccate, ma poi riabilitate ed apprezzate anni dopo - ai radicali finora non perdona di non emanare lo stesso suo "Stallgeruch" (questa parola tedesca, che mi pare Cacciari non usi, vuol dire "fetore di stalla": quel caldo ed umido odore di intimità che fa distinguere "i nostri" dagli "altri").

Bene: io non credo che si possa e si debba continuare a far politica con lo "Stallgeruch". Neanche nei rapporti fra radicali e non. Bisogna avere l'onestà di dirlo apertamente, anche a sinistra, anche fra i verdi. Tanti intellettuali, sindacalisti, opinion-makers, politologi, giornalisti, politici e militanti dovrebbero, a mio parere, rivedere finalmente (anche se è tardi, forse troppo tardi) il loro atteggiamento di fondo verso i radicali. Senza lasciarsi sviare dalle loro intemperanze e dai loro vittimismi.

"Non demonizzare" (per usare una parola cara al Pr, i radicali non significa santificarli ad occhi chiusi. Né disconoscere la realtà. Che ci indica un partito radicale sostanzialmente identificabile nel suo gruppo dirigente, assai compatto e con una dialettica interna assolutamente impercepibile, nonostante le "dirette" di Radio radicale dai consigli federativi. E questo è sicuramente un vantaggio sotto il profilo del Pr come "forza di pronto intervento", ma umilia e disperde tante intelligenze "di periferia" (che però potrebbero trovare - ed in parte hanno trovato - un utile terreno di impegno nelle liste verdi) e consentirà difficilmente una crescita ed un'articolazione democratica del partito. Da tempo poi il Pr non riesce ad integrare persone nuove e significative, a livelli di rilievo, ed ha perso gran parte di quell'allargamento che nel 1979 l'aveva portato al 3 per cento alla Camera; anche alcuni significativi pezzi di storia e di militanza radicale oggi se ne sono andati.

Il Pr è un corpo politico estremamente "partitista": che agisce da partito, cerca in ogni momento l'affermazione di partito: come dei soggetti politici, tendenzialmente responsabili di tutto, che agiscono a tutto campo e con le logiche della politica partitica (a questo proposito continueranno ad esserci delle tensioni con i "verdi": non tanto per la "prevaricazione radicale" quanto per la fortissima pressione radicale perché i "verdi" diventino - nella sostanza, il nome poco importa - un partito).

Il Pr sotto questo profilo tende davvero a voler strumentalizzare tutto, e non si vergogna di proporre a destra ed a manca di "strumentalizzare" anche il partito radicale stesso (per i detenuti, per i verdi, per gli omosessuali...): la traduzione "in politica" di ogni cosa è la suprema strumentalizzazione, giustificata dalla necessità e dalla possibilità di vincere, di affermare degli obiettivi, di conseguire degli effetti.

Anche per questa ragione il Pr - soprattutto per chi non è e non vuole diventare un partito - è un partner assai difficile. "Chi non è con me, è contro di me", sembra il motto della sua politica di alleanze - anzi, come tempo fa l'Europeo (mi pare) aveva efficacemente sintetizzato, sotto l'immagine di Marco Pannella: "chi non è con me, è contro di sé". Potrebbe essere davvero definita così la quintessenza della "presunzione" (senza voler dare un connotato tutto negativo a questo concetto) e della politica radicale.

Può darsi che tra qualche tempo il Pr abbia esaurito la sua spinta propulsiva e possa, di conseguenza, accontentarsi di avere ormai "sfondato" su tanti fronti e disseminato tutto il campo politico di spunti, iniziative, idee, effetti, in una sorta di irradiazione "ellenistica" della propria cultura politica che potrebbe consentire ai radicali di sparire dalla scena in quanto tali. A volte mi pare che Marco Pannella veda un futuro già abbastanza ravvicinato senza un partito radicale a sé stante, autonomo e provocatorio soggetto politico. Ed infatti non è escluso che anche su un nuovo fronte, che presto sarà di attualità generale, i radicali possano tornare a sorprendere. Non è immaginabile che i cambiamenti prossimi venturi nella società e nella politica italiana possano passare attraverso la cruna dell'ago dell'attuale configurazione partitica. Chissà se il Pr non darà per primo il via ad un rimescolamento trasversale, che dovrà coinvolgere e travolgere collocazioni politiche, funzionamenti "interni", forme

di aggregazione e di azione, culture politiche e pratiche della democrazia - e la stessa nozione ed esistenza di "partiti" quali li conosciamo oggi. Il privilegio di non aver una numerosa e stabile base e di non disporre di un grande apparato, insieme all'inventiva di cui finora ha sempre dato prova, potrebbero predestinare il Pr ad aprire nuove strade sul terreno della grande riforma del sistema dei partiti. Con prevedibile beneficio per tutti coloro che non si rassegnano a stanche riedizioni o aggiustamenti ottici dell'universo politico deja vu.

Questo quanto ad un futuro non lontano. Ma per il presente - perché lasciare ai soli socialisti il monopolio di rapporti seri e reciproci con i radicali?

 
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